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A ciascuno il suo cappotto: dal camel coat di Delon e Brando al logoro pastrano di Gogol'
L’abito non fa il monaco e solo qualche volta il soprabito fa il personaggio. Il cappotto cammello e il feticcio del paltò rivelatore, un capo senza tempo
L’abito non fa il monaco e solo qualche volta il soprabito fa il personaggio. E’ la morale della diatriba tra cinefili divampata dopo la morte di Alain Delon sul cappotto cammello che l’attore indossò ne “La prima notte di quiete“ di Valerio Zurlini, e sull’ineluttabile paragone con l’altro divo Marlon Brando, che sempre in quel 1972 vestì lo stesso capo in Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci. Qualcuno giura che entrambi i camel coat appartenessero ai registi, altri affermano che nel caso di Delon il cappotto provenisse dal suo guardaroba. Nessuno dei quattro interessati può dircelo, ma fatto sta che a Zurlini e Bertolucci, per rappresentare personaggi ciascuno a modo proprio maledetti e disengagé, balenò nello stesso tempo la medesima idea (un’ulteriore diatriba riguarda l’ipotesi di un plagio costumistico, ma mancano le prove).
Il cappotto cammello, destinato generalmente a rivestire l’eleganza borghese prima e dopo quei film, contribuì ad animare il tormentato professor Daniele Dominici e lo smarrito Paul, chi in una Rimini non felliniana chi in una Parigi opprimente, grazie al contrasto con l’abbigliamento trasandato che entrambi sotto quell’indumento rivelavano. Come un demone celato a malapena sotto una buccia rispettabile, come la spada nella roccia di cui si vede l’elsa però la lama acuminata resta insondabile nella profondità. Eppure, malgrado la simbologia persuasiva, è chi indossa a siglare la cifra definitiva. E’ il monaco che assevera l’abito. Nel decennio ’70 quel cappotto evocava mondi molto diversi quando veniva esibito dal boss della Nuova camorra organizzata, Raffaele Cutolo, che avrebbe ispirato un fortunato brano di Fabrizio De André, Don Raffae’ (“Voi tenete un cappotto cammello / che al maxi processo eravate ’o cchiù bello”). Non era il protagonista di un film, anche se nelle sembianze di Ben Gazzara arriverà al cinema con Il camorrista di Giuseppe Tornatore. Cutolo era un maledetto vero e quel paltò, come gli occhiali dalla montatura d’oro e i completi di buon taglio, rappresentava lo status conseguito dal boss, allora ispirato all’agiatezza borghese e che oggi guarderebbe più al look di qualche divo della musica.
E’ il personaggio che si fa padrone e interprete degli abiti, sicché il cappotto cammello diventò ancora un’altra cosa quando entrò in simbiosi con l’allenatore del Napoli Bruno Pesaola il petisso, che come molti argentini si sentiva a casa sotto il Vesuvio anche se raggiunse il picco di gloria sulla panchina della Fiorentina quale artefice del secondo scudetto, nella stagione ’68/69. Non si può evocare Pesaola senza le sue battute e senza quel cappotto, indossato non tanto per il freddo degli inverni napoletani né con pretese di eleganza, quanto per pura e semplice superstizione. In una qualche domenica che è ormai difficile precisare, il petisso si convinse che vestirsi così gli portava fortuna e da allora il cappotto divenne come la coperta di Linus o gli attributi fissi dei santi, come il giglio per sant’Antonio di Padova, il teschio per la Maddalena o il cane di san Rocco. Né cambiò idea quando veniva smentito dal risultato, perché come certi giocatori del Lotto o di poker – e le partite a carte con gli amici tennero sveglio l’argentino per centinaia di notti fino a tarda età – trovava sempre una spiegazione incidentale alla mancata efficacia del talismano.
