"Blue lady". Disegno courtesy di Tim Burton
Il foglio della moda
L'estetica del mostro è sempre irresistibile. Intervista a Tim Burton
Da Galliano a Demna, pochi registi hanno influenzato in misura così rilevante la moda di adesso, l’ironia e la tenerezza che mette nell’esplorazione del difforme, del buio che “se osservato abbastanza a lungo, si apre alla luce”. Incontro a Firenze fra Lady Macbeth e Lady Gaga
È difficile distinguere con precisione dove finisca Tim Burton e dove cominci il suo immaginario, perché l’uomo, prima ancora del regista consacrato, sembra procedere nel mondo come un’emanazione della propria opera: una figura che avanza nel buio con un passo morbido, lento ed elastico; quasi un appunto grafico che prende vita. L’ho incontrato qualche settimana fa a Firenze, in occasione della retrospettiva che gli ha dedicato la quindicesima Florence Biennale diretta da Jacopo Celona: “Tim Burton: Light and darkness” e mi è apparso come se stesse varcando la soglia del proprio teatro mentale.
L’architettura severa e luminosa della città lo diverte: “Firenze è l’opposto di Burbank, dove sono nato, dove tutto è nuovo e suburbano e dove sembra di vivere in un centro commerciale”, dice al “Foglio della Moda”: “Questa città è il suo esatto contrario, un anti-centro commerciale”, ha aggiunto ironico ma inconsapevole. Forse ignora quanto i centri storici italiani siano trasformati sempre più spesso in vetrine globalizzate. O forse si tratta di un’astuzia, ma tutto sommato poco importa: in Burton l’immaginazione ha sempre avuto il privilegio di superare la realtà fino a confonderla. I capelli, sciolti in un disordine eloquente, incorniciano il volto con linee ribelli.
Dietro le lenti viola degli occhiali, il suo sguardo registra tutto, come se ogni dettaglio fosse destinato a diventare un tratto di matita. Vestito come sempre di nero, non dà l’impressione di assecondare un’estetica o una posa: il suo è un modo di appartenere al mondo per sottrazione, una discrezione scelta, quasi rituale, per lasciare emergere ciò che immagina. Il mondo, in risposta, sembra accoglierlo come una delle sue scenografie viventi, un luogo sospeso tra il giorno e la notte. Mentre parla, sfiora con le dita il bordo di un taccuino. Il disegno, per lui, non è mai stato un accessorio, ma una “grammatica esistenziale”. Me lo disse anche due anni fa, a Torino, all’inaugurazione della sua antologica “The world of Tim Burton” nella Mole Antonelliana. “Non sono mai stato bravo con le parole, il disegno è diventato il mio linguaggio. Mi ha aiutato da bambino e continua a farlo”.
Anni fa, a Roma, ospite della Festa del Cinema, mi aveva confidato di disegnare “per non parlare troppo”. Oggi gli chiedo se il tratto sia per lui un silenzio o una difesa dal rumore del mondo. “Disegnare è per me un rifugio dal frastuono: mi calma, mi aiuta a concentrarmi e mi protegge. È un gesto spirituale, in mezzo al caos digitale che ci circonda”, dice con la tonalità pacata di chi ha imparato a preservare un nucleo di lentezza interiore, un altrove che non si lascia travolgere dal flusso di immagini usa-e-getta in cui viviamo. La linea, per Burton, non comunica, ma rivela. Lo dimostra anche la mostra fiorentina curata da Sarah Brown dove i suoi bozzetti, nati come annotazioni private, costituiscono un vocabolario formale che ha filtrato nelle arti visive e soprattutto nella moda. Silhouette esili, teste sproporzionate, arti filiformi: un’estetica della fragilità che si ritrova, senza bisogno di citazioni esplicite, in molte collezioni dell’avanguardia nipponica e del gotico europeo.
Da Miyake a Viktor&Rolf, da Junya Watanabe a John Galliano o Lee McQueen, entrambi stregati dai suoi film, fino al Balenciaga e Dior: tutti, in forme sottili e diverse, hanno intercettato quella vulnerabilità attiva che è una delle firme più riconoscibili del suo immaginario. Eppure, l’influenza di Burton non si limita alla moda e la sua estetica, che sembra sottrarre la materia alla gravità per restituirla a una dimensione emotiva, è arrivata - quasi per osmosi - anche sulla scena musicale.
