Caro Fantasma

Massimo Morello

In memoria di Claudio Bussolino, “italiano emigrato in Asia” come si definiva. Ci siamo incontrati “in un’altra vita” come dicevamo, in un’ambigua Phnom Penh. Anche da scomparso Claudio si rivela una guida per comprendere questa parte di mondo

Nell’acqua melmosa dello stagno nuotano orridi pesci. In una gabbietta tra i rami di un bonsai gigante intristisce una coppia di pappagallini. La pagoda in Vietnam dove sono venuto a tentare un po’ di meditazione non è un posto particolarmente bello. Ma forse questa sua apparente bruttezza è servita allo scopo. In fondo per molti asceti buddhisti è nell’impurità che si trova il distacco necessario alla meditazione. Nei contrasti di quella pagoda sono riuscito a ripensare con serenità a Claudio, un vecchio amico scomparso a fine 2019. E con lui i molti dubbi e segreti che lo accompagnavano.

 

Anche per questi mi ci è voluto un po’ di tempo a elaborare il ricordo, finché non ho compreso che Claudio era divenuto uno spettro, uno di quei fantasmi, buoni o cattivi, spesso ambivalenti, che sono le presenze occulte di molte storie dell’Asia. Claudio, in particolare, era divenuto un personaggio dello Sbaek Thom, il teatro delle ombre cambogiano, in cui le ombre si moltiplicano e con esse il significato delle storie che interpretano. A volte anche chi manovra le marionette s’interroga sul significato delle ombre dandosi una risposta sempre diversa.

 
 
Vent’anni fa, quando ci siamo incontrati ero all’inizio di un lungo viaggio lungo il Mekong e quell’incontro lo avrei raccontato nella storia di quel viaggio: "Mekong Story", appunto, che è un po’ anche all’origine di questo blog.

 
 
“Claudio è un personaggio esemplare della generazione del Sessantotto, di uno dei suoi tanti destini. Ex quadro PCI, ex novizio, vive in Cambogia da otto anni e da quasi venti frequenta il Sud Est asiatico. Parla khmer e vietnamita, abita una stanza del quartiere cinese, compra cibo e vestiti nei mercatini locali. «Spendo meno di un cambogiano» dice «senza farmi mancare nulla, sigarette comprese». Dopo un periodo difficile, adesso Claudio fa la guida, scrive, studia tutto ciò che riguarda quest'area in forma quasi maniacale.

 

Trascorro qualche giorno con lui, che mi porta in giro e mi parla ininterrottamente: passa da battute sulla grammatica sanscrita alla geopolitica asiatica, raffronta avvenimenti di culture lontane con chiara visione sincronica e analizza la storia secondo i codici culturali del suo contesto. «L’occidente riesce a comprendere ben poco di quanto accade qui anche per un problema di comunicazione…Siamo in uno scacchiere dove ci sono più giocatori che pedine e dove le regole del gioco cambiano dopo ogni mossa» commenta Claudio. Mentre chiacchieriamo dei massimi sistemi, mi fa scoprire una Phnom Penh molto diversa dall’immaginato e dall’immaginario, una città di spazi e respiro, per quanto torrida, quella che lui vive. Girovaghiamo tra i mercati cercando abiti e scarpe usate e argenti antichi. Passiamo a vedere il restaurato palazzo coloniale delle poste, dove Claudio riceve la sua corrispondenza, e ci fermiamo a chiacchierare con Frank Dulac, il titolare della Mekong libris, la libreria nella piazza della posta, che espone edizioni originali dei classici dell’École Française d’Extrême Orient.

