Il Foglio della moda
Alain Delon non deve morire: prototipi di bellezza nella pubblicità
Riflessioni attorno al culto eterno dell’estetica armoniosa e a uno spot (giustamente?) fuori dal tempo e strabordante di stereotipi femminili presentato in Laguna. Che dimostra come, dopotutto, sia inutile lottare contro l’Italia da cartolina e perché i cannoli à la Dolce&Gabbana colpiscano sempre l’immaginario
Quel che è successo in agosto a una collega è un buon prodromo di un ragionamento sul rapporto popolare con la bellezza: anzi, con la sua rappresentazione. Quando, per la morte di Alain Delon, ha osato scrivere, e ahilei anche dichiarare in televisione, che insomma sì, fu attore bravino ma solo quando diretto da grandi registi, umanamente discutibile e che per sempre lo memorizzeremo per il volto da cammeo e gli occhi azzurrobaltici, è stata al centro di una shitstorm che lèvati. Molti lettori, ma soprattutto lettrici, l’hanno ammonita inveendo in maiuscolo su social e siti che uno così bello non può essere né un cattivo attore, né un cattivo e basta. Insomma, kalokagathìa in purezza e assoluta impermeabilità ai tempi che cambiano. Ma cambiano? L’uomo, nel senso di umano pene-munito, è sempre stato abile nell’abbinare per sé stesso gli aggettivi “bello + buono”, mentre ha limitato il concetto di bellezza tout court per la donna, che secondo la concezione classica può essere avvenente ma non obbligatoriamente virtuosa, se “virtù” deriva da “vir” (ed ecco nuovamente un privilegio maschile). Ora che il politicamente corretto - con la conseguente accettazione della diversity, della body positivity, dell’inclusivity e altri anglismi con desinenza in “ty” - ha svolto il suo lavoro e sta via via scolorendo nel dimenticatoio del fuori moda, non ci si sorprende poi tanto notare che, specialmente nelle pubblicità o “commercial” che fa più fine, le cautele tornano a rilassarsi nel pantheon della perfezione formale più canonica che c’è, scolpita nel marmo o almeno nel Photoshop: qui la diversità sembra rimasta bloccata alla porta come un’ospite indesiderata a un party per pochi eletti.
Del resto, mica è un peccato, amare la bellezza standard. Oppure no? “Beauty is not a Sin”, la bellezza non è peccato, è il titolo dell’”independent movie” che il regista Nicolas Winding Refn, famoso soprattutto per “Drive” con Ryan Gosling, amato dall’intellighentsia modaiola per le pellicole estetizzanti e truculente, ha girato per MW Agusta. Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, che per la prima volta, sulla scia del Festival di Cannes, si apre ai commercial d’autore (“independent”, sul serio?) NWR, come lo chiamano i fan, era in Laguna anche per presentare la versione restaurata del suo film d'esordio, “Pusher”. La trama del commercial: in un paesino siciliano, si riconosce Ortigia, una giovinetta molto instagrammabile, vestita di nero vedovile e velata in look stile Dolce&Gabbana (gli abiti sono stati scelti dall’ottima stylist Amelianna Loiacono), s’incammina verso una chiesina barocca per confessarsi. Anche il sacerdote è singolare, un po’ hippy, un po’ guru: fascinoso, adulto, tatuatissimo perfino sulle mani. L’aggraziata bambolina ammette di aver commesso peccati di gola ingozzandosi di spaghetti e cannoli, di lussuria perché si è sdraiata con un giovane aitante, ma prima di tutto ha osato provare tanta, tanta invidia per una moto che vede sfrecciare in piazzetta. Lo intuiamo dalle immagini, perché le parole vengono sopraffatte dalla colonna sonora. Spoiler: indovinate un po’ di chi è la moto? Esatto! Del prete istoriato e ora un po’ turbato.
