Il Foglio della Moda

"Maurizio Gucci è stato un pioniere"

Fabiana Giacomotti

Sara Gay Forden supera le centomila copie del libro da cui è tratto il film di Ridley Scott in uscita in autunno

Il sorriso tutto fossette di Sara Gay Forden appare sullo schermo del pc in una bella giornata di fine maggio. Non ci vediamo da quasi vent’anni, per la precisione dal giugno del 2002: lei usciva dalla casa editrice dove io entravo passandomi le consegne di un mensile dove, tre anni dopo, arrivò come collaboratrice Alessandra Gucci, la figlia primogenita di Maurizio Gucci e di Patrizia Reggiani che allora era ancora detenuta, restando fino a quando le attività e gli impegni di gestione del patrimonio familiare, che comprendevano anche il fatale veliero Creole, le suggerirono di lasciar perdere con una professione molto impegnativa e poco redditizia come il giornalismo. Assomigliava molto a sua madre: minuta, bellissima, occhi color pervinca. Per quel breve periodo fu un modello di professionalità e di rigore, e anni dopo mi disse di ricordarlo con molta nostalgia.

 

Nel frattempo, Sara era rientrata nelle fila di Bloomberg News, sua alma mater professionale; qualche anno dopo sarebbe tornata con la famiglia a Washington dove ora, racconta, guida per la multinazionale dell’informazione finanziaria un team che si occupa di corporate influence, cioè di lobbying e delle sfide che attendono i giganti del tech come Amazon, Facebook e Google. Osservo che, dopo il boom mondiale del suo gran romanzo-inchiesta House of Gucci/La saga dei Gucci, sottotitolo “a sensational story of Murder, Madness, Glamour, and Greed, da poco ripubblicato con un opportuno aggiornamento, probabilmente Jeff Bezos si troverà presto a dover distribuire qualcosa di simile dedicato a lui. Sorride divertita: «Queste aziende ormai dominano la nostra vita come non è mai capitato a nessun’altra, neanche al settore automobilistico. Seguirle è importante».

 

Pubblicato con un buon successo proprio in quel fatidico 2002, quando Sara Gay Forden si occupava già da un decennio della vorticosa ascesa di Armani, Versace, Prada e Ferragamo e della loro progressiva trasformazione da atelier e uffici commerciali di giacche e gonnelle in mega brand, grazie al film di Ridley Scott in uscita il prossimo novembre House of Gucci è diventato però un bestseller mondiale da centomila copie e molte nuove traduzioni in itinere, l’ultima in ordine di tempo in coreano. Osservo che parte della famiglia, e in particolare Patricia Gucci, ha molto protestato per la scelta di affidare ad Al Pacino, bruno e tracagnotto, il ruolo del padre Aldo Gucci, che era invece alto, bello e biondo come tutta la famiglia. Sara fa spallucce: «Cercai di parlare con Patricia Gucci al momento della stesura del libro: voleva essere pagata, le dissi che non era possibile e neanche corretto e che nessun altro membro della famiglia aveva chiesto di essere remunerato; tutti, tranne lei, furono collaborativi e mi riservarono molti complimenti per l’accuratezza delle ricerche: mi ero presa un sabbatico di due anni per scriverlo, ma tornai a occuparmene dopo l’omicidio di Maurizio, seguendo il processo in aula tutti i giorni».

 

La scelta attoriale del film, che ripercorre tutti gli stereotipi sugli italiani mafia-spaghetti, non è ovviamente spettata a lei benché, puntualizza, «siano stati così gentili da chiedere la mia collaborazione per la sceneggiatura e Lady Gaga sia di sicuro molto somigliante: di origine italiana, petite come Patrizia». Lo scorso marzo, la troupe arrivò a Milano e, nonostante si fosse ancora in para-lockdown, in piazza del Duomo si rischiò l’assembramento per via dei fan di Lagy Gaga, accorsi a vedere la loro eroina nei panni della protagonista mentre si concedeva un panzerotto da Luini prima di rinchiudersi in albergo, zona via fratelli Gabba, con le tende tirate e il cuoco personale nelle cucine a rimediare agli sgarri alimentari con quantità industriali di frutti rossi, di cui è dichiaratamente “ossessionata”. Nonostante Gucci avesse dato un accesso pressoché illimitato all’archivio, vennero scelti pochi capi e qualche borsa, tanto che le foto scattate dai paparazzi mostrato Stefani Germanotta con uno chemisier dell’ultima collezione Max Mara, di ispirazione Settanta, ovviamente subito andato esaurito. Il libro ripercorre la storia dei Gucci dal 1973, l’anno del matrimonio fra Maurizio e Patrizia, fino all’assassinio nel marzo del 1995, quel fatidico giorno al quale seguì, poco tempo dopo, nello stesso ambiente famigliare, il suicidio di Charly, il figlio adolescente della ex compagna di Maurizio, Paola Franchi, sul quale i giornali non indugiarono mai perché era un fatto troppo doloroso e mi sembra di ricordare il suggerimento di Ferruccio de Bortoli, allora direttore del Corriere della Sera, perché almeno in Rizzoli tutti deponessimo la penna sul caso (non uscì niente, da nessuna parte, e se ne scriviamo adesso è perché ne ha parlato molti anni dopo la stessa Franchi).

 

Sara Forden dice di essersi immaginata per anni, mentre scriveva, i movimenti di Maurizio Gucci fra gli uffici in san Fedele, dove l’aveva intervistato più volte, e la casa in Porta Venezia: l’acquisizione progressiva delle quote del cugino Paolo, l’estromissione dello zio Aldo, le licenze e poi l’accordo con Investcorp. «Se ci pensi, aveva avuto intuizioni geniali. È stato un pioniere (dell’attuale tendenza all’apertura del capitale a investitori stranieri)». In realtà, ricordo benissimo quando, a suon di licenze per gonfiare i fatturati, finì per atterrare anche in casa mia come dono di nozze un’agghiacciante lampada da tavolo in ceramica Richard Ginori griffata Gucci con tanto di striscia bicolore sul paralume, che forse avrei potuto conservare visto che trent’anni dopo, il gruppo Kering avrebbe comprato proprio l’azienda di Sesto Fiorentino e ora è a caccia di reperti storici. All’epoca, comunque, Gucci era un marchio deprezzato, e dunque la scelta per Investcorp, che nel 1993 avrebbe acquisito tutte le quote della società ed estromesso Maurizio Gucci, in una nemesi finanziaria, fu dettata dall’esigenza reale di rinnovarne lo stile e l’appeal, obiettivo per il quale il nipote del fondatore non aveva denaro sufficiente. Gli arabi investirono 310 milioni di dollari nel gruppo in crisi, e ne uscirono meno di dieci anni dopo con 2,1 miliardi. Nel frattempo, avevano messo alla guida dell’azienda Dawn Mello, che a sua volta aveva identificato in un bellissimo stilista texano, Tom Ford, l’uomo adatto per il turnaround stilistico. La prima sfilata, pochi mesi prima dell’assassinio di Maurizio Gucci, alla società del Giardino, cambiò per sempre il senso della storia.

 

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