(foto LaPresse)

Game over: la Raf vuole schierare i giocatori di Play Station contro lo Stato islamico

Francesca Parodi

Il rischio di confondere realtà effettiva e virtuale e i pericoli di un futuro da cattiva fantascienza

Scrive il quotidiano inglese Guardian che l’aeronautica militare britannica (Raf) ha deciso di provare a reclutare giovani giocatori di video games per trasformarli in piloti di droni contro lo Stato islamico in Siria e Iraq. La richiesta incessante dal fronte di personale qualificato per comandare gli aerei senza equipaggio ha portato l’esercito britannico a pensare di reclutare “ragazzi di 18 e 19 anni direttamente dalle camerette di casa dove giocano con la Play Station”. I droni che questi adolescenti dovrebbero pilotare sono gli MQ-9 Reaper (in inglese significa “mietitrice”), che rappresentano più di un terzo della flotta aerea impiegata dalla coalizione delle forze occidentali in lotta contro lo Stato islamico. Sono velivoli che hanno una lunghezza di otto metri e un’apertura alare di 20 metri e la Raf ne sta facendo uso in Siria e in Iraq per sorvegliare il terreno e colpire ogni genere di bersaglio, a volte anche leader importanti. Sono guidati da una stazione di controllo a terra da due operatori (un pilota e un osservatore-armiere), generalmente presi dai ranghi degli avieri professionisti – ma al momento l’aviazione britannica è a corto di piloti.

Secondo quanto riportato da Greg Bagwell, ex comandante delle operazioni Raf legate ai droni Reaper, i piloti di droni nel Regno Unito sono logorati dalla pressione psicologica eccessiva e ci sono casi di disturbi psichiatrici legati allo stress. Per questo, dice Bagwell, la Raf dovrebbe cominciare a guardare ai giovani, specialmente ai giocatori di video games: “Abbiamo bisogno di sperimentare sul serio la possibilità di prendere un ragazzo di 18-19 anni direttamente dalla postazione della Play Station in camera sua, metterlo in una cabina di pilotaggio dei Reaper e dirgli: ‘Bene, non hai mai fatto volare un aereo prima, ma non importa, puoi pilotare questo’”. La preferenza per gli esperti di videogiochi è motivata dal fatto che questi ultimi sono già abituati a muoversi in una realtà virtuale 3D dove servono tattica e visione d’insieme. “Per essere un buon operatore di Reaper è necessaria una visione tridimensionale della realtà circostante anche se si è a tremila miglia di distanza. Si gioca una partita di scacchi tridimensionale nella propria mente, in cui bisogna capire come combinare insieme i vari pezzi per colpire il bersaglio”.

Se già suona come un racconto di fantascienza distopica, è perché ancora non conoscete gli studi che esaminano il legame tra i video games e le operazioni militari. Uno di questi è stato condotto dalla professoressa Missy Cummings del Massachussetts Institute of Technology e sostiene che i giocatori sono i candidati ideali per pilotare i droni grazie alle loro abilità “multitasking”. Tuttavia il problema, ha rivelato la studiosa, è che i giocatori sono inclini ad annoiarsi nelle situazioni reali e “durante il 90 per cento del tempo nelle missioni non succede nulla. Servono perciò abilità completamente differenti per gestire la situazione”. Questo studio ha messo in luce l’importanza di momenti di relax da parte degli operatori per rigenerare la mente e il team di ricerca sta indagando su come poter usare la tecnologia per indurre i giocatori pigri a mantenere alta la concentrazione durante tutte le fasi della missione. Per esempio, ha ipotizzato l’utilizzo di un piccolo apparecchio che trasmette leggere scosse in caso di distrazione degli operatori.

Quando la guerra è messa alla pari con un videogioco e il confine tra realtà effettiva e virtuale si fa così labile da confondersi, c’è un rischio ovvio, ed è perdere di vista il legame tra le proprie azioni e le loro conseguenze. Ma potrebbe andare pure peggio. “Dobbiamo prepararci ad un futuro dove una combinazione di robot, automi e sistemi artificiali aumenterà le nostre capacità” commenta Sir Richard Barrons, generale e capo di stato maggiore inglese da poco in congedo. “Un futuro dove le macchine uccideranno sulla base di un algoritmo, senza un umano nella cabina di comando”. Al di là delle implicazioni etiche, delegare decisioni e azioni ad un’intelligenza artificiale non garantirebbe per ora l’esito positivo dell’operazione: “Non abbiamo ancora pensato all’applicazione di questa tecnologia a situazioni particolari in cui il processo di acquisizione del bersaglio non è sotto stretto controllo e segue un certo rigore ad ogni step come succede adesso. Non potremmo quindi applicare questa tecnologia in conflitti più dinamici e complessi.”

Inoltre c’è un buco legislativo in materia: mancano leggi precise sull’impiego dei droni in guerra e sulla valutazione delle conseguenze, in particolare in caso di danni collaterali durante la lotta al terrorismo. Secondo Barrons, alla luce dei nuovi progressi è necessaria una revisione della giurisprudenza: “Questa non è fantascienza e non siamo molto lontani dal momento in cui le forze armate occidentali avranno acquisito tali capacità [di uccidere a distanza con macchine automatiche]. E allora ci sarà bisogno di avere assolutamente chiaro quali regole applicare e in quali casi”.