Oltre al corto d’autore, dal 14 settembre ci sarà un’installazione di Daniel Arsham sempre a Venezia, nella chiesa sconsacrata di Santa Caterina: una motocicletta scolpita nella calcite, in ovvio link con l’ambientazione ecclesiastica. Refn si dice sicuro di aver compiuto un’operazione artistica (a domanda “pensa ci sia differenza tra il fare film puri o su commissione?”, risponde di credere “che l’arte sia una reazione di autenticità e impegno” e che quindi questa sia “un’autentica creazione NWR”, insomma, un nome, un brand). Però, permetteteci una domanda: davvero c’è ancora bisogno di incorniciare l’interessante tema del desiderio, anzi della bramosia del possesso, in una cartolina della provincia italica tutta vizi privati e pubblici rituali, passioni carnali, godurie fisiche, motori veloci e cannoli allusivi (se non altro i D&G saranno contenti, finalmente qualcuna che ingolla il dolcetto del grande incidente con la Cina)? “Il prodotto qui è secondario; la narrazione lo mette in secondo piano, e abbiamo lasciato a Nicolas ogni scelta: cast, location, trama”, assicura Max Brun, produttore della pubblicità che peraltro sarà trasmessa solo sulle piattaforme o in cinefestival internazionali, che da anni segue anche il progetto molto diverso dei Miu Miu Women’s Tales (vedere apertura di questo numero). “Stereotipi? Ma no… Le dirò di più: siamo chiamati da aziende di prodotti di largo consumo che chiedono di essere raccontate in una dimensione letteraria”.
Se il lusso o il masstige come in questo caso, per vendersi sceglie spesso strade antiche o improbabili (forse a Refn una spiega sui metodi della chiesa cattolica avrebbero dovuto darla, il prete con la moto da 71mila euro va un po’ oltre qualunque giustificazione fantasiosa), bisogna però domandarsi perché esistano ancora pubblicità come questa. La moda aveva almeno provato, a fare i compiti a casa su disomogenee definizioni del bello: modelle di complessioni diverse, cosmetici promossi da creature fluide, ragazze diversamente giovani, facce segnate da cicatrici, corpi decorati da tatuaggi, tutti celebrati come nuovi, ideali estetici. “Ma è un mondo più avanti, soprattutto nelle riviste specializzate: già per gli spot dei profumi, per esempio, vengono ingaggiate dive dalla solita bellezza irraggiungibile”, spiega Loiacono. E infatti, in tv sono ricomparse le solite stangone, amen. “La comunicazione pubblicitaria lavora su tempi e spazi molto limitati che si misurano normalmente in secondi o in pagine di giornali”, interviene Annamaria Testa, tra i più noti creativi pubblicitari internazionali, “quindi lo stereotipo, in certi casi, costituisce una scelta obbligata. La pubblicità non può mai essere rivoluzionaria. Dev’essere compresa da tutti immediatamente, attraverso immagini, concetti, sensazioni già radicate nell’immaginario collettivo e modificate per assecondarle o renderle funzionali al prodotto, così da amplificarne la portata”.
Ma proprio per il suo essere così pervasiva, la pubblicità non potrebbe veicolare anche idee diciamo, non così consuete? Magari potrebbe essere utile anche nel proporre nuove forme di bellezza… “La bellezza, piaccia o meno, segue specifiche costanti, in tutti i tempi e in tutte le culture. Una è quella della simmetria facciale, codificata anche dalle neuroscienze e dalla psicologia evolutiva: la consideriamo più o meno consciamente un segno di benessere e idoneità genetica. Un altro canone ricorrente che resta è la proporzione tra vita e busto per le donne e l’altezza per gli uomini”. Dunque, saremo sempre ancorati a diktat primigeni? “Certo che no. Però l’aspetto culturale non arriva mai a scalfirne l’essenza profonda. Certo, per i maschi esiste un doppio standard di giudizio: se per le femmine essere belle viene associato alla giovinezza, connessa alla fertilità e alla salute riproduttiva, per loro, come noto, la piacevolezza fisica può durare più a lungo”.
