Foto di Mark Lennihan, via LaPresse 

tra arte e pedofilia

La moda ha un problema nel rappresentare l'infanzia: lo scandalo Balenciaga

Fabiana Giacomotti

Due dati da considerare nella campagna da parte del marchio di lusso. Uno: la diversa sensibilità culturale tra mondo occidentale ed ex Urss. Due: la pubblicità (o para) detta di "shockvertising" spesso paga

Nonostante il surreale scaricabarile fra i membri del team dell’ultima campagna Balenciaga, ritirata dopo una raffica di accuse di sessualizzazione dell’infanzia e di istigazione alla pedofilia (è stato il fotografo Gabriele Galimberti, no è stato il direttore creativo Demna-non-chiamarmi-col-mio-cognome, no è stata la stylist Lotta Volkova che non ha partecipato a questo progetto però è loro amica e ha un account Instagram di ispirazione satanista e su questo non ci sono dubbi, tanto che da qualche giorno l’ha chiuso, ma in rete circolano ancora screenshot che fa schifo perfino descrivere), è evidente che la moda abbia non solo un problema con la rappresentazione dell’infanzia, e che ce l’abbia non da oggi, ma che non le sia mai stata troppo chiara la differenza fra la provocazione artistica e lo spaccio di idiozie pruriginose a fini commerciali. La ricerca della coolness maledetta per intrigare il popolo verniciato di cultura della moda. Forse nemmeno le interessa praticare questa differenza e argomentarla, e con una buona dose di ragione, visto che quasi nessuno, nel mondo, la fa.

 

Se c’è infatti certamente uno stacco concettuale fra quei piccoletti tristi di Balenciaga con i peluche sadomaso fra le mani, le opere di Balthus e i tre fantocci di infanti a occhi aperti che Maurizio Cattelan impiccò agli alberi di piazza XXIV maggio a Milano nel lontano 2004 per la Fondazione Trussardi (“la realtà che vediamo in questi giorni in tv”, dichiarò l’artista in quell’occasione, “supera di molto quella dell’opera, i cui bambini sono un invito a interrogarsi”), le reazioni popolari in tutto il mondo occidentale sono state infatti sorprendentemente identiche anche a distanza di decenni per immagini che hanno scopi molto diversi.

 

Però, anche se le reazioni furono e sono state identiche, differenza va fatta. Marcare la distanza fra arte e una manica di furbetti a cui è scappata la frizione è importante. I due fantocci di Cattelan, per esempio, vennero “liberati” da un tizio che si arrampicò nottetempo sulle querce armato di taglierino, e se mancò di far crollare il terzo a terra fu perché lui stesso cadde dai rami procurandosi un trauma cranico. Per Balthus, in mostra al MET nel 2017 con una grande retrospettiva, più o meno gli stessi nordamericani che in questi giorni si dicono schifati e scioccati dalle immagini e adombrano la regia di QAnon attorno alle campagne di Balenciaga, firmarono in diecimila una petizione per chiedere la rimozione dell’opera “Thérèse dreaming” del 1938, che ritrae una delle modelle preferite del pittore, Thérèse Blanchard, seduta addormentata a gambe divaricate.

 

Solo cinque anni fa, i social erano meno potenti di adesso, l’ignoranza apparentemente meno diffusa, e per sedare le proteste alla direzione del MET bastò diramare un comunicato molto simile a quello con cui Cattelan aveva difeso la propria installazione: “Momenti come questi”, scrisse il museo, “offrono l’opportunità di parlare di questi temi, e l’arte è uno dei mezzi più significativi che abbiamo per riflettere sul passato e sul presente e incoraggiare la continua evoluzione della cultura esistente attraverso una discussione informata e il rispetto per l’espressione creativa”. I fondamentali del pensiero illuminista erano ancora tutti a posto, la faccenda si chiuse lì. Inoltre, la veneranda istituzione della Fifth Avenue aveva dalla sua la potenza dell’opera di Balthus e di un valore artistico indiscutibile. Cosa che disgraziatamente manca alla campagna di Balenciaga, con tutti quegli oggettini che sì, saranno anche la cifra documentaristica del fotografo che ha viaggiato il mondo ritraendo bambini vicini ai propri giocattoli e bravi patrioti americani circondati dalle proprie armi, ma che in questo contesto, e col marchio in primo piano, fanno molto “pagina degli scarichi pubblicitari” di un mensile di moda. Peraltro, come ovvio, ne condividono lo scopo. 

