L'osservatore geniale

Leopardi, gli italiani e la tara di un paese nichilista

Mario Andrea Rigoni

Dallo "Zibaldone" al profetico "Discorso sopra lo stato presente dei costumi": il poeta nel solco della grande tradizione di Machiavelli e Guicciardini. Con una critica della modernità, sinonimo di decadenza, che anticipa Nietzche

Leopardi non è stato solo un “filologo ammirato fuori d’Italia, scrittore di filosofia e di poesie altissimo, da paragonare solamente coi Greci” (come fece scrivere magnificamente sulla sua lapide Pietro Giordani), ma anche un geniale osservatore della storia, della politica, della civiltà e dei costumi: ne sono testimonianza il suo diario intellettuale, lo Zibaldone di Pensieri, i centoundici Pensieri, il poemetto di satira politica e metafisica Paralipomeni della Batracomiomachia e uno scritto del 1824 intitolato Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, un saggio breve, frammentario e incompiuto, ma tanto importante da rappresentare per l’Italia ciò che La démocratie en Amérique di Tocqueville è per gli Stati Uniti o La Russie en 1839 di Astolphe de Custine per la Russia: scritti di lucidità tanto sbalorditiva da trasformare l’osservazione del presente in una profezia di perenne attualità.

 

Credo non si possa comprendere il pensiero e l’opera di Leopardi se non si tiene conto che, per costituzione intellettuale e per cultura filosofica, egli muove da una visione naturalistica dell’uomo e delle cose che, senza negare il “misterio eterno / dell’esser nostro”, esclude il ricorso alle idee trascendenti la ragione e l’esperienza.

 

Un saggio breve e frammentario che rappresenta per l’Italia ciò che “La démocratie en Amérique” di Tocqueville è per gli Stati Uniti

All’eredità rinascimentale ha aggiunto quella dell’illuminismo settecentesco, che però ha perduto tutte le illusioni progressistiche

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In questo senso egli si colloca nel solco di una grande tradizione segnata, in ambito italiano, dal pensiero di Machiavelli e di Guicciardini. Si può dire in effetti che Leopardi sia una sorta di Guicciardini e di Machiavelli moderno, intendo in questo modo un pensatore che all’eredità rinascimentale ha aggiunto quella dell’illuminismo settecentesco, ma, attenzione!, un illuminismo che ha perduto tutte le prospettive ottimistiche e tutte le illusioni progressistiche.

 

Si sa che la critica leopardiana ha sofferto in proposito, per molti decenni, di un clamoroso abbaglio, sostenendo la tesi di un Leopardi razionalista e progressista, perché non ha visto, o meglio non ha voluto vedere, che la ragione è per Leopardi, come egli stesso diceva, e come prima di lui diceva Pierre Bayle, più volte citato sia nello Zibaldone sia nell’epistolario, un fatale strumento di distruzione, anziché di edificazione. E’ d’altronde in questo senso, e solo in questo senso, che egli attinge alla filosofia dei Lumi: prova ne sia il fatto che in tutte le 4.526 pagine dello Zibaldone non c’è una sola citazione, dico una sola, di un pensatore illuminista, si tratti di Voltaire, di Rousseau, di Federico II di Prussia o di chiunque altro, che non abbia un significato negativo.

 

Qualcuno potrebbe chiedersi candidamente se Leopardi si compiacesse di essere un distruttore, oggi diremmo un nichilista. No, alle sue conclusioni era condotto malgré lui dalla semplice osservazione delle cose, dell’uomo, della vita e della civiltà.

  

“Mi ricordo di quel detto di Bayle; che in metafisica e in morale, la ragione non può edificare, ma solo distruggere”

L’età più felice resta l’antichità pagana. Il mondo moderno è caratterizzato dalla sparizione dell’individuo dinanzi alle masse

E’ noto che nel 1827 l’editore Stella riferì a Leopardi il giudizio critico di un anonimo letterato sulle Operette morali, che erano appena state pubblicate. L’anonimo letterato era in realtà il Tommaseo, che aveva dichiarato:

 

Ho letto il libro del Conte Leopardi: mi parve il libro meglio scritto del secolo nostro; ma i principii, tutti negativi, non fondati a ragione, ma solo a qualche osservazione parziale, diffondono e nelle immagini e nello stile una freddezza che fa ribrezzo, una desolante amarezza.

 

Come risponde Leopardi al suo editore (23 agosto 1827)?

 

Circa il giudizio sopra le Operette morali, che Ella mi comunica, che vuol ch’io le dica? Dirò solo che non mi riesce impreveduto. Che i miei principii sieno tutti negativi, io non me ne avveggo; ma ciò non mi farebbe gran maraviglia, perché mi ricordo di quel detto di Bayle; che in metafisica e in morale, la ragione non può edificare, ma solo distruggere.

 

E conclude con ironia provocatoria:

 

Che poi le mie opinioni non sieno fondate a ragione, ma a qualche osservazione parziale, desidero che sia vero.

 

Agli occhi di Leopardi l’intero decorso storico, dal peccato originale fino ai suoi tempi, appare come una progressiva e irreversibile opera di demolizione e annientamento di tutte le belle illusioni coltivate dall’umanità antica e questa demolizione è causata dallo sviluppo della ragione, della psicologia, del sapere, della scienza, della civiltà, di quel fenomeno che egli chiamava col nome di “spiritualizzazione” per indicare il prevalere delle forze interiori e spirituali su quelle esteriori e materiali, sia nell’individuo sia nella società, che si afferma almeno a partire dall’avvento del Cristianesimo. Per conseguenza l’età più felice o meno infelice resta l’antichità pagana, mentre la modernità è sinonimo di decadenza sotto ogni profilo: morale, civile, politico, artistico.

  

Il mondo moderno è caratterizzato dalla “società stretta” che si è sostituita alle primitive “società larghe”, dalla sparizione dell’individuo dinanzi alle masse, dal predominio del calcolo e dell’utilità, dall’universale livellamento. “Ecco tutto è simile”, si legge nella canzone Ad Angelo Mai (v. 99), “Or di riposo / paghi viviamo, e scorti / da mediocrità: sceso il sapiente / e salita è la turba a un sol confine, / che il mondo agguaglia” (vv. 171-175). E’ una critica della modernità che evidentemente anticipa già Nietzsche, come d’altra parte anticipa anche Adorno. Il declino è non meno evidente in ambito letterario e artistico: proprio in una nota del Discorso Leopardi scrive: “L’originalità, l’immaginazione e l’invenzione sono estinte in tutta l’Europa: tutto il mondo imita, raccoglie, compila, disserta sopra le cose trovate da altri, o antichi o stranieri. La creazione è finita, o così scarsa che nulla più, da per tutto”. Anche in questo caso le parole di Leopardi fanno pensare al “tramonto dell’occidente” del quale parlerà Spengler un secolo dopo.

 

Infine la società moderna è dominata da un universale egoismo ed è un sistema che si conserva solo in virtù del paradossale equilibrio che si instaura fra le forze distruttive dalle quali è percorso, come avviene nella pressione reciprocamente esercitata dalle colonne d’aria o dai fluidi.

 


“Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico de’ popolacci”


 

Il mondo, o la società umana nello stato di egoismo (cioè di quella modificazione dell’amor proprio così chiamata) in cui si trova presentemente si può rassomigliare al sistema dell’aria, le cui colonne (come le chiamano i fisici) si premono l’une l’altre, ciascuna a tutto potere, e per tutti i versi. Ma essendo le forze uguali, e uguale l’uso delle medesime in ciascuna colonna, ne risulta l’equilibrio, e il sistema si mantiene mediante una legge che par distruttiva, cioè una legge di nemicizia scambievole continuamente esercitata da ciascuna colonna contro tutte, e da tutte contro ciascuna (Zib. 2436-2437, 10 maggio 1822).

 

Entro una tale cornice generale di pensiero occorre situare anche il Discorso sui costumi degli italiani. Esso fu progettato nel 1824 ed era forse destinato a una rivista, presumibilmente L’Antologia fiorentina, alla quale Leopardi era stato invitato a collaborare dal Vieusseux e alla quale aveva promesso “qualche articolo di genere filosofico”, ma rinunciando infine alla collaborazione.