Annamaria Testa: “La bellezza segue codici neuroscientifici. Ci piaccia o meno”
E come la mettiamo con Alain Delon, che rimarrà impresso nella versione “young & beautiful”? “Le donne non rimpiangono lui, ma elaborano il lutto per la morte della sua bellezza: non gli perdonano di essere invecchiato male, e questo si è trasformato in una sorta di comunitario memento mori” (è vero: nel 2017 Dior utilizzò una foto dell’attore francese del ’67 per la campagna di Eau Sauvage, causando fenomeni di isteria consumata sui social, tra ragazzine che si chiedevano da dove fosse sbucato quel modello così figo, ndr). Ma perché in certe pubblicità anglosassoni, soprattutto inglesi, vediamo persone anche bruttine, ma che sono perfetti veicoli della promozione del prodotto? “Perché lì c’è l’intermediazione dell’ironia, che a noi mediterranei non appartiene. Anzi: le aziende diffidano dello scherzo, che magari strappa un sorriso. Conosciamo la dimensione del comico, non dell’ironico, se non in certi casi: se pensa al video con Rocco Siffredi idraulico, il marito è interpretato da un attore dalla faccia comune”. Sì, ma è lo spot di un sito che paragona le tariffe di luce, gas, assicurazioni, non di un oggetto di lusso… “Non è vero. Tutte le campagne sono aspirazionali: se quello stesso marito fosse stato il protagonista di un marchio di biscotti, per esempio, sarebbe stato più belloccio, trentenne, avrebbe fatto colazione in famiglia con una moglie avvenente ma non troppo, due figli simpatici e sorridenti, un cane buffo, dentro una cucina enorme e tempo a disposizione… Quante ne conosce, di famiglie così? Vede, anche per i beni di prima necessità c’è uno standard di bellezza, sia pur domestica, rassicurante”. “Anche oggi che la pubblicità non è più centrale nella produzione culturale popolare, com’era negli anni Ottanta, le sue retoriche hanno contaminato qualsiasi forma di comunicazione”.
"Se quello stesso marito fosse stato il protagonista di un marchio di biscotti, per esempio, sarebbe stato più belloccio, trentenne, avrebbe fatto colazione in famiglia con una moglie avvenente ma non troppo, due figli simpatici e sorridenti, un cane buffo, dentro una cucina enorme e tempo a disposizione… Quante ne conosce, di famiglie così?"
Ma se il problema fosse a monte, cioè nella committenza, ormai priva di coraggio e voglia d’innovazione? “Assolutamente”, risponde Gianpietro Vigorelli, nome di riferimento dell’advertising italiano degli ultimi decenni. “Quando le grandi imprese hanno deciso di fare a meno delle agenzie per risparmiare, hanno nebulizzato i loro budget reclutando influencer, registi più o meno famosi che richiamassero l’attenzione, interpellandoli direttamente e, molto spesso, senza saperli orientare. Si è interrotto un rapporto tra i professionisti, i committenti e gli esecutori e questo ha causato una profonda crisi”. Resta il nodo dell’estetica, della bellezza. “Non mi pare che la pubblicità non si sia evoluta: banalmente, non ci sono più le signorine procaci abbarbicate a bottiglie di grappa o lattine di birra”. E la narrazione? “Ma sta scherzando? Vada a rivedersi i film Barilla di quasi quarant'anni fa ideati da Gavino Sanna che aveva inaugurato proprio la prassi del racconto. Pensi che, all’epoca, per Campari avevamo realizzato uno spot in cui il protagonista era truccato per metà da uomo e per metà da donna: quella, allora, era provocazione, ma oggi? E non funzionano più nemmeno le testimonial attraenti: raggiungono solo il risultato di drogare la marca. Bisognerebbe rinnovare il sistema di affezione al brand senza dover ricorrere a nomi famosi”. Una rigenerazione degli stilemi arriverà dall’intelligenza artificiale? Conclude Testa: “I social sono arrivati da pochissimo, eppure hanno rivoluzionato il modo di comunicare tanto da far dimenticare non solo alla Generazione Z ma anche ai boomer il mondo predigitale. Ai miei studenti faccio sempre questo esempio: il signor Francesco Papa - che esiste - è alla pari, per potenzialità di auto-esposizione, a Papa Francesco. Ma questo non significherà la nascita di differenti, molteplici e inediti standard di gradevolezza, quanto una omologazione sempre più endemica. E il mio timore è che le persone, in un futuro prossimo, vorranno farsi conoscere non per come sono, ma per come potrebbero apparire secondo i modelli stabiliti dall’AI, con la conseguenza di non voler più conoscere nessuno dal vivo. Uno scenario che mi terrorizza”.
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