 

Dove Claudio mi stordisce con la sua affabulazione è al Museo Nazionale di Phnom Penh. Aperto nel 1920 e restaurato qualche anno fa, è un luogo di osservazione e riflessione, con una collezione di statuaria khmer dal VI al XIII secolo, che mi richiama alla mente immagini indiane, egizie, assire, tolteche, in quella confusione storica ed estetica che ci coglie di fronte allo sconosciuto. Poi, lentamente, grazie a Claudio, riesco a cogliere la levità di un Buddha su un fiore di loto dal drappeggio che appare trasparente, la sinuosità di un Buddha in piedi, la perfezione della postura nella statua di Jayavarman VII (1181-1220), uno dei massimi creatori di Angkor, che è la meditazione pietrificata…

 

Trascorro il mio ultimo giorno a Phnom Penh in compagnia di Claudio, nella sua stanza del quartiere cinese, quasi una cella monacale. Mi parla della sua vita, e per la prima volta lo sento smarrito. Devo ammettere che persone come lui suscitano in me diverse reazioni. Invidia per l’apparente tranquillità determinata dalla rinuncia, dall’isolamento, dalla fuga, dallo stare nascosti. Pena, per le condizioni in cui tutto ciò accade, per il senso di uno scorrere inesorabile del tempo. Non so se lo rivedrò. «Non diciamolo. Se capita c'incontreremo di nuovo. Mi sarebbe piaciuto venire con te» mi saluta così. Mi inquieta un po’ Claudio. Ho paura di diventare come lui”.

 
 
Da allora ci siamo incontrati molte volte. Non sono diventato come lui. Ma non ho più paura di una possibilità che non escludo. Nel frattempo, lui era cambiato un po’, a volte quasi con disappunto per le concessioni che faceva alla vita. La sua morte mi ha colpito profondamente anche perché con lui è sparito un pezzo della mia storia. Apparteniamo alla stessa generazione (stesso anno di nascita, addirittura). Condividevamo qualche vizio (il fumo innanzitutto) e vezzo (dettato da un certo snobismo di fondo), idiosincrasie comuni e dubbi reciproci. Col passar del tempo eravamo divenuti entrambi un po’ dei cliché, interpretavamo ruoli che sembravano tratti dalla letteratura e dai film d’ambiente indocinese (io coi miei vestiti bianchi, uno sciacallo come animale da compagnia lui). Ci separavano idee, filosofia, Ma ci univa il culto delle idee, della filosofia, una bizzarra, per diversi motivi, attrazione per Sant’Agostino e Plotino. Potevamo discutere, anche aspramente, ma non litigare. Negli ultimi tempi, avevamo superato le nostre divergenze ideologiche in nome del disprezzo per i profeti dell’ignoranza, i negazionisti della cultura (e di ogni egemonia che la esprima). Era in questo clima che vedevamo il segno del tramonto dell’Occidente e cercavamo nei valori asiatici una via di fuga più personale che di salvezza comune. Ci attraeva la ricerca dell’ordine e dell’armonia, nel millenario rincorrersi di yin e yiang, tra Confucio e Lao Tzu (cui Claudio, molto forzatamente a mio giudizio, aggiungeva Mao Zedong), tra l’idea mandarina di élite formata nello studio e quella mistica del saggio taoista in peregrinazione.

 

Se sono finito in quella pagoda vietnamita che ha dato origine a tutte queste strambe riflessioni è soprattutto perché la scomparsa di Claudio mi ha fatto sentire più vicina la mia. «La morte è semplicemente una trasformazione dell’essere» mi ha detto una monaca in quella pagoda. Affermazione semplice che ho trovato consolatoria soprattutto per la l’empatia che percepivo. Claudio, probabilmente, avrebbe avuto molto su cui discutere.  «Non puoi pensare di sfuggire a te stesso. Non te la puoi cavare col concetto di karma e reincarnazione. La punizione è immanente anche qui. Guarda le raffigurazioni dell’inferno buddhista» mi aveva detto con quella specie di smorfia che faceva aspirando l’ennesima sigaretta.

 

Quella monaca, però, mi ha detto anche un’altra cosa, un consiglio più sottile. «Continui a pensare alle storie degli altri, racconti altre vite. Perché non racconti la tua vita? Così potrai capire meglio la morte».

  

 

Ci provo, osservando la testa di Jayavarman VII, perfetta riproduzione di quella del museo di Phnom Penh, che ho comperato assieme a Claudio.

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