 

La società moderna è dominata da un universale egoismo e si conserva solo in virtù del paradossale equilibrio tra le forze distruttive

Gli italiani, tutto genio e niente carattere, dunque niente o poca società e civiltà. Armonizzare l’uno con l’altro, il loro eterno problema

Si sa che i costumi degli italiani sono sempre stati oggetto dell’interesse universale per due ovvie ragioni. La prima: l’Italia è un paese assolutamente unico al mondo per il paesaggio naturale, la dolcezza del clima, il piacere del vivere, la gloria della storia antica, la ricchezza e lo splendore plurisecolare del pensiero e delle arti. La seconda, dipendente dalla prima: l’Italia è stata una meta e un culmine del Grand Tour, il viaggio pressoché obbligatorio per le classi colte e agiate europee che tra il Seicento e l’Ottocento desideravano completare e arricchire la loro formazione umanistica.

 

Per queste due ragioni era anche naturale che fiorisse tutta una letteratura di viaggio straniera, dal Journal di Montaigne fino al romanzo di Madame de Staël Corinne ou l’Italie, che ebbe grande importanza nella prima formazione intellettuale di Leopardi e che conteneva precisamente un capitolo sul carattere e sul costume degli italiani. Generalmente questa letteratura di viaggio mescolava l’elogio entusiastico dell’Italia come paesaggio naturale e artistico al lamento più costernato per la degradazione morale e civile dei suoi abitanti. Cito soltanto due esempi tra moltissimi. Il primo è una lettera scritta a Napoli da Shelley all’amico Leigh Hunt nel 1818:

 

Ci sono due Italie; una costituita dalla terra verde, dal mare trasparente, dalle possenti rovine dei templi antichi, dalle montagne aeree e dall’atmosfera calma e radiosa che è infusa in tutte le cose. L’altra consiste degli italiani di oggi, delle loro opere e dei loro costumi. L’una è la più sublime e leggiadra visione che possa essere concepita dall’immaginazione umana; l’altra la più degradata, disgustosa e odiosa (Opere, a cura di F. Rognoni, Einaudi-Gallimard, 1995).

 

Il secondo, di circa un secolo dopo, è anch’esso una lettera, questa volta di un pittore, un pittore che tutti conosciamo e amiamo, Paul Klee, al quale si deve uno degli insulti più sanguinosi che abbiamo mai ricevuto. In un frammento di lettera da Roma a Lily Stumpf (1901?) scrive:

 

In generale trovo odioso il modo d’essere degli italiani, che esagerano ogni cosa e ti fanno credere chissà che… E’ una marmaglia miserabile, e l’enigma più grande per me è che qui sia stato possibile un Rinascimento. Un retaggio di cui d’altronde nulla si è tramandato in loro (P. Klee, Lettere dall’Italia, 1901-1902, Archinto, 2005).

 

Leopardi intende comporre un saggio sui costumi degli italiani innanzitutto perché essi, a differenza degli stranieri, non amano riflettere né scrivere sui propri costumi. Un’eccezione si potevano considerare Parini e Goldoni, come pure Giuseppe Baretti, autore di un Account sui costumi degli italiani che era stato pubblicato a Londra nel 1768 in risposta al ritratto denigratorio che del nostro Paese aveva fatto un celebre chirurgo e viaggiatore inglese, Samuel Sharp, nelle sue Lettere dall’Italia. Ma, a parte ogni altra considerazione, cosa mancava a tutti questi scrittori italiani e in buona misura anche agli stranieri? Mancava la profondità dello sguardo filosofico e antropologico, che è quello che Leopardi conferisce al suo saggio.

 

Egli muove da una costatazione di carattere generalissimo: il progresso della conoscenza e del sapere nell’epoca moderna ha distrutto dovunque le grandi e vitali illusioni su cui tradizionalmente si fondava la vita degli uomini, ossia il bene, la virtù, la giustizia, la gloria, l’onore, la patria.

