(foto AP)

il vero guaio

Meghan ha trasformato Harry in un testimonial (in tight) del Grande Piagnisteo

Alberto Mattioli

In compagnia dell'attrice americana il duca di Sussex, da baldo soldataccio bevitore di birra e gaffeur politicamente scorretto che era, è diventato un salice piangente impegnato a lamentarsi full time

E dunque alla fine Harry è dovuto andare al funerale di nonna in tight (paradossale, però: i due Windsor a non potersi mettere la divisa sono gli unici che la guerra l’hanno fatta davvero, Andrea alle Falklands e Harry in Afghanistan). Indossare l’uniforme per la veglia è stata l’eccezione che conferma la regola: avendo scelto di non fare più parte di The Firm, “la Ditta”, Harry ha dovuto dire addio anche ai relativi pennacchi. E tuttavia immaginiamo già la nuova ondata di recriminazioni in arrivo dalla parte maschile della coppia Sussex, che già si è detto “devastato” perché, in quell’occasione, gli avevano tolto dalle spalline il monogramma reale, riservato ai militari in servizio. Altre devastazioni sono arrivate dal mancato invito o dall’invito poi ritirato, non è stato chiarito né mai lo sarà, al ricevimento a Buckingham Palace, eccetera eccetera. Il cahier de doléances è ormai più lungo di quelli del Terzo Stato (nel Regno Unito, il Quarto, com’è noto, rimane nei secoli fedele ed è il vero sostegno della Corona, nonostante tutti gli Harry del mondo). 

 

Il vero guaio del matrimonio con Meghan è che costei ha trasformato un baldo soldataccio bevitore di birra e gaffeur politicamente scorretto (le famigerate foto mentre fa il saluto nazista) in un salice piangente impegnato a lamentarsi full time, in piena sintonia con il nostro evo del Grande Piagnisteo. Politicamente scorrettissimo, nonno Filippo lo avvisò invano: “Le attrici vanno frequentate, non sposate”. Specie poi se sono impegnate ad autopromuoversi dichiarandosi vittime di ogni possibile discriminazione, perché donna, perché attrice, perché americana, perché un po’ abbronzata, come disse Silvio nostro in una memorabile occasione. Un micidiale cocktail di correttezza politica, sessuale e razziale, di femminismo prêt-à-penser, di benpensantismo easy going, perfino con una spruzzata di new age. Shakerate, servite freddo (già, la spontaneità, questa sconosciuta) e avrete “Archetypes”, il podcast su Spotify dove la duchessa di Sussex pontifica sulle “etichette che provano a frenare le donne” insieme ad altre intellettuali tipo Mariah Carey o la tennista Serena Williams. Lei, che da donna è diventata celebre nel più tradizionale e patriarcale e veteromaschilista dei modi: il matrimonio. L’effetto di “Archetypes” è però tutt’altro che archetipico: semmai, è come “essere chiusi nella stanza relax di un centro benessere con una maestra di yoga insolitamente concentrata su se stessa”, come da killeraggio del Times.

Infatti Meghan Markle parla quasi soltanto di un solo argomento: Meghan Markle. E nelle pause straparla della famiglia dov’è entrata prima di indurre suo marito a uscirne. Ed ecco le accuse di razzismo dei Royals nei confronti del piccolo Archie, ignorando evidentemente che, fin dai tempi del chiacchieratissimo “Munshi”, il segretario indiano della regina Vittoria, i Windsor si sono sempre circondati, e talvolta hanno privilegiato, non europei e non bianchi. E dire che c’è anche il film (bruttino, ma con una Judi Dench più colossale del Taj Mahal).

E’ come se l’insostenibile pesantezza del piagnisteo contemporaneo, tutti sempre a lamentarsi di tutti gli altri, sempre un torto vero o presunto per il quale chiedere spiegazioni, scuse, pentimenti, risarcimenti, avesse fatto il suo ingresso in palazzi finora abitati soprattutto da gente assai pratica e concreta, che alle offese reagiva non piangendo ma picchiando più forte. Il motto non ufficiale della Ditta, “never complain, never explain”, non è soltanto una saggia linea di condotta di fronte all’invadenza dei media, ma la traduzione del tradizionale pragmatismo anglosassone, contrario alle teorizzazioni, ai massimi sistemi, perfino alle parole. Meno si parla e meglio è. E intanto si fa quel che si deve, senza spiegarlo e magari anche senza spiegarselo. Questo, fra l’altro, fa capire perché nei momenti di crisi la Ditta e la Nazione abbiano sempre dato il meglio: per avere dei dubbi bisogna prima porseli.

Harry era così, un John Bull un po’ patetico perché orfano giovanissimo della mamma ma molto spiccio, quadrato, anche simpatico nella sua naïveté fortificata dal non aver mai aperto un libro. Poi si è innamorato della persona sbagliata ed è stato un fiume in piena di lamenti, una sensibilità morbosa dove si ha “il cuore spezzato” per un monogramma sulla spallina. E avanti con le interviste bomba a Oprah Winfrey, le “indiscrezioni” diffuse a mezzo stampa, i malesseri e i mal di pancia, mentre il fratello William fa quello che deve semplicemente perché deve, c’è chi nasce figlio di notaio con lo studio da mandare avanti e chi figlio del re, e si presta pure a sceneggiate come l’uscita insieme al fratello e alle mogli in mezzo ai dolenti di Windsor. A ben pensarci, per la Ditta non è la prima volta che un matrimonio con un’americana divorziata produce conseguenze nefaste.