La settimana della moda senza cinesi

Tra rivisitazioni, trucchi e parrucchi e radici dello stile milanese. Alla Milano fashion week sarebbe il momento di essere sostenibili anche nelle convocazioni

Fabiana Giacomotti

C come carta. E quando non sapevamo più come spiegare alle pr della moda che non solo ci sarebbe bastato l’invito via mail con l’indicazione del posto, ma che proprio ci imbarazzava ricevere tutta quella carta spessa due dita con tanto di busta e shopper da un settore che si fa vanto di riciclare i tessuti e di ripiantare gli alberi per eliminare il co2 prodotto dalle auto degli ospiti, è arrivato l’invito vocale di Alessandro Michele via whatsapp a fissare i nuovi standard dell’etichetta modaiola. “Ciao, come stai, tutto bene? Stavo pensando che se tu fossi a Milano il prossimo mercoledì sarebbe bello se tu venissi qui al Gucci Hub per lo show. Fammi sapere, eh? Baci”. Forse non vorremo sentire nemmeno decine di messaggi vocali, ma è arrivato il momento di essere sostenibili anche nelle convocazioni, grazie. 

  

C come Cina. Saranno pure chiusi i confini e gli spazi aerei, epperò la stilista di Annakiki, Anna Yang, è arrivata serenamente nei giorni scorsi a Milano via Shanghai e Francoforte. So what.

   

C come Cina (2). A Milano, senza buyer e influencer e giornalisti cinesi, la settimana della moda sembra quella di trent’anni fa. Straniante, antica, insomma weird. Con i colleghi rimasti a Shanghai o a Beijing ci si scambia informazioni e messaggi via whatsapp: raccontano di essere tappati in casa e di non aprire neanche le finestre, in caso il virus fosse ancora più volatile di quel che si dice. Il presidente onorario di Camera Nazionale della Moda, Mario Boselli, non prevede granché di buono, nonostante le borse continuino a tenere: nell’ultimo mese, racconta, la parte “alta” della filiera è rimasta ferma. Business ridotto del 90 per cento.

  

G come Gucci. Chi si aspettava un nuovo cambio di stile dopo la virata dello scorso settembre è stato smentito: Alessandro Michele rivisita ancora, con garbo e inventiva e un nuovo accordo con Liberty, i pezzi forti dell’eredità del marchio, per esempio le giacche di velluto lunghe con le tasche applicate, i pantaloni flare, le camicie col fiocco, i grandi occhiali da sole, i cappelli importanti, che piacciono molto anche a lui. Poi, in questo incantamento che l’ha colto per l’abbigliamento infantile degli ultimi tre secoli e che colleziona con passione, rapito dalle perfezione delle proporzioni e dei dettagli e dall’aria sorprendentemente moderna dei capi effetto “mini me” che si vedono nei quadri dei grandi pittori fiamminghi del Seicento (pensate al ritratto di famiglia di Rubens con il piccolo Frans in panni da femmina), infila qui e lì collettini e collettoni bianchi da nobile puritano, davantini da vestitino delle veste, vestine corte da bimba perbene. Ma abbiamo l’impressione che ad andare a ruba saranno tutte quelle calzette e quelle eleganti gonne a pieghe.

 

M come Milano. Arthur Arbesser, stilista austriaco di stanza a Milano da molti anni, dove ha acquisito esperienze presso l’ufficio stile di Giorgio Armani, è andato alle radici dello stile milanese, l’ha trovato nel design e in alcune muse eccentriche e severe, che ha rivestito con le sue linee pulite, le sue stampe ispirate agli archi del pronao della Triennale e con una serie di fibbie e di accessori realizzati in “marwoolus”, nuovo materiale progettato da Marco Guazzini che mescola lana e polvere di marmo di Pietrasanta (è da un po’ che vediamo polvere di marmo di Pietrasanta trasformata in capo di moda: dev’essere una tendenza). Dice Arbesser di essere rimasto molto colpito, nei suoi primi anni milanesi, dai particolarismi accostamenti cromatici amati dalle cittadine: blu e nero, marrone e nero. Non ci eravamo mai accorte di essere così singolari. O forse si.

 

Riti. Andando a fondo del valore etimologico e simbolico del theatron, spazio per guardare e guardarsi, dunque al tema del teatro del mondo, Alessandro Michele mette in scena una rappresentazione di quella metafora un po’ abusata che è il “gran circo della moda”, luogo fisico e simbolico che ogni tre mesi porta un gran numero di persone a confrontarsi attorno al significato dell’abito e del vestirsi (che no, non ha necessariamente a che fare con l’acquisto e lo shopping). Anticipata da un backstage “a vista” in cui gli ospiti assistevano al trucco-parrucco delle modelle, introdotta dalla vocetta acuta e profondamente giocosa di Federico Fellini in una antica intervista degli anni dei “Clown” (ospiti stranieri perplessi, purtroppo anche molti italiani), la giostra della moda, corso e ricorso eterno, è andata in scena con tutti i suoi componenti, le sue modelle, i suoi artigiani e i suoi maestri che osservavano la sala e ne erano osservati. Quando finisce lo spettacolo della moda, quando termina il suo racconto? Con la sfilata, con l’interpretazione che ne danno critici e osservatori, con le scelte e le modifiche dei buyer, con l’acquisto da parte del cliente, con le dissertazioni degli storici, gli archivi delle aziende, il secondo mercato, oppure mai? Fellini per primo, nel “Roma”, era andato all’essenza della moda e della sua rappresentazione, liturgia para-religiosa. Michele ce l’ha ricordato.

 

S come Stampe. Ai giovani, o giovani di spirito, o molto emergenti a dispetto dell’età, insomma a quelli che ci provano adesso, le stampe e i grafismi piacciono molto. Belli gli accostamenti di colore e grafica da Gilberto Calzolari: usare la tavolozza nero-bianca-rosso cupo in modo nuovo non è evidente come sembra.

Di più su questi argomenti: