Il foglio della moda
Vestire il futuro. La moda perde terreno, cresce il comparto della bellezza, cambiano i gusti
Strategie per il rilancio in un clima mondiale affaticato da due conflitti, ai quali in Italia si aggiungono i debiti post-Covid contratti dalle grandi aziende con lo stato e la necessità di una profonda ristrutturazione del sistema dei distretti
Scrivere adesso di strategie di ripresa della moda è un esercizio difficile, soprattutto perché i fattori che giocano contro questo recupero – che sarebbe più corretto affiancare a un inevitabile e per certi versi sano ridimensionamento - sono molteplici, e non riguardano solo i due conflitti in corso in Ucraina e nel Medio Oriente, ma anche un’importante serie di elementi endogeni, geografici e, per l’Italia, finanziari.
Vale subito la pena dirlo: in Italia, nei mesi prossimi, arriverà a scadenza per molte aziende il prestito Sace pandemico, talvolta pesante per decine di milioni, e per nomi anche molto importanti del sistema saranno guai seri. In un caso, quello di Aeffe, lo sono già stati, e si sono risolti con la cessione della divisione profumi Moschino a Euritalia, un deal da 98 milioni che aiuterà il gruppo a riprendere fiato, e con la decisione della co-fondatrice, Alberto Ferretti, di lasciare dopo quarant’anni la direzione creativa del marchio eponimo. Anche se fare la morale ex post è un esercizio comodo e facile, già più volte, da queste pagine, avevamo segnalato che il “revenge shopping” post-pandemico, sostenuto da un biennio di risparmi, sarebbe durato poco e che, in parallelo, rivedere verso l’alto del 20-30 per cento all’anno i costi degli accessori più ricercati avrebbe eliminato completamente dall’accesso al lusso la fascia media del pubblico che, pure impoverita, avrebbe potuto continuare a desiderare almeno una borsa nuova all’anno e ora non può più permettersi nemmeno quella. Concentrare ogni strategia sui super-ricchi non ha pagato come atteso, e non è detto che lo farà in futuro: credere che, oltre alla ripresa del Giappone, paesi a benessere crescente come la Thailandia, o le Filippine, o l’India della quale sento parlare da almeno vent’anni ma che non diventerà mai l’Eldorado della moda a causa delle forte divisioni sociali, vorranno acquistare esclusivamente brand occidentali, è una pia illusione (la moda, per crescere, ha bisogno di fluidità e di mobilità sociale, non di un rigido sistema di caste, la storia occidentale insegna: abbiamo iniziato a crescere quando si è affermata la borghesia e sono saltate le leggi suntuarie), e l’editoriale di Orietta Pellizzari in questa pagina lo racconta bene.
I cento milioni di nuovi super-abbienti che tutte le analisi di settore danno per sicuri nei prossimi cinque anni rappresentano certamente una bella speranza, che però non basta a compensare il presente, in decrescita del 4 per cento nelle analisi più misericordiose: essere convinti che i ricchi vogliano riempirsi i guardaroba di borse e scarpe, senza magari destinare tempo e denaro a viaggi, arte, beneficenza, è la seconda di queste illusioni che rischia di essere disattesa dalla realtà. Uno degli altri fattori limitanti è di ordine psicologico: sulla moda, secondo fattore di inquinamento mondiale, inizia ad aleggiare uno stigma ecologico-sociale che spinge molti, giovani soprattutto, a rivolgersi al mercato del vintage, e molti altri a sfoggiare con orgoglio gli abiti e gli accessori della mamma o della nonna, talvolta rigenerati e talvolta nemmeno. “Suscitare nuovamente il desiderio”, “tornare desiderabili”, è stato il grande mantra delle ultime sfilate, da New York a Milano a Parigi, che però, mentre il foltissimo pubblico dei modaioli continua a viaggiare da una sfilata all’altra, da un cocktail all’altro, inebriato dal proprio piccolo privilegio e ostinatamente cieco nei riguardi dell’evoluzione in corso, sembra scontrarsi con un costante cambio dei desideri del pubblico, vasto o selezionato che sia, e che è testimoniato invece dai dati relativi ai viaggi, sold out già adesso tutte le mete più desiderabili per Natale, con voli in classe business, e dal grande successo della cosmetica e della profumeria, per la prima volta entrata a far parte delle analisi del comparto moda-abbigliamento, forse per mitigarne le performance negative.
