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Il Foglio del weekend

Intuizioni e disincanto di Pareto, il marchese che mostrò al Novecento gli orizzonti della libertà

Alberto Mingardi

Moriva cento anni fa il più grande scienziato sociale italiano. Avvocato del libero scambio e lucido osservatore delle élite politiche, più di tutto lo irritava il bavaglio alle opinioni

Nel 1833, la Giovine Italia, nata da poco, organizza una serie d’insurrezioni nel Regno di Sardegna. Sembra godere d’ampie simpatie, soprattutto fra i soldati. Ma viene stroncata sul nascere, i suoi leader finiscono davanti ai tribunali militari, qualcuno pure condannato a morte. Certi fatti sono piccoli nella storia ma grandi per un individuo. L’individuo in questione non è ancora nato ma suo padre è un cadetto del Genio, ha appena concluso studi di carattere tecnico-scientifico, se non fosse per la politica, accidenti, diventerebbe ufficiale per forza delle cose. Intimorito dalle conseguenze dei suoi stessi slanci, Raffaele Pareto, genovese, figlio del marchese Gian Benedetto e di Aurelia Spinola, ripara in Francia. Eccesso di zelo: re Carlo Alberto userà la mano leggera coi rivoltosi genovesi. Ma tant’è, le valigie ormai eran fatte.

La prima traccia conclamata del soggiorno parigino di Raffaele, scrive Fiorenzo Mornati nella sua imprescindibile Biografia intellettuale di Vilfredo Pareto (Edizioni di Storia e Letteratura, 2015-2020), è il testo di una lezione di un suo corso di architettura, che tenne all’Athénée Central a partire dal dicembre del 1834. L’anno dopo sposa Marie Métenier. Hanno due figlie e poi, nel 1848, un maschio: Vilfredo. Raffaele e famiglia tornano in Italia nel 1854, trovano Genova invischiata nel colera, l’ex ufficiale del Genio si adopera per contrastare l’epidemia, ne ottiene una medaglia, scrive un articolo su come migliorare le condizioni igieniche della città. L’influenza del padre non produsse un figlio mazziniano. “Avevo circa sedici anni”, ricorda un Vilfredo ormai sessantenne, “quando mi accadde di leggere due autori di indole contraria, cioè il Bossuet e il Bastiat. Il primo mi dispiacque fieramente; il secondo soddisfece interamente i miei sentimenti, i quali in ciò si trovavano contrari a quelli delle persone tra le quali vivevo, onde posso dire che non furono acquisiti ma che erano conseguenza dell’indole che sino dalla nascita avevo”. Con la persuasione o con l’esempio, Raffaele lo indirizzò verso una carriera simile alla propria. Dopo la licenza in scienze matematiche e fisiche, Vilfredo frequenta la scuola di applicazione per ingegneri (il Politecnico). Gli anni della formazione li trascorre dunque in buona misura in una Torino effervescente dal punto di vista dei dibattiti scientifici. La passione predominante del giovane è la matematica, che studia con Angelo Genocchi, il maestro di Giuseppe Peano. Gliene resta l’idea, che si porterà appresso tutta la vita, che la rilevanza di una teoria dipende dalla solidità empirica delle sue premesse più che dalla raffinatezza dei suoi sviluppi formali. La matematica, insomma, lo intriga soprattutto per le sue applicazioni.

Vilfredo doveva essere un giovanotto senza troppi grilli per la testa, convinto che il suo contributo a migliorare il mondo passasse dal realizzare cose che funzionavano. Oggi lo ricordiamo, a cent’anni dalla morte (19 agosto 1923), come il più grande scienziato sociale che abbia mai calpestato il suolo italiano. A dire il più grande non s’esagera: fu uno dei fondatori dell’economia neoclassica, della sociologia, della scienza politica, non ce n’è altri che abbiano dato tanto non a una ma a ben tre discipline, lasciando un’impronta tutt’ora visibile. Fatto ancor più straordinario se s’immagina che all’alba dei quarantacinque anni non aveva ancora mai fatto una lezione all’università. Mai, nemo propheta in patria, si sarebbe trovato a farne nel nostro paese.

Nell’estate del 1870 Vilfredo viene assunto dalla Società strade ferrate romane di Firenze. Tre anni più tardi entra alla Società per l’industria del ferro di Firenze. Il presidente è Ubaldino Peruzzi, già ministro dei governi Cavour, Minghetti e Ricasoli, figura forte (e poi bistrattata) della politica fiorentina. Con la moglie Emilia prendono Pareto sotto la loro ala. Non è solo questione di business. Pareto combatterà con fatica le sue battaglie all’interno della ferriera e da principio tenderà a perderle. E’ “signore delegato” ma bisticcia coi soci e col consiglio d’amministrazione, vorrebbe cambiare tecnologie e prodotto, non ce la fa, comincia a sperimentare sulla propria pelle i danni del protezionismo, che intanto esamina in teoria. Al manager, la politica piace e ancor più il mondo degli studi. Frequenta il salotto dei Peruzzi. Pareto tende a non pensare benissimo degli esseri umani ma ama le bestie, a San Giovanni ha un cane, si dedica all’avicoltura e scambia polli e galletti dei tipi più impensati, soprattutto ama i gatti. La “signora Emilia”, che lo aiuta nei suoi progetti e gli corregge l’italiano, ogni anno, per capodanno, gli fa l’augurio di un gattino di pezza o di porcellana. “Noi passiamo la vita a combattere i concorrenti: il loro male è il nostro bene, cerchiamo ogni mezzo di togliere loro il lavoro ed è evidente che uno spirito che prende quella piega, si allontana sempre più dai sentimenti altruisti. Io suppongo che sia per una reazione a quella piega che ho tanto amore per le bestie”, scrive.

La prima decade di Pareto manager finisce con la liquidazione dell’impresa, di cui prende il controllo la Banca Generale. Nel secondo decennio, assume più poteri, in coerenza con una sua intuizione di corporate governance: “Il direttore deve avere larghe facoltà per fare e, come contrappeso, il consiglio deve esercitare un rigoroso sindacato sul suo operato”. Gli storici tendono a concordare che, da buon ingegnere, Pareto fosse più attento al lato produttivo che a quello commerciale. L’Italia introduce ulteriori protezioni doganali e Pareto osserva che se in un paese non ci si dedica a un’attività produttiva non è “per soverchio timore” ma perché ci sono altre iniziative in cui il capitale è più remunerato. Intanto, ha cominciato a scrivere, in italiano e in francese. In Francia si sente a casa, parla la lingua alla perfezione, diventa amico di Gustave de Molinari, il direttore del Journal des économistes, che legge avidamente e al quale poi collabora. Quando un suo articolo contro i nuovi dazi italiani esce su quelle pagine, l’ammiraglio Benedetto Brin, ministro della marina, se ne lamenta con il suo consiglio d’amministrazione: perché non lo cacciate?

Pareto frequenta i Georgofili e la Società Adamo Smith che riunisce gli economisti “liberisti”, a partire da Francesco Ferrara. Durante il periodo fiorentino, “il mio credo (…) era all’incirca il seguente. L’economia politica come l’avevano costituita gli economisti detti classici era una scienza perfetta o quasi perfetta; rimaneva solo da metterne in pratica i principi. Perciò occorreva imitare la Lega del Cobden”, che in Inghilterra aveva abolito i dazi sul grano grazie a una mobilitazione dell’opinione pubblica senza precedenti. A Cobden, il francese Frédéric Bastiat scrive: prima di voi, pensavo il libero scambio dovesse restare un ideale per il futuro più remoto.

Alla militanza di Pareto non è estranea un’esperienza politica in senso proprio: è consigliere comunale a San Giovanni Valdarno fra il 1876 e il 1882, coltiva l’idea di una sua candidatura al Parlamento, corre alle elezioni del 1882 nel collegio di Pistoia-Prato-San Marcello Pistoiese, sconta una propaganda avversaria che non risparmia colpi sotto la cintola e perde l’elezione.

