Cinque cose che proprio non tornano in House of Gucci
Il drammone cinematografico di Ridley Scott è sciatto e malscritto (per non dire del Klimt), ma è boom per il vintage
Tutte le sciatterie che ci hanno fatto sobbalzare ben oltre la ripetitività gesticolante dei dialoghi, gli stereotipi sugli italiani tracagnotti e mafiosi, l’accento-broccolino del clan Gucci e l’incredibile quantità di carpaccio che viene servito per le due ore e mezzo del film
Fra i critici cinematografici e i modaioli-di-cultura, in queste settimane è di rigore discutere il gradiente di bruttezza, cattiva scrittura e kitsch del drammone cinematografico “House of Gucci”. Causa distribuzione differenziata, il “New York Times” ha avuto la primazia e ha scritto quel che avremmo voluto scrivere tutti noi che all’avant-première di metà novembre avevamo firmato alla MGM un ridicolo (o forse previdente, in effetti), patto di non divulgazione dei contenuti, e cioè che la saga dei Gucci, sempre valga la pena di raccontarla, avrebbe forse funzionato nelle mani di un regista italiano come Bernardo Bertolucci o Luchino Visconti: “Novecento”-meets-“La caduta degli Dei”, per dire. Invece, è stata affidata alle cure di un regista americano cresciuto a spot per il mass market e si vede fin troppo (no, non obiettate su “Blade Runner”: aveva la scrittura di Philip K. Dick e Hampton Fancher a sorreggerlo, ma l’estetica è e resta pubblicitaria).
La cambiale di non belligeranza, chiesta a noi giornalisti ma non agli influencer, domandatevi perché, è scaduta ieri sera, per cui possiamo aggiornarvi su un paio di cose che hanno fatto sobbalzare noi milanesi doc ben oltre la ripetitività gesticolante dei dialoghi, gli stereotipi sugli italiani tracagnotti e mafiosi, l’accento-broccolino del clan Gucci (che nessuno di loro ha mai avuto, ad eccezione di Patrizia Reggiani, questo bisogna riconoscerlo) e l’incredibile quantità di carpaccio che viene servito per le due ore e mezzo del film fra i grugniti estatici dei personaggi.
Sciatteria numero uno: sappiamo che la più bella casa di Milano è villa Necchi Campiglio in via Mozart, visto che anche Luca Guadagnino vi ha girato il suo primo film di successo, “Io sono l’amore”, ed è certo che la casalinga del Midwest, oltre a non sapere chi siano stati i Necchi e nemmeno Guadagnino, ritenga perfettamente plausibile che ci viva Rodolfo Gucci e che esponga in salotto il ritratto di Adele Bloch Bauer di Klimt come un nazista qualsiasi.
La scelta del dipinto, oggetto di una battaglia legale transoceanica e decennale con il governo austriaco a cui cinque anni fa venne dedicato un film con Helen Mirren sovvenzionato dall’attuale proprietario del quadro, Ronald Lauder, è però la dimostrazione palese che Ridley Scott ritiene la sua audience o ignorante o cretina o tutte e due le cose. Noi, milanesi modaioli che frequentiamo la villa, patrimonio del FAI, per simpatiche colazioni nella caffetteria e per le presentazioni biannuali di Tod’s, a ogni inquadratura ci aspettavamo invece di trovare sui tavoli un’esposizione di mocassini di Diego Della Valle nei colori di stagione.
Sciatteria numero due: abbiamo provato a ricostruire il percorso di Adam Driver-Maurizio Gucci in bici, nella sua ultima ora di vita, dal baretto alle spalle del Comando dei vigili di piazza Beccaria fino a quello che avrebbe dovuto essere il suo ufficio in via Palestro 20. Non abbiamo ancora capito come riesca a passare sotto l’arco di via Salvini arrivando da corso Venezia per poi girare attorno alla fontana dell’omonima piazza che sta a due chilometri di distanza e tornare a farsi ammazzare sui gradini del palazzo di un’altra nota famiglia della moda, anche lei non troppo fortunata, in piazza Duse. Se il vero Maurizio Gucci avesse compiuto un tragitto così demenziale, i due balordi che gli spararono non l’avrebbero mai raggiunto. Non siamo necessariamente a favore del film-verità, epperò che ridere.
Sciatteria numero tre: quella non è la strada per Sankt Moritz. È la strada per Gressoney, così come il grande chalet dei Beck Peccoz dove vivrebbero i Gucci è fin troppo noto, anche per via dell’amore che agli inizi del Novecento legò la regina Margherita al suo proprietario, per non rendere il tutto troppo poco credibile. Nel New Jersey, però, andrà fortissimo.
Sulla quarta sciatteria, pare si sia allarmata anche la maison Gucci di oggi, perché la borsa che Lady Gaga-Patrizia Gucci agita in salotto sotto il naso del marito alla fine degli Anni Settanta è stata disegnata da Alessandro Michele tre anni fa. In compenso la popstar, vogliamo essere onesti, se la cava piuttosto bene, e in un paio di scene trasmette la profonda volgarità del suo personaggio con una tale aderenza al reale che se ne resta impressionati (“Patrizia aveva il gusto di Joan Collins per i gioielli”, osserva la costumista del film, Janty Yates, e non è un complimento: chissà come prenderà l’affermazione la maison Boucheron che ha appena diramato un comunicato in cui elenca tutti i pezzi scelti dalla produzione, compresa “la collana Serpent Bohème in oro giallo con 31 motivi a goccia e pavé di diamanti”).