Un decoroso camel coat è anche quel che resta di una trascorsa fortuna finanziaria quando al gioco si dilapidano i patrimoni. Ecco il conte Raffaello Mascetti, che tre anni dopo i drammatici Delon e Brando sfoggia in “Amici miei” il soprabito impreziosito dal collo di pelliccia, giusto per ricordare che “fino a ventun anni” si era fatto vestire e spogliare dal cameriere e che il suo viaggio di nozze durò tre anni e mezzo (“con moglie e un orso di due metri al guinzaglio”). Grandeggerà a spese del Grand Hotel La Pace nel sequel della saga cinematografica comprando finalmente un nuovo “cashmirino di Zanobetti”, prestigioso marchio fiorentino, al prezzo di “un milioncino a rate” (che evidentemente non potrà pagare). E sarà sempre Ugo Tognazzi a interpretare il personaggio di Ugo Cremonesi detto Picchio, artista di avanspettacolo decaduto, che un po’ riverbera le sorti del conte Mascetti in Primo amore di Dino Risi. E’ il 1978 e l’attore torna a indossare, con esito felice, il cappotto cammello.
Versatile fino alla contraddizione, incarnato dal suo possessore, lo stesso capo vestito da Lou Castel s’attaglia benissimo alla tragica trama di “Gli occhi, la bocca", scritto e diretto da Marco Bellocchio nel 1982.
Quarantadue anni dopo, per quanto paia declinata la loro sorte sul grande schermo, i camel coat resistono alle volubili stagioni della moda, che anzi si preannunciano floride. Quest’anno Vogue ha classificato il cappotto cammello di Max Mara come un “ultimate fashion investment”, però la sua fortuna pare abbia cambiato genere. Resta affidata alle donne. Capofila la pluripremiata attrice Emma Stone, che ha sfoggiato il capo nello scorso inverno newyorkese ma sempre dopo Lady Gaga e Kim Kardashian, anche se i cappotti cammello più celebri degli ultimi anni si censiscono al di qua dell’Atlantico. Sono quelli di Meghan Markle duchessa di Sussex e di Kate Middleton, la principessa di Galles che per alcuni avrebbe voluto imporsi pure in questo sulla cognata eterodossa. Altro che conte Mascetti. Secondo Vogue la storia del cappotto cammello, da quando fu indossabile anche dalle donne, ha rappresentato una ribellione al patriarcato, e poveri noi che ancora lo associamo alle vicende tra Brando e Maria Schneider in quell’appartamento parigino o alle zingarate tra le colline toscane di una banda di amici assiduamente maschilisti.
Una cosa però mette d’accordo tutti: quel capo è davvero, per usare gli aggettivi della stampa specializzata, timeless. Ageless. Dipende poi dai ricordi di ciascuno se collegarlo a un aneddoto o a una persona, se al cinema o a una panchina di calcio, a un’aula di tribunale o alla letteratura oppure a quella zona intermedia tra i libri e la vita rappresentata dalle redazioni editoriali. Qui il posto d’onore, in un’epoca che precedette i film con Delon e Marlon Brando, spetta al cappotto cammello di Giangiacomo Feltrinelli. Non sarebbe passato alla storia se un giorno lo scrittore Luciano Bianciardi, estenuato da una lunga riunione in cui aveva ascoltato molte nobili tirate sulla lotta di classe, ma anche comparando il lussuoso soprabito dell’editore alla sua frusta palandrana, non avesse espresso coi fatti la sua coerente adesione. S’infilò il cappotto sartoriale del capo e salutando con il pugno chiuso si congedò. Il beau geste secondo la vulgata gli costò il licenziamento, tuttavia Bianciardi per qualche anno si protesse dal freddo della “vita agra” milanese con invidiata eleganza.
L’ambizione dello “ultimate fashion investment” mantiene vivo, anche nell’èra dei giacconi per tutti, il feticcio del paltò rivelatore della condizione sociale fissato in paradigma dal più famoso racconto di Nikolaj Gogol’, protagonista il miserabile impiegato Akakij Akakievic dal logoro pastrano in mezzo al gelo pietroburghese, cui il destino spietato impedisce di godere del cappotto nuovo conquistato con aspri sacrifici. Il ragionier Ugo Fantozzi riecheggerà in registro comico, con il suo informe “spigato siberiano”, la mestizia di un archetipo che scrittori e drammaturghi hanno sfilato spesso dall’appendiabiti della memoria, come noi conserviamo la frequente immagine di “un letto trasformato in guardaroba” nel nostro appartamento o in qualche proustiana casa al “quinto piano di una scala D, pianerottolo a sinistra”, per le volte che siamo stati promotori o ospiti di qualche festa. (En passant, Lorenza Foschini intitolò un libro sentimentale purtroppo fuori catalogo alla fragile reliquia del cappotto di lontra da cui l’ultimo Marcel Proust non si separava più).