I dati diffusi nel corso della Beauty Week di Milano, che è seguita a quella della moda, parlano di un comparto in grande espansione, grazie alla maggiore attenzione per sé, per il proprio benessere, seguito allo choc pandemico: nel 2023, il fatturato totale del settore cosmetico italiano ha superato i 15,1 miliardi di euro, in crescita del 13,8 per cento rispetto al 2022, e sono positive anche le stime per il 2024 che vedono il giro di affari oltrepassare i 16,6 miliardi di euro, in crescita del 9,8% sul 2023. In sintesi: si preferisce affollare le spa, le palestre e i percorsi wellness invece delle boutique, e questo spiega anche il clamoroso successo di Miu Miu, che nei paesi più toccati dal Covid, a partire dalla Cina, ha proposto linee specifiche per questa nuova esigenza.
“L’athleisure resta una delle grandi tendenze di questi anni”, dice al “Foglio della moda” Erika Andreetta, partner di PwC Italy per la quale guida il settore luxury e consumer goods e con la quale condividiamo la responsabilità del progetto di ricerca annuale “Donne e Moda”. “Meno sensualità e ricchezza sfrontata e piu’ “strange things”, irrazionalita’ e dadaismo”, agiunge, parlando di quanto si è visto in passerelle e che giustifica gli acquisti di quella piccola fascia di collezionisti per i quali comprare un abito equivale e tenere in casa un’opera d’arte, e che sono poi i compratori di Schiaparelli, di Loewe, di Courrèges, del nuovo astro nascente Duran Lantink, premiato di recente da Lvmh. Ma, mentre fra i grandi gruppi infuria la battaglia per mettere sotto contratto le celebrities, fotografarle in prima fila, stringere con loro collaborazioni, partnership, testimonianze pubblicitarie, una strategia che avvicina sempre di più la moda all’entertainment e della quale è prova diretta ed evidente la creazione, da parte della famiglia Arnault, di una casa di produzione cinematografica e l’acquisizione della totalità delle azioni del settimanale “people” “Paris Match”, è evidente che per la moda italiana, cioè per la vastissima compagine di piccole e piccolissime aziende cresciute negli ultimi quaranta-cinquanta anni come façoniste sull’onda di una domanda sempre crescente, ma mai davvero specializzate, mai capaci o lungimiranti abbastanza per investire su un proprio marchio o dotarsi di un management all’altezza, sia suonato il redde rationem. Mentre il governo Meloni, assediato da più tavoli di crisi di quanti possa reggerne a fronte di un calo produttivo che in settori come la pelletteria supera il 18 per cento, pensa a un piano di salvataggio per i nomi più rilevanti, più strategici, forse anche più meritevoli che è sempre una valutazione difficile e per la quale ci vorranno competenze specifiche, è evidente che vada rivisto questo sistema produttivo, nato anche molto spontaneamente, nei piccoli appartamenti e nei casali di campagna, a cavallo e subito dopo le due guerre mondiali e da allora mai davvero aggiornato. “Dovremmo lavorare congiuntamente a un piano di ristrutturazione e rilancio dei distretti”, dice ancora Andreetta, conscia che il vulnus si trova lì, in quelle decine di migliaia di piccole aziende che in questi anni, e nei casi migliori, sono state fatte oggetto di molte attenzioni da parte dei grandi gruppi. La verità che nessuno vuole raccontare è che nel giro di pochi anni, il famoso Made in Italy della filiera, le manifatture specializzate saranno entrate a far parte dei grandi gruppi, sperabilmente italiani come Zegna o Prada che già ne hanno acquisite molte ma è più probabile straniere, mentre tantissime altre, che avevano raggiunto una certa o anche una discretissima prosperità (talvolta grazie anche a speciali incentivi sulla lavorazione, vedi il calzaturiero della gomma nelle Marche), dovranno rassegnarsi a cambiare, ad accorparsi o a chiudere. C’è ancora tempo per intervenire, purché se ne abbia la voglia e la volontà. Ma è chiaro che, oltre le star in passerella, il perimetro della moda va restringendosi, e i debiti aumentano anche per nomi insospettabili.