La cantautrice Amy Winehouse lo adorava; Lady Gaga, prima della presentazione del dimenticabile “House of Gucci” in una piovosa serata milanese del 2021, mi disse che “Nightmare before Christmas” e “La sposa cadavere” sono tra i film che ama di più, tra quelli a cui si è ispirata per le sue creazioni: dalle ombre dense di evocazioni alle geometrie distorte, passando per i volti tenebrosi molto truccati e dalle espressioni sovraccariche. La stessa opera che fra pochi giorni inaugurerà la nuova Stagione del Teatro alla Scala “Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk” di Dmitrij Šostakovi, diretta da Riccardo Chailly e messa in scena da Vasily Barkhatov, è un’opera feroce e magnetica dove il tormento morale e la vertigine tragica della protagonista trovano una risonanza inattesa con le dialettiche burtoniane. Nel cinquantenario della morte di Šostakovi, quest’inaugurazione scaligera suggerisce che ogni tragedia è una forma di rivelazione e che l’oscurità, se osservata abbastanza a lungo, può aprirsi. Uno come Tim Burton, poi, che è stato il più giovane regista della storia a ricevere il Leone d’Oro alla carriera nel 2007, ha trovato invece i suoi spunti nel cinema espressionista, una delle avanguardie del cinema tedesco dell’inizio del secolo scorso.
“Edward mani di forbice” (1990) ricorda e omaggia “Metropolis” di Fritz Lang (1927) così come “Batman returns” (1992) echeggia “Nosferatu” (1922): film dove, come in “Ed Wood”, “Alice in Wonderland” e “Frankenweenie”, la vulnerabilità non è un difetto, ma una fenditura da cui entra la luce. Il goth di Burton è intimo, mai dichiarato, lontano dall’estetizzazione programmatica del cupo. “Non capisco nulla o quasi di moda, ma un abito su misura o delle belle scarpe hanno e fanno tutto un altro effetto” precisa, anche se poi “la moda” è protagonista nei suoi disegni negli abiti, negli accessori e nei dettagli dei protagonisti di quelle favole nere con un cuore pulsante, dove il mostruoso è sempre tenero, mai minaccioso e dove ciò che inizialmente spaventa può diventare familiare se guardato con la dovuta attenzione. Gli chiedo se questa logica valga anche per gli esseri reali che popolano il presente. “Da bambino vedevo nei film di mostri il simbolo delle fragilità umane. I miei personaggi possono sembrare fantastici, ma per me sono assolutamente reali”. La mostruosità come superficie provvisoria, la deformità come cifra emotiva, sono la declinazione empatica della sua personalità. Non è un caso che personaggi come Edward, Jack Skeletron o Victor, amatissimi dal grande pubblico, mantengano una timidezza luminosa, una goffaggine che diventa la bussola morale del loro mondo in perenne equilibrio tra luce e ombra. “Non puoi avere l’una senza l’altra. Il dramma è l’ombra, l’umorismo è la luce: servono per restare in equilibrio”, ricorda Burton pensando alle reazioni contrastanti che seguirono l’uscita di “Batman returns”, giudicato da alcuni più luminoso del primo film e da altri più cupo. La percezione della luce, osserva, è sempre soggettiva e allora gli chiedo dove si possa trovare la luce, in tempi che paiono oscuri. “Una scintilla c’è sempre, bisogna credere nell’energia positiva”.
È lo stesso nucleo di speranza che attraversa “La sposa cadavere”, di cui quest’anno ricorre il ventennale:” Un film in cui il mondo dei morti risulta più luminoso di quello dei vivi. “Parla d’amore, di legami e di famiglia. Sono molto legato a questo film, anche per la magia dello stop motion, così tattile e vivo”. Lo raggiunge la figlia Nell, avuta con Helena Bonham Carter, protagonista della recente campagna del brand americano di gioielli Larkspur & Hawk insieme a sua madre (non gli si può invece parlare della sua ultima ex, Monica Bellucci, che aprì la Mostra del Cinema di Venezia nel 2024 con “Beetlejuice, beetlejuice”, non deve aver preso benissimo la separazione). “Essere considerato un artista mi commuove”, aggiunge. “Le mie creature, come quelle dei maestri del Rinascimento, hanno sempre rifiutato l’uniformità, ma io, a differenza dei miei personaggi, non uso maschere”. Forse tutta la sua opera può essere letta non come una fuga nell’eccentrico, ma come un ritorno all’essenziale dove la luce esiste solo perché c’è l’ombra, il mostruoso diventa tenerezza e il silenzio linea. Burton appartiene, dunque, a quella genealogia rara di autori che non illustrano il mondo, ma che restituiscono alla notte una forma e alla luce una ragione. Mentre mi saluta e chiude il suo taccuino, per un istante sembra che il mondo intorno continui a disegnarsi da solo.
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