Nel mordace rapporto che ammanetta la povertà al freddo, ogni stile di vestiario, erotico, maudit, superstizioso, farabuttesco, cede la scena alla primaria funzione della sopravvivenza. Solo con paterno eroismo un genitore poté vendere “la vecchia casacca di frustagno, tutta toppe e rimendi”, per comprare l’abbecedario al figlio (povero Geppetto); solo per fame si poteva impegnare l’unico paltò ma senza illudersi che fosse “quello di Napoleone”, come accade in Miseria e nobiltà. Oppure proteggersi, quando Totò e Peppino impersonano “i fratelli Capone”, con un esagerato cappottone e colbacco arrivando alla stazione di Milano per salvare il nipote dalla “malafemmina”, perché nel dopoguerra il capoluogo lombardo è per l’immaginario meridionale l’emblematica terra del freddo. Peggio si sta nel più rigido clima di Parigi, dove il protagonista del Cappotto di Astrakan di Piero Chiara si ritrova vestito leggero, però quando indossa un pregiato soprabito finisce in una trama equivoca sul tema del doppio che diede spunto anche a un film con Johnny Dorelli, un po’ troppo impacciato nel ruolo principale. Non è dunque l’abito a fare il personaggio, nemmeno nella vita reale. Tommaso Landolfi, profondo conoscitore di Gogol’, da scrittore e giocatore in una delle frequenti visite al Casinò di Sanremo individua al primo sguardo e non per il cappotto il “vero Akakij Akakievic del tavolo verde”: è “un sistemista incartapecorito e occhialuto” destinato all’immancabile perdita; apprende invece dell’avvenuta disfatta di un altro habitué, soprannominato alla roulette il Diavolo di Modena, perché “è stato veduto l’ultima volta nell’atrio della stazione, senza bagagli né cappotto, con solo una borsuccia da avvocato sotto il braccio”.
Al di là di ogni Brando e Delon, un cappotto è un cappotto ovvero il sintomo del personaggio che non lo definisce più del segno astrologico o del tifo per una certa squadra di calcio. Più che altro ne asseconda la credibilità, come per i presidenti della Repubblica, difficili da immaginare senza un sobrio paltò scuro, come apparve anche Giovanni Leone sulla copertina di un celebre pamphlet diffamatorio o come fu per il parsimonioso Enrico De Nicola, malgrado nell’austero dopoguerra anziché acquistare un capo nuovo avesse fatto rivoltare il vecchio, secondo prassi allora comune e oggi desueta nelle famiglie e nelle sartorie. Al di là dei panni istituzionali, a rendere la differenza è chi indossa. E’ l’Humphrey Bogart nell’impermeabile di Casablanca, è il Robert Redford dentro il giaccone marinaro ne I tre giorni del Condor, è Audrey Hepburn nel cappottino Givenchy di Holly in Colazione da Tiffany.
Lo riprova il caso del loden, che subissò per quantità di menzioni il cappotto cammello all’arrivo di Mario Monti alla presidenza del Consiglio, e assurse a simbolo del rigore o del rigorismo suscitando in chi si opponeva anche una ribellione lessicale: nel 2012 il dizionario Treccani registrava il neologismo ironico spregiativo “Bin Loden” associato al professore, “visto come responsabile, sotto mentite spoglie rassicuranti, di una politica fortemente vessatoria”. Né il passaggio degli anni né il largo uso del loden sono riusciti a recidere quel binomio tra abbigliamento e politica (mai più visto sin dai tristi tempi dell’eskimo), sicché recentemente Monti ha sbottato in tv: “Una volta mi spiegherete che cosa cavolo c’entra il loden col carattere di una persona”. Non ha torto: la meno austera umanità ha indossato in varie tinte il capo altoatesino che fu reso popolare dall’imperatore Franz Joseph e nessuno ha associato Helmut Berger o Rudolf Nureyev ai tagli alla spesa o al recupero dell’evasione fiscale. Decide chi sta nel cappotto ed è curioso ricordare che la costumista Silvana Scandariato, quando volle connotare Maurizio Merli in Roma violenta, ricorse proprio al loden (grigio) quale sostituto dell’ineluttabile trench per il suo dottor Betti, icona cinematografica di tutti i commissari del filone poliziottesco. Altro che economista da “110 e loden”.
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