 

In compenso, quella particolare genia di individui che trascorre le proprie giornate passando al setaccio internet e di cui la moglie di Soumahoro, Liliane Murekatete, ha imparato a conoscere l’esistenza quando l’altro giorno dagli inferi del web sono rispuntate certe sue immagini grottescamente osé (anche per praticare il genere bisogna avere una certa presenza scenica), si è messa al lavoro sulle campagne del brand francese, scovando nei set delle ultime pubblicità dettagli invero inquietanti. Per esempio, un estratto della sentenza della Corte suprema sul rapporto fra la libertà di parola e la pedopornografia in uno scatto di Chris Maggio; quindi, un libro dell’artista belga Michaël Borremans, autore di una lunga serie di dipinti di bambini mutilati o protagonisti di scene violente, appoggiato sulla scrivania della pubblicità interpretata da Isabelle Huppert.

 

Per rispetto della cronaca, e anche del lavoro di cesello dei monaci benedettini del web, va detto che il gruppo originario di lavoro di Demna-di-cognome-Gvasalia mostra una certa affezione per questo genere di immagini dai tempi del collettivo di moda “post sovietica” Vetements che dieci anni fa diede una grande fama a tutti loro, oltre a un corollario di polemiche, finora tenute a bada, sulla pratica del fondatore Gosha Rubchinskiy di effettuare casting via Whatsapp con richieste di immagini in mutande e senza a modelli minorenni, oltre a praticare scambi di immagini sulfuree con l’ineffabile Volkova. Scherzi e scambi fra “ragazzi che sono cresciuti fra radiazioni di Chernobyl e pornografia infantile”, come ironizzava qualche anno fa Demna sul proprio account Instagram, o disegno pre-ordinato di genere qanonista come agitano i detrattori? Gli indizi, oggettivamente, non porterebbero a ingaggiare convinti una campagna innocentista, e tutti insieme tracciano anzi un quadro di cui un’azienda dovrebbe, o forse avrebbe già dovuto, tenere conto, senza correre rumorosamente ai ripari oggi sbandierando supporti alle associazioni mondiali più attive nella difesa dei dei bambini (fra i mezzi silenzi delle prime ore e queste pezze d’appoggio innecessarie e tardive, è evidente che Balenciaga abbia anche bisogno di un bravo crisis manager). 

 

Vanno dette però anche altre due cose. La prima: la sensibilità del mondo occidentale, in specie Europa e Nordamerica, nei confronti dell’infanzia, costruita con molta attenzione dai tempi di Rousseau e codificata nel vittorianesimo pur con qualche deriva morbosa, non è esattamente quella del mondo ex sovietico né dal punto di vista letterario e filosofico né da quello sociale. Se solo da pochi decenni ci si è occupati in occidente della storia dei besprizorniki, le migliaia di fanciulli abbandonati dai genitori per mancanza di cibo o i figli dei troppi arrestati delle purghe staliniane, è perché a lungo questa storia è stata ignorata e ancora adesso ne sappiamo molto poco. Vi sono pochi studi, poche statistiche. Però ha avuto certamente modo di radicarsi, anche nell’immaginario popolare, per quasi un secolo. La chiusura degli orfanotrofi-lager nelle ex repubbliche sovietiche venne salutata vent’anni fa come un esempio di progresso; eppure di tutti quei piccoli, spesso oggetto di adozioni fin troppo semplici da parte dell’occidente, non abbiamo molte notizie. Anche senza mettere nel conto il debole di Demna Gvasalia per il coté dadaista dell’esistenza, rivendicato attraverso la sua ormai decennale residenza a Zurigo, bisogna considerare che il mondo ex sovietico in cui sono cresciuti lui e i membri del collettivo Vetements non è tutto Masha e Orso. Il loro immaginario non è quello di Jeremy Scott di Moschino, colore, gioia e divertimento. Demna ha vissuto il dramma della guerra in Ossezia del sud nei primi anni Duemila. 

