Quando i Rohingya non erano di moda

Massimo Morello

La tragedia del popolo Rohingya, gli indesiderati del Sud-est asiatico, è divenuta la nuova bandiera dell’estremismo umanitario. E una buona scusa per gli estremisti islamici

“Saugida ha venduto il figlio più piccolo, due mesi, per 5000 taka, 57 euro. Con quei soldi, lei e gli altri due figli sono riusciti a sopravvivere per sei mesi. Il marito è morto in mare qualche anno fa...Sono storie comuni tra le donne degli oltre 250.000 rifugiati Rohingya che vivono nella regione di Cox Bazar, nel sud del Bangladesh”. Iniziava così l’articolo che ho scritto nel 2011 per Il Foglio.Stesso incipit (solo quello) per il mio articolo pubblicato dal Foglio nel febbraio scorso. Ma tra quei due articoli è cambiata la narrazione degli “indesiderati del Sud-est asiatico”, un milione di persone circa di religione musulmana che vivono nel Rakhine, regione all’estremo ovest della Birmania, al confine col Bangladesh. Dove da decenni sono vittime di persecuzioni e discriminazioni, costretti a scegliere tra una vita senza diritti e una fuga che porta ai campi profughi in Bangladesh, a un lavoro da schiavi o alla morte in mare.

 Oggi i Rohingya sono al centro dell’attenzione mondiale. Sono oggetto di reportage, inchieste, dossier, rapporti delle Nazioni Unite. Nel 2011 non erano tanto di moda. Solo il Foglio, appunto, dedicò ai Rohingya un lungo articolo. Molti dei magazine italiani non si dimostrarono altrettanto interessati. “Una storia di sfiga. Ne abbiamo abbastanza delle nostre”: così mi sentivo rispondere. Tanto che il reportage fotografico realizzato da Andrea Pistolesi, che mi aveva accompagnato, è rimasto nel cassetto. Ne pubblichiamo qui alcune immagini come testimonianza di una realtà che era drammatica allora quanto oggi. Peccato non fosse mainstream.

Che cos’è cambiato tra il 2011 e oggi?  Il cambiamento maggiore è che oggi i Rohingya non sono perseguitati solo dal governo birmano, ma anche da parte dalla popolazione locale e della comunità monastica buddista. Paradossalmente, da quando la Birmania sembra aver imboccato la road map per la democrazia, i Rohingya sono divenuti il più facile capro espiatorio per i drammatici problemi sociali ed economici del paese. Tutto ciò ha innescato una reazione da parte delle organizzazioni umanitarie e delle Nazioni Unite, che indagano su crimini di “pulizia etnica” e “genocidio”.  Lo stesso Papa Francesco nel febbraio scorso ha denunciato il trattamento dei Rohingya, descrivendoli come “fratelli e sorelle” torturati e uccisi per la loro fede. Inevitabilmente, quindi, i Rohingya sono divenuti di moda, la loro bandiera ha preso il posto di quella di Aung San Suu Kyi tra chi cerca sempre un nuovo martire.

E’ un’operazione che comporta molti rischi. In Birmania, innanzitutto. Con la denuncia dei crimini contro i Rohingya, infatti, è arrivata anche l’accusa di silenzio contro tali crimini rivolta ad Aung San Suu Kyi. Minando così la sua credibilità internazionale. Sembra quasi - continuo a ripeterlo a quelli che mi chiedono di lei e dei Rohingya sperando in una risposta da amante deluso - che non le perdonino di non essere stata uccisa. “Da eroina dei diritti umani a icona alienata” era il titolo di un articolo della BBC.

La Signora, invece, ancora una volta, sta dimostrando coraggio. Non fa sconti al conformismo globale dell’“estremismo umanitario”. E’ pronta a sacrificare la sua immagine per traghettare il paese verso una democrazia più compiuta. Il che non potrebbe accadere mettendosi in rotta di collisione con i militari, molti monaci e parte del suo stesso popolo. Tanto più in un momento in cui cerca disperatamente di ricucire le divisioni etniche interne.

I Rohingya, inoltre, sono divenuti un serbatoio di reclute per i movimenti integralisti del Sud-est asiatico, come dimostrano gli attacchi compiuti qualche mese fa contro i posti delle guardie di frontiera. Tutto ciò era il tema dell’articolo del Foglio del febbraio scorso, in controtendenza con la nuova moda.Non è un caso che si denunci il “genocidio” dei Rohingya (la cui popolazione negli ultimi anni ha continuato a crescere) nel momento in cui in Sud-est asiatico si fa sempre più forte il rischio di radicalizzazione islamica, quando appare sempre più concreto il rischio della creazione di micro feudi dell’Isil (Islamic State of Iraq and the Levant). Com’è accaduto nell’isola filippina di Mindanao.

L’islamofobia birmana, come quella crescente nello Sri Lanka, è un dato di fatto. Che però andrebbe analizzata con maggior rigore e non può divenire una ragione storica del giustificazionismo imperante. Di cui sono esempio gli attivisti che hanno addebitato alla “disperazione” i crimini imputati a un Rohingya rifugiato in Bangladesh e arrestato con l’accusa omicidio, traffico di droga e di esseri umani.
In questa prospettiva, allora, è legittimo sospettare che le denunce di “genocidio” nei confronti dei Rohingya, proprio per la terminologia (tanto eclatante quanto formalmente scorretta), servano a bilanciare i crimini commessi in nome dell’Islam o la sempre maggiore radicalizzazione nei paesi islamici dell’area. Ne sono esempi recentissimi le denunce di blasfemia nei confronti del figlio del presidente indonesiano Joko “Jokowi” Widodo perché in un video ha criticato coloro che volevano rifiutare i riti funebri a chi avesse sostenuto la candidatura di politici non musulmani, o le richieste di boicottaggio di Starbucks in Malaysia e Indonesia, perché la catena di caffetterie sostiene i diritti dei gay.

E’ legittimo chiedersi, alla fine, se nei paesi islamici verranno mai lanciate iniziative di preghiera interconfessionale come quelle proposte in Birmania dal cardinale Charles Maung Bo, arcivescovo di Yangon, in un messaggio diffuso a conclusione del Ramadan o come la “Prayer Marathon for Peace” che si è svolta nelle Filippine il 7 luglio, mentre ancora continuavano i combattimenti contro i miliziani dell’Isil nella città di Marawi.