 

Ma come può sopravvivere una società nel vuoto spaventoso di tutte le illusioni? Ecco la domanda che Leopardi si pone nel Discorso, consapevole che le leggi, senza i buoni costumi, non hanno vera efficacia, come già osservava Orazio in una sua celebre Ode (III, 24, vv. 35-36). Proprio qui il caso dell’Italia si distingue da quello degli altri paesi europei più civili e più moderni. Anche se la morale è stata universalmente distrutta, in Francia, in Germania, in Inghilterra l’affermazione di una società e di una nazione, storicamente avvenuta agli inizi dell’età moderna, maschera la nullità delle cose dietro il paravento della conversazione, del bon ton, dell’opinione pubblica, dell’amor proprio, dell’ambizione, dell’onore e dell’orgoglio, cosa che “inganna in qualche guisa il pensiero, e mantiene come che sia e per quanto è possibile l’illusione dell’esistenza”. Invece in Italia, che non ha una società, che è fatta di individui assai più che di cittadini, che conosce soltanto usanze o abitudini piuttosto che veri costumi, quella stessa vanità metafisica dell’esistenza si manifesta con brutale immediatezza, determinando l’indifferenza, il disprezzo e l’irrisione reciproci, la lotta senza quartiere di tutti contro tutti.

 


Gerolamo Induno, "La partenza dei coscritti nel 1866", 1878 (Milano, Museo del Risorgimento)


  

Gli italiani ridono della vita: ne ridono assai più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza che non fa niun’altra nazione. Questo è ben naturale, perché la vita per loro val meno assai che per gli altri, e perché egli è certo che i caratteri più vivaci e caldi di natura, come è quello degl’Italiani, diventano i più freddi e apatici quando sono combattuti da circostanze superiori alle loro forze. Così negl’individui, così è nelle nazioni. Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico de’ popolacci. Quelli che credono superiore a tutte per cinismo la nazione francese, s’ingannano. Niuna vince né uguaglia in ciò l’italiana.

 

E’ per tale ragione che l’Italia, nonostante non abbia una cultura filosofica evoluta, si può dire che sia nei fatti il paese più filosofico di tutti, nel senso che vive in un totale nichilismo pratico. Certo, in tutte le società moderne l’etica non è niente più che etichetta: ci si vergogna di fare il male non per un imperativo morale o religioso, ma solo per convenzione e convenienza sociale, come ci si vergogna di comparire in pubblico con un vestito liso o macchiato. Solo che nel nostro paese non avviene nemmeno questo: alla mancanza della vergogna morale si aggiunge la mancanza della vergogna sociale perché l’Italia vive la strage delle illusioni allo stato puro ed elementare, conservando il privilegio di superare tutte le altre nazioni nel declino e nella sventura così come le aveva superate precedentemente nell’ascesa e nella gloria – e non una sola volta, ma due, ossia nell’antichità romana e nel Rinascimento.

 

L’Italia è dunque il paese più nichilistico, più cinico e più anarchico di tutti, privo di quelle illusioni sociali “fuor delle quali non esiste l’importanza della vita. Or la vita degl’Italiani è appunto tale, senza prospettiva di miglior sorte futura, senza occupazione, senza scopo, e ristretta al solo presente”. Tutta la vita sociale si limita al passeggio, agli spettacoli e alle chiese, mentre l’individualismo è tale che non solo “ciascuna città italiana…, ma ciascuno italiano fa tuono e maniera da sé” e la vita in comune si risolve in una continua guerra comune. E’ lampante quanto sia precoce, profonda e attuale questa analisi, benché anche Goethe nel 1790 scrivesse in uno dei suoi epigrammi veneziani che in Italia c’è vita e fermento, ma non lealtà, né ordine né disciplina. “Ognuno – dice Goethe – pensa solo a sé / diffida dell’altro, è fatuo, / e a loro volta i capi di stato provvedono solo a se stessi” (Epigrammi. Venezia 1790, trad. di M.T. Giannelli, in Tutte le poesie, ed. diretta da R. Fertonani, Mondadori 1989).