 

Il secondo dato da prendere in considerazione è l’effetto nel tempo di questa campagna, e in genere di tutte quelle iniziative para o decisamente pubblicitarie che rientrano nella categoria dello “shockvertising”. Che dopo una prima reazione negativa, in genere e purtroppo paga. Si può essere relativamente sicuri che nella classifica dei marchi più discussi e ricercati dagli utenti dei social nella prossima edizione dell’Osservatorio realizzato dal Foglio della Moda con Comin & Partners, Balenciaga sarà ai primi posti con tutta la sua fama sulfurea. I roghi di oggetti a marchio a favore di smartphone si sono già esauriti. Lo shockvertising, in particolare quello della moda, paga dai tempi del malato di Aids della pubblicità Benetton e del prete e della suora che si baciavano. Prima di allora, Benetton era una azienda veneta che produceva golfini tinti in capo e Oliviero Toscani un fotografo di moda con la passione per gli sfondi bianchi à la Richard Avedon. Da quel momento, entrambi diventarono dei maitre à penser, e se trent’anni dopo la famiglia è scampata al disastro di immagine del crollo del ponte Morandi è anche perché l’aura intellettuale di quelle immagini non si è ancora esaurita. Poi, come si scriveva nelle prime righe, ogni tanto non riesce a controllare la macchina della provocazione, mette troppi ragazzini in mutande o anche dichiaratamente senza (Calvin Klein, anni Novanta, Brooke Schields, anni Ottanta), aggiunge troppi bicchieri usati sul tavolo, una catena e tre borchie in eccesso, e se non ci scappa il morto è perché la holding che controlla i fatturati ha valutato i pro e i contro di far saltare il banco decidendo invece per un altro giro di carte. 

 

Chi, in queste settimane, ha reclamato a gran voce il licenziamento dei responsabili della campagna, e l’hanno fatto anche i media d’Oltreoceano, è solo perché finge di ignorare la dura legge della moda: finché vendi, verrai salvato qualunque cosa tu faccia o quasi (e sì, quando quel genio di John Galliano venne cacciato da Dior aveva smesso di vendere già da un po’, altrimenti state sicuri che la faccenda degli insulti antisemiti sarebbe stata messa a tacere). Kering, controllante di Balenciaga e dell’allegro team di scellerati che tre mesi fa ha portato in sfilata le stesse borsette di peluche a forma di orsetto che i cinesi vendono a piazza San Marco, però ornate di borchie e catene perché le croniste dei giornali di moda accorressero il giorno dopo in showroom a fare “il resee perché questa rivisitazione dell’innocenza perduta è troppo commovente” non ha ancora potuto fare i conti del danno di immagine e di giro d’affari provocato dalle reazioni a queste ultime campagne. Questo avverrà non prima di febbraio. E se qualche testa dovesse cadere, avverrà allora, non prima. Resta solo una grande ammirazione per il capolavoro di equilibrismo di Kim Kardashian, testimonial en titre di Balenciaga, che per tre giorni ha taciuto, poi, spinta dai commenti furiosi sul proprio account, ha rilasciato una dichiarazione che non avrebbe stonato in bocca all’arcivescovo di Canterbury adombrando la possibilità di “rivedere il proprio rapporto con il brand”, e infine ha ricomposto la vertenza, dichiarando il mondo di “aver avuto rassicurazioni” sulla liceità e la moralità dei comportamenti futuri del brand. 

 

Come avrete capito, è tutto un gioco e un esercizio tattico. Purtroppo, sulla pelle di bambini i cui genitori non sono stati mai stati chiamati in causa. Dicono le comunicazioni ufficiali che siano tutti amici o dipendenti di Balenciaga. Eppure, la responsabilità di quelle immagini, la tutela di quei bambini, non è del fotografo, non è di “chi ha illuminato la scena”, per certi versi non è nemmeno di Demna. La tutela di quei bambini fotografati col brutto peluche davanti a una distesa di bicchieri da cocktail usati è innanzitutto loro.

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