Scrive e pubblica, pubblica e scrive. Entra in contatto con Maffeo Pantaleoni, di dieci anni più giovane. La corrispondenza fra i due, di cui abbiamo purtroppo solo le lettere di Pareto, è un grande romanzo dell’economia italiana. Nella prima lettera a Pantaleoni, il 1 ottobre 1890, Pareto commenta un suo articolo sul Giornale degli economisti che Pantaleoni ha recentemente acquistato assieme con gli amici Antonio De Viti De Marco e Ugo Mazzola. Per ragionare dell’ammontare probabile della ricchezza privata in Italia, “ella molto opportunamente deduce della ricchezza privata il valore del debito pubblico. Mi pare che dovrebbe anche tenere conto dei debiti provinciali e comunali e delle emissioni di obbligazioni ferroviarie garantite dallo Stato, nonché del debito ipotecario”. Pareto è un signor nessuno, Pantaleoni un accademico già alle soglie dell’empireo della sua disciplina. Ma anziché liquidare il suo interlocutore, lo ascolta, lo incoraggia, legge una conferenza che ha dato ai Georgofili su “perché l’economia politica non gode favore presso il popolo” e immediatamente si forma un sodalizio, guadagnare favore all’economia politica diventa uno scopo comune.  

Buon pro ci ha fatto, si lamenterà Pareto vent’anni dopo, provare a diffondere la libertà economica, a che è servito? Per l’uno l’altro diventa l’interlocutore imprescindibile. Pantaleoni capisce subito di avere innanzi un fuoriclasse, ne conserva le lettere, cerca di aiutarlo. L’occasione verrà quando, con Pareto ormai diventato un free lance, a Losanna va in pensione Léon Walras. Walras è l’autore, assieme all’inglese William Stanley Jevons e all’austriaco Carl Menger ma indipendentemente da loro, di una delle poche genuine scoperte nella storia dell’economia: il concetto di utilità marginale, che risolve il rebus della teoria del valore. Ma è pure il pioniere dell’equilibrio generale, un modo per descrivere l’economia attraverso un complesso sistema di equazioni. Pareto sa di matematica quanto e più di Walras, può tenerne il passo ma soprattutto parla francese perfettamente e a Losanna è condizione necessaria per fare il professore. Comincia con l’entusiasmo di chi pensa di poter forgiare una nuova generazione. Quel che più conta, per la prima volta può dedicarsi ai suoi lavori scientifici senza sentire sul collo il peso d’altre scadenze. 

Nel giro di vent’anni, Pareto lavora al cantiere della formalizzazione della nuova economia marginalistica, s’interessa di economia del benessere e perviene al concetto ancor oggi noto come “ottimo paretiano”, delinea una teoria della classe politica, una sociologia pensata per fare i conti con l’irrazionalità delle vicende umane. La prima formulazione dell’ottimo paretiano, “la cui origine dalla militanza liberale è trasparente” (Mornati), afferma che “purché ignoranza non li offenda”, gli esseri umani lasciati liberi di agire “conseguono naturalmente il massimo benessere economico”. La sua visione dell’economia pura evolve dal Corso del 1896-97 al Manuel d’économie politique del 1909 e, concluso quest’ultimo, Pareto pensa d’aver dato quel che doveva per aiutare gli economisti a esprimersi col linguaggio della matematica.

Coi Sistemi socialisti del 1901-1902 prima e il Trattato di sociologia generale del 1916 poi, volge la sua attenzione alla politica. Mentre nei paesi occidentali si amplia il suffragio e i più ritengono che sia stata imboccata l’autostrada dei “diritti”, Pareto e con lui Gaetano Mosca (ciascuno per conto proprio) mettono le mani avanti. Dove c’è politica, c’è qualcuno che comanda e qualcun altro che obbedisce. Le classi politiche possono cambiare (“la storia è un cimitero d’aristocrazie”), declinano, se va bene si rinnovano cooptando elementi eccentrici. Ciò non cambia l’essenza della questione. Ma le scienze sociali sono ingarbugliate da appartenenze, dottrine, fedi. Le teorie, per Pareto, diventano una traduzione delle emozioni e degli istinti. La sua sociologia distingue i residui (appunto, quel che resta levate tutte le incrostazioni) dalle derivazioni. Queste ultime, scrive Aldous Huxley recensendo l’edizione americana del Trattato, sono dei bei vestiti che facciamo indossare ai residui: e, prestando attenzione solo a quei vestiti, “gli uomini si convincono di agire in accordo coi dettami della ragione”.

