Alessandro Michele, per sette anni direttore creativo di Gucci, ha lasciato il gruppo (LaPresse) 

costumi e simboli

Tendenza restaurazione nella moda. Arriva il recupero dei codici classici

Fabiana Giacomotti

Via Michele da Gucci, dentro Guerra da Prada, e lo scandalo mondiale su Balenciaga. Poi il giudizio moralista dei social, modello ghigliottina. Ecco il ritorno alla classicità e ai segni esteriori del potere, sui quali si interroga anche il “Boris Godunov” che apre la stagione del teatro alla Scala

L’ineffabile coppia Miuccia Prada – Patrizio Bertelli si appresta dunque a lasciare il timone. Un paio di anni e cederanno lo scettro, dopo aver rivoluzionato per trent’anni il sentire mondiale sulla moda. Capiamo. Capiamo anche la scelta – peraltro non confermata ufficialmente ma ormai data per certa – di voler facilitare il passaggio alla seconda generazione Bertelli-Prada affidando per un quinquennio la gestione del gruppo ad Andrea Guerra, ex Merloni Elettrodomestici, ex Luxottica, ex Eataly, attualmente a capo del settore hotellerie di Lvmh, insomma una solida scelta gestionale. Però, proprio per questo, ci piacerebbe dire a Miuccia Prada e Patrizio Bertelli di tenere i nervi saldi ancora per un po’, di non lasciare, di mantenere la barra del loro pensiero dritta al centro, perché se la moda di oggi deve molto alla spinta culturale e politica del loro sentire e della loro impostazione (per verifica basta osservare una qualunque pubblicità degli Anni Novanta con quelle facce che invitano a comprare, inquinare e sporcare senza nemmeno porsi un senso di colpa e soprattutto senza mai aprire un libro o visitare una mostra), quella di oggi sembra ormai stretta, quasi schiacciata, fra le esigenze di fatturato e la spinta moralista del tribunale permanente e inappellabile dei social di cui l’account Diet Prada è la versione più modaiola e frustrata.

La polemica folle che è seguita alle immagini della campagna natalizia di Balenciaga con i bambini e gli orsetti sadomaso - certo parecchio perturbanti, ma i genitori dei piccoli dov’erano quando un documentarista pluripremiato e serissimo come Gabriele Galimberti scattava le foto - e la surreale presa di distanza della testimonial Kim Kardashian che ha fatto sghignazzare persino un quotidiano progressista come il Guardian (“ha parlato con toni da arcivescovo di Canterbury”) sono l’indicazione della progressiva ri-conduzione della moda nell’alveo che agli occhi delle moltitudini le compete: fare vestiti, non politiche sociali, tanto meno divisive.

Quindi, se da una parte la valutazione fatta da François Henri Pinault sulla gestione di Gucci a margine dei dati di bilancio del terzo trimestre, con quei riferimenti alla sola ”esclusività” dei prodotti suonavano già come un giudizio definitivo e negativo sulle possibilità di permanenza di Alessandro Michele alla guida e come poi si sono confermati al momento dell’ufficializzazione della sua uscita dall’azienda (i comunicati ufficiali vanno letti fra le righe, e quando il creativo romano scrive non solo di “differenti prospettive” sue rispetto a quelle aziendali, ma augura ai suoi collaboratori e ai suoi fan di “continuare a nutrirsi di immaginari poetici e inclusivi”, rimanendo fedeli “ai propri valori”, sospinti dal “vento della libertà”, sta parlando di reazione e di restaurazione in corso, non di fatturati, e non solo nell’ambito del brand), dall’altra è evidente che sul sistema della moda si stia per tornare, usiamo il termine appropriato, al classico.

Dopo anni in cui il coté politico-progressista della moda si era spinto in avanti senza curarsi troppo della maggioranza comprante e amante dei segni esteriori e più facili della richesse – logo, tessuti lucidi, forme vistose e per niente fluide, in estrema sintesi il guardaroba dei Totti pre e anche post-separazione perché i completini en pendant di Francesco Totti e della sua nuova fiamma son lì da vedere – le cose sono molto cambiate. Con una guerra in corso sui territori europei, un’inflazione media del 10 per cento a cui fanno da riflesso i dati previsionali di Altagamma su una frenata di un buon quindici per cento generale nel prossimo anno (da una crescita del 22 per cento a una del 6 è opportuno parlare di rallentamento, non di crescita) e un’ondata di centro-destra che avanza ovunque e che anche in Francia il presidente Emmanuel Macron fatica a tenere a bada, la moda che ormai vive di bilanci e di analisti per i quali la logica del profitto supera ogni altra, sostenibilità compresa, non poteva continuare a privilegiare le istanze di una piccola percentuale del proprio parco-consumatori.

Già da queste pagine avevamo segnalato più volte come le campagne dei brand più famosi per il loro attivismo politico e di cui in Occidente si discuteva furiosamente non avevano spazio né quartiere nell’altra metà del mondo, dalla Russia alla Cina ai paesi islamici dove, bastava essere in queste settimane in Qatar per rendersene conto, le immagini della moda sono ancora identiche a quelle degli Anni Ottanta: logo e prodotto. Nessuna istanza Lgbtqa+, tanto meno bambini, e in questo caso giustamente. Le campagne e i film di Gucci (dove si parla del possibile ingaggio di Simon Porte Jacquemus), certe iniziative editoriali “libere” di Valentino rappresentavano e continuano a rappresentare la punta di diamante un pensiero e di un’impostazione che la moda, contando sulla propria forza economica, credeva e in parte tuttora crede di poter mantenere.

Ma è ovvio che l’aria sia cambiata e che certe prese di posizione troppo estremiste abbiano provocato la reazione irrigidita delle masse. Senza contare che, forse, non è proprio compito precipuo della moda fare politica, e farlo soprattutto nei tempi rapidi che le sono propri. Le trasformazioni sociali prendono tempo, mentre i semi di quello che sta accadendo oggi erano già evidenti, in realtà, nell’ambito di una campagna-film Gucci dell’autunno 2020, un film a puntate diretto da Gus van Sant, contro la quale Il Foglio dedicò un’invettiva vibrante per la presenza, surrettizia cioè non contestualizzata, dell’attivista transgender Paul B. Preciado.

Scrivemmo che il rapporto fra genere e storia sociale, in particolare storia femminile, non poteva essere ricondotto a uno spot, che le affermazioni del filosofo avrebbero richiesto un contraddittorio e che non si poteva imporre a un pubblico generalista, anzi mondiale come quello della moda prodotta da una multinazionale, il proprio punto di vista in via esclusiva e con toni apodittici.

Scrivemmo che noi siamo il prodotto della nostra storia, personale e collettiva e che se è vero che si può cambiare il corso della storia, come sostiene Francesco Remotti a partire dalla lezione di Foucault e di Bourdieu, è altrettanto vero che tutte le società si adoperano per plasmare e fabbricare i propri membri secondo un preciso modello di umanità. E che proprio per questo la moda, che è solo in parte industria culturale, e lo è da poco tempo, non poteva permettersi di accelerare su modi e istanze che riguardano la stessa collettività dal cui benvolere dipende la sua sopravvivenza.

Quindi sì, per tutti questi motivi, e con parecchio dolore perché la stagione di Michele da Gucci resterà irripetibile, va preparandosi almeno in via transitoria – le rivoluzioni subiscono sempre battute di arresto - una stagione di “ritorno al classico”: belle cose facili che si vendono bene e per le quali non si rilascia un muto ma evidentissimo statement politico ogni qualvolta se ne indossa un pezzo. Per la moda si prepara anche un periodo di riflessione e di riequilibrio, anche sulla costruzione dei capi che potrebbe tornare centrale dopo anni di collezioni sviluppate attorno allo styling.

Ed è anche per questo che, dopo un lungo periodo di sovrapposizione dei piani, il costume teatrale e cinematografico sta tornando al centro della creatività: all’Opera di Roma abbiamo visto uno strepitoso allestimento dei “Dialogues des Carmelites” di Francis Poulenc diretto da Emma Dante con costumi di Vanessa Sannino che sembravano usciti dalle rappresentazioni di Piero della Francesca e dall’iconografia moderna di Giovanna d’Arco (nota a margine: tentare di trasformare nei teatri inglesi l’icona del femminismo di tutti i tempi in paladina del gender fluid secondo regole e modi di pensare contemporanei, vedasi la nuova produzione di “I, Joan”, è stata una mossa talmente sbagliata da aver messo in allarme perfino il correttissimo Times), mentre al Teatro alla Scala stiamo per vedere una versione altrettanto ricca e ragionata del “Boris Godunov” di Modest Musorgskij con i costumi di Ida Marie Ellekilde (vedere editoriale in prima pagina). Racconta il regista Kasper Holten, alla sua seconda prova scaligera dopo un interessante allestimento del “Giro di vite” di Benjamin Britten, cinque anni fa, che “nei costumi di Boris, un’opera che smaschera la brutalità del potere, riconosciamo i simboli del potere di oggi, oltre a quelli in uso nella Russia del tardo Cinquecento e i primi anni del Seicento in cui l’azione si svolge”.

Sono abiti-costumi di impronta fortemente simbolica, così come è scelta registica di valore riflessivo, mirata a rappresentare il conflitto interiore del protagonista, la presenza costante dello zarevic Dmitrij ucciso da Boris in scena, che per settimane ha dominato anche le locandine dello spettacolo diffuse in città con i suoi abiti bianchi macchiati di sangue. Il costume torna ad essere luogo di riflessione, la moda fatto, prevalentemente, elegantemente, artisticamente, commerciale. Almeno per un po’, toccherà rassegnarsi.