(foto LaPresse)

Ci vuole Leopardi per capire la “tristezza post realtà virtuale” che attanaglia gli smanettoni

“Uno strano sentimento di delusione nel partecipare al mondo reale”. Là fuori “il cielo è meno brillante, e mi sembra di perdere la magia”, scrive Van Schneider

New York. Fatte le dovute proporzioni, ci sono momenti in cui Tobias Van Schneider si sente un po’ come Adamo un paio d’ore dopo aver morsicato la mela. Paragonato a quello che ha sperimentato prima, nel suo stato di grazia, la realtà così com’è gli appare insufficiente, limitata, amara. Una profonda tristezza lo pervade. Van Schneider è un designer e un inventore, insomma uno smanettone con la barba, che di recente ha preso a passare molto tempo nella realtà virtuale per creare cose meravigliose, in particolare con il software di Google Tilt Brush, che è il sogno di ogni pittore e designer. In uno spazio tridimensionale si può dipingere con qualunque pennello e una tavolozza infinita senza incappare nei limiti del mondo materiale. Il problema è che l’incanto genera un senso di invincibile sproporzione con la realtà non-virtuale.

“Ho passato un paio d’ore a dipingere con il fuoco su qualunque materiale in uno spazio virtuale tridimensionale. Sono così a mio agio a usare questi strumenti che mi sembra di esserci nato. Restringo e allargo il mio ambiente, ruoto gli oggetti e mi teletrasporto in giro per il mio mondo dei sogni. Mi sento come Dio per un paio d’ore, con attrezzi magici e potenti nelle mie mani. Posso fare tutto ciò che voglio! Dopo avere abbandonato un mondo del genere, il resto della giornata nella realtà mi mette una specie di tristezza”, ha scritto in un post sul suo blog che ha preso a circolare forsennatamente perché descrive esperienze ancora senza nome di altri utilizzatori della realtà virtuale. L’ha chiamata la “Post Virtual Reality Sadness”, la tristezza post realtà virtuale, e non è riconducibile a quella specie di mal di mare che certe esperienze di immersione visiva possono dare (c’è chi ne soffre anche al cinema se le inquadrature oscillano troppo o il montaggio è molto serrato). Il senso fisico di vertigine e leggero disorientamento, quello che ti suggerisce di non metterti alla guida di una macchina subito dopo aver passato tre ore con gli occhialoni in uno spazio virtuale, passa nel giro di qualche ora al massimo, ma lascia spazio a “uno strano sentimento di tristezza e delusione nel partecipare al mondo reale”. Là fuori “il cielo è meno brillante, e mi sembra di perdere la magia”, scrive Van Schneider.

 

 

Il fenomeno è stato subito riconosciuto da tanti che abitano assiduamente la realtà virtuale e sperimentano effetti collaterali. Per alcuni il rapporto con la materia è problematico, il ritorno alla dimensione reale doloroso. Questo testimonia innanzitutto l’unità inscindibile che è l’essere umano. L’occhio e il cervello che fanno l’esperienza virtuale sono parte dello stesso organismo che prova le vertigini e sente la tristezza una volta che è finita. Gli psichiatri che stanno osservando questo fenomeno si affrettano a inquadrarlo come una nuova fattispecie della derealizzazione o della depersonalizzazione. Si arriva in fretta a indagare sui livelli di serotonina, ma la tristezza da post realtà virtuale è anche il racconto di un fenomeno umano che Giacomo Leopardi inquadrava come un “vuoto dell’anima” che deriva dallo scontro fra l’infinità del desiderio e il “piacere necessariamente circoscritto” che si può raggiungere nella realtà: “Il sentimento della nullità di tutte le cose, la insufficienza di tutti i piaceri a riempirci l’animo, e la tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo”. Quando tornano dalle loro avventure virtuali, gli smanettoni barbuti dovrebbero smaltire la vertigine mettendosi in poltrona a leggere lo Zibaldone.

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