A sentir lui per primo, il lungo percorso di Pareto è una strada lungo la quale si affranca dalle sue stesse inclinazioni, si fa freddo e scientifico nel leggere la realtà, ateo di tutte le religioni. Chi non è idealista a vent’anni è senza cuore, chi non è cinico a quaranta è senza cervello. Scrive a Pantaleoni: “Da dove hai cavato fuori che mi è rimasto l’entusiasmo del sapere? Altro che entusiasmo! E’ la rassegnazione che nasce dal capire quanta è la mia ignoranza. Sono come i gattini, quando aprono gli occhi: anch’io li apro intellettualmente e vedo tante cose essere in modo diverso da come me l’ero figurato fin qui”. 
Pareto pubblica il Corso d’economia politica a 48 anni, i Sistemi socialisti a 54, il Manuale a 63, il suo monumentale Trattato di sociologia a 68. E’ la produzione d’un uomo maturo e più volte gli interpreti l’hanno contrapposta ai suoi testi precedenti, disorganici e in buona parte d’impianto giornalistico. Ma forse gli uni arrivano perché prima ci sono stati gli altri. La politica italiana è per Pareto una sorta di grande laboratorio. Giovanni Busino, che passò tutta la vita a studiare meticolosamente Pareto e forse per questo ogni tanto non ne poteva più, indicò la “psicologia del politico mancato e frustrato” quale elemento cruciale per comprenderne l’opera. Siccome “le rare esperienze di politica pratica avute lo convincono che la potenza è malvagia, che il potere è corruzione, cattiveria”. E’ “scienza” o solo rabbia?

In realtà le esperienze su cui maturano i giudizi di Pareto sono estranee al recinto del suo vissuto, egli vede assieme l’allungarsi dei tentacoli del nuovo stato e il proliferare della corruzione e comprende che le due cose vanno assieme. “Ma che splendido avvenire avrebbe avuto l’Italia, se rimaneva fedele alle dottrine liberali del Conte di Cavour! Sarebbe diventata il porto franco dell’Europa”. In lui fino alla fine il teorico disincantato divide il desco col polemista furibondo. “Il gatto graffia e il cane lecca la mano al padrone. Io sono un gatto e graffio. Perciò vivo in Svizzera, appunto per potere dire, senza nulla attenuare, il fatto loro ai nostri governanti”. “Noi liberisti vogliamo una cosa semplicissima. Che il governo assicuri il rispetto delle persone e della proprietà, senza parteggiare per nessuno, senza usare la forza pubblica per fini privati e per arricchire alcuni a spese di altri”. La vita gli diede ampia occasione di constatare l’imporsi di un atteggiamento opposto, talvolta, per suo dolore, contrabbandato sotto l’etichetta di “liberale”. Ammiratore di Cobden e di William Gladstone, dovette assistere persino alla “fine dell’Inghilterra liberale”, dopo la quale “principia l’Inghilterra demagogica”. 
La storia di Pareto sta tutta nelle due date che l’incorniciano: nasce nel 1848, due anni dopo l’abolizione dei dazi sul grano, quando l’Europa è tutta un fermento nazionalista ma anche liberale, e muore nel 1923, quando il liberalismo è un relitto naufragato sul fondale della storia.

Pareto non si fa chiamar marchese e irride altre forme di “deferenza non-ragionevole verso qualche cretino nato da seme principesco”. Però è un aristocratico, altroché, nel disprezzo per la venalità del ceto politico e dei suoi aiutanti. Non sopporta l’ipocrisia e s’impone di restare ritto, quando nella piena i giunchi si piegano. Col tempo, a disperarlo è la “viltà borghese”. Altro che combattere per l’abolizione dei dazi, per una moneta non inquinata dai giochi dei politici, per il rigore dei conti. La borghesia si accoda volentieri al partito dello stato, finché può lucrarne privilegi, persino minuscoli, come posti nell’apparato pubblico per i suoi figli. I liberali si contentano di sottolineare l’aumento del benessere diffuso, come tutto andasse bene, dimenticando il fatto che per Pareto è centrale nella politica dei suoi tempi e sempre: la spoliazione, che chi comanda comanda anzitutto alla borsa di chi obbedisce. L’improba fatica della lucidità se l’impose come un dovere. 

La finanza pubblica per lui resterà sempre un imbroglio. Chi pensa che gli stati ripaghino i loro debiti s’illude, se va bene accade nel breve, per non perdere accesso ai mercati diremmo oggi, ma nel medio termine non accade mai. L’imposta non è il prezzo con cui si pagano i servizi pubblici, come pensano i suoi illustri colleghi. Semplicemente, un bandito strappa alla sua vittima tutto quel che può. Se questa s’attrezza per difendersi, forse la deruba un po’ meno.

Ricevuta la consistente eredità di uno zio, Pareto si ritira a Céligny, in una villa che battezza “Villa Angora” in onore dei gatti. Ne ha in abbondanza (quando Roberto Michels va a trovarlo con la figlioletta, la prima cosa che avvertono è odor di gatto), e poi qualche cane, altri animali in una sorta di piccolo zoo, gli scoiattoli che gli mangiano dalla mano. Vive appartato ma intrattiene una corrispondenza generosa. Ha perso la prima moglie, russa, scappata con il cuoco. “Quello nuovo è migliore” e ormai “in casa mia non c’è che Picanon (che è poi una gatta d’Angora) la quale potrebbe curarsi di lui”. La seconda moglie la trova con l’equivalente di quei tempi di Internet, attraverso un annuncio. Sposerà Jane Régis a poche lunghezze dalla morte, dopo che l’amico Pantaleoni, finito a Fiume a disperarsi da ministro delle Finanze di D’Annunzio, gli farà ottenere il divorzio. Pur costretto a moderarsi per una serie di crisi cardiache, ama il vino e vanta una cantina formidabile, dalla quale attinge con piacere per onorare gli ospiti.

Nel disastro del dopoguerra, Pareto ebbe qualche simpatia per il fascismo, di cui non vide granché essendo morto, appunto, il 19 agosto del 1923. A dispetto della leggenda, cara al futuro duce, non c’è prova che Mussolini fosse mai andato ad ascoltarne le lezioni in Svizzera. Nelle lettere con Pantaleoni ogni tanto lo chiama “Mussolino” come il brigante siciliano e si burla dell’amico, che è diventato nazionalista. In quelle schiere fu spinto, scrisse Antonio de Viti de Marco, “dalla nausea che gli facevano gli altri partiti borghesi, per la viltà loro di non combattere a viso aperto ciò che in privato condannavano”. Pareto lo canzona: che te ne pare del calmiere dei fascisti? E della censura teatrale? Tutte le volte che leggo di un raduno nazionalista, cerco il tuo nome. Saputo della sbandata antisemita di Pantaleoni, gli scrive: “Sei diventato antisemita? Un tempo, se non erro, eri dreyfusardo”. C’è chi accusa di tutti i mali gli ebrei, “chi i massoni, chi i clericali (un tempo dicevasi i gesuiti), altri i socialisti, altri i reazionari e via di seguito”. Di vero c’è solo che “gli uomini sono inclinati a far combriccole, per ottenere il proprio vantaggio a spese altrui”.

Nell’ultimo suo articolo pubblicato, talora interpretato come una sorta di testamento politico a uso del regime, Pareto rivendica l’importanza della libertà di stampa, invitando i fascisti a rispettarla. Forse, questo è l’aspetto più inattuale del suo pensiero, come lo era già ai tempi suoi. La libertà, peggio ancora il liberalismo, sono tessuti morbidi, che ciascuno si cuce addosso alla propria maniera. “La libertà che non è concessa a tutti non è degna di questo nome, essa si deve chiamare oppressione, i privilegi sono odiosi, ma sono ancora più odiose e, se è possibile, più ingiuste le eccezioni che alla legge comune si vogliono fare in odio ad alcuna classe di cittadini”. Lo scrisse a ventiquattro anni e avrebbe potuto riscriverlo cinquant’anni dopo. Difese i clericali dai liberali e il loro diritto di aprire scuole e facoltà di teologia. Sostenne i socialisti contro i governi dell’Italia liberale, e con loro il diritto di chiunque a esprimere il proprio pensiero. Scrisse, nel Trattato, che quella del libero pensatore pugnace è una forma di intolleranza pari a quella del cattolico più ottuso, perché