 

Troppo poco civile per godere dei benefici delle società europee più colte, più istruite e più evolute, l’Italia è d’altra parte troppo civile per poter ancora avvalersi dei benefici delle società arretrate, che trovano nel pregiudizio e nell’ignoranza una garanzia per la morale, cosicché l’Italia risulta svantaggiata sia rispetto ai paesi come la Francia o l’Inghilterra sia rispetto ai paesi come la Russia o la Spagna. Leopardi, con ciò, non ha affatto abbandonato il concetto negativo che egli ha della civiltà in sé come immane massacro di illusioni; riconosce tuttavia che solo quella più avanzata è in grado di produrre antidoti contro i propri veleni e che dunque, in Italia, “non può farsi cosa più utile ai costumi oramai che il promuoverla e diffonderla più che si possa”: questa è la sola speranza che si possa nutrire per il futuro.

 

Ma da cosa dipende questa singolarissima situazione se non dal fatto che gli italiani non sono una nazione, ossia una società unita non solo da una forma politica ma da una comunanza di mentalità, di intenti, di costumi? E’ da qui che derivano tutti i mali dell’Italia, al tempo di Leopardi come al nostro: l’egoismo e il cinismo dei singoli e dei gruppi, l’assenza o la latitanza dello stato, la mancanza di solidarietà e di orgoglio nazionale, la diffusione dell’illegalità e della criminalità in tutte le sue forme. Parecchi anni fa ebbi occasione di scrivere che l’Italia è il paese più corrotto dell’occidente: poteva sembrare un’esagerazione, oggi è un’ evidenza.

 

Leopardi non fece in tempo a vedere l’unità e l’indipendenza nazionale, ma noi sappiamo bene che esse furono raggiunte in modo quanto mai tardivo, elitario e fortunoso, per di più con l’opposizione della chiesa. Fino alla seconda metà dell’Ottocento, l’Italia, se forse non era soltanto “un’espressione geografica”, come sosteneva Metternich, certamente era poco più di un’idea o di un nome che echeggiava nella letteratura attraverso i secoli dall’Eneide di Virgilio fino alla Canzone di Petrarca Italia mia e al Principe di Machiavelli. All’inizio dell’età moderna, mentre i maggiori paesi europei diventavano potenti stati nazionali, l’Italia restava divisa politicamente, culturalmente, moralmente, per di più soggetta a un secolare e vario dominio straniero: in comune non aveva che due soli elementi, la religione cattolica e la lingua, ma solo la lingua letteraria – la grande lingua letteraria – praticata da pochissimi, non la lingua parlata, anch’essa frazionata in una molteplicità di dialetti, quelli che tuttora sussistono e anzi vigoreggiano.

 

La letteratura di viaggio mescolava l’elogio dell’Italia, come arte e natura, al lamento per il degrado morale dei suoi abitanti

Come può sopravvivere una società nel vuoto spaventoso di tutte le illusioni? Ecco la domanda che Leopardi si pone nel “Discorso”

Ancora all’inizio del quinto decennio dell’Ottocento Vincenzo Gioberti scrive nel Primato morale e civile degli Italiani che il popolo italiano “non sussiste”, che

è un desiderio e non un fatto, un presupposto e non una realtà, un nome e non una cosa, e non so pur se si trovi nel nostro vocabolario. V’ha bensì un’Italia e una stirpe italiana congiunti di sangue, di religione, di lingua scritta ed illustre; ma divisa di governi, di leggi, d’instituti, di favella popolare, di costumi, di affetti, di consuetudini.

 

E’ evidente che differenze così numerose e così durature non si cancellano se non nei secoli e sono all’origine delle nostre attuali difficoltà, per non dire tragedie.

 

Forse dobbiamo riconoscere in conclusione che il destino storico dei popoli è determinato assai più dal loro carattere che dal loro genio, assai più dalla loro società che dai loro individui. Gli italiani sono tutto genio e niente carattere, dunque niente o poca società e civiltà. Il loro eterno problema, tanto da configurarsi come una sorta di tara antropologica, è quello di armonizzare l’uno con l’altro: un problema che dunque non si può risolvere con una decisione istantanea, ma forse soltanto con una lunga educazione etica, civile e politica, oltre che con il cambio delle generazioni.

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