Sciatteria numero cinque: il trucco e la recitazione modello Bagaglino di Jared Leto: una macchietta. Non colpisce l’immaginazione nemmeno quando piscia sul foulard Flora disegnato dallo zio in segno di disprezzo. Insomma, possiamo capire perché l’attuale House of Gucci si sia tenuta alla larga dal film e continui a ribadire di essersi limitata a fornire l’accesso al proprio archivio per i capi e le borse (sui quali nessuno, appunto, ha verificato l’uso coevo all’azione).
La famiglia Gucci sta cercando un appiglio per portare la Mgm in tribunale: Al Pacino dà certamente vita a un Aldo Gucci volgarissimo, la figlia Patrizia è furente, ma dimostrarlo non sarà facile. In compenso, le vendite di pezzi vintage di Gucci sulle piattaforme di e-commerce sono esplose. Qualche giorno fa, Vestiaire Collective segnalava un aumento dell’80 per cento di “articoli Gucci messi in vendita”, pezzi più ricercati il cappellino con il monogramma e le borse Horsebit 1955 e Jackie, ma in generale, su base annua, le ricerche del brand Gucci sono aumentate del 25 per cento, con punte per il tema “Tom Ford-Gucci” (+40 per cento), così come è stato registrato un aumento delle ricerche di orologi Omega (+28 per cento) e delle borse Tod’s (+90 per cento), sfoggiati entrambi nell’ultimo film di James Bond, “No time to die”. Il film di fantascienza Dune, invece, ha portato a un aumento delle ricerche della categoria “mantelle” (+35 per cento), dello stesso modello indossato da Timothée Chalamet, a dimostrazione che, in fondo, non molto è cambiato dai tempi in cui Joan Crawford faceva vendere mezzo milione di copie dell’abito bianco che indossava in un film di Clarence Brown del 1932, ancora noto come “the Letty Lynton dress”. Le dinamiche che regolano il desiderio di possesso non sono cambiate affatto. Al limite, si sono moltiplicate, insieme con le richieste di una preparazione accademica adeguata ai fini dello svolgimento del mestiere di costumista, che fino all’avvento delle serie sembrava in lento declino, sostituito da quello di stylist. Da Mad Men a Bridgerton, la richiesta di competenze per i film in costume storico è invece in tale ripresa che anche all’Accademia di Costume e Moda di Roma stanno pensando di rafforzare l’offerta.
Dice il presidente Lupo Lanzara nipote della leggendaria Rosana Pistolese che fondò l’istituzione romana nel 1964, di aver visto aumentare costantemente, negli ultimi anni, l’interesse sia per il corso triennale sia per il master in costume: “Ormai il costume è la branca scelta dal 20 per cento degli studenti”. Scelta che, naturalmente, non rende la vita facile né a loro né al costumista che dirige il corso, Andrea Viotti, storico collaboratore di Maurizio Monteverde e autore del Macbeth teatrale diretto da Gabriele Lavia nel 2009: uno spettacolo “di banditi di strada”, denso di nebbie, di streghe nude uscite dal sottosuolo, di incubi, vissuto nel camerino di un attore con un grande specchio per il trucco e l’ovvio lavandino per i lavacri, in una recita sull’essere o non essere a cui anche Macbeth, come Amleto, vorrebbe sottrarsi, fantoccio di un destino che l’ha reso schiavo. Al momento, dice Viotti, la percentuale di laureati che trovano lavoro nel cinema, nella televisione o nelle serie per le piattaforme, ma anche nella stessa moda, che è diventata sempre più spettacolare, è del cento per cento.
Lo stesso, diremmo noi, non accade per la moda. La differenza fra i due gruppi, però, è marcata anche da un altro particolare che se nella moda si può nascondere, almeno per qualche tempo, nel costume salta subito all’occhio, ed è la competenza. Per realizzare il costume bisogna sapere di arte, storia, fotografia, ma anche se non soprattutto di letteratura. E i ragazzi, osserva Viotti con un sospiro, non leggono più nemmeno i grandi nomi della narrativa sette-ottocentesca. Chi comprende quale sia la posta in gioco, china la testa e si mette al lavoro, cercando di recuperare il tempo perduto. Gli altri si perdono per strada. Con ogni probabilità, l’impiego immediato dei laureati deriva da questa pre e auto-selezione naturale, e dall’apprendimento di una qualità che il cinema apprezza sopra ogni cosa: la pazienza. Racconta Yates che Lady Gaga si sia sottoposta a sessanta ore di fitting senza fare una piega. Lo hanno richiesto i cinquantaquattro cambi di abito (nessuno dei quali indossato due volte), alcuni riprodotti dagli originali, ad eccezione dell’abito da sposa, ricco e cafonissimo, molto diverso da quello, molto elegante, che la vera Patrizia indossò nei primi Anni Settanta. Fu probabilmente il suo unico momento di sobrietà. Lady Gaga e Janty Yates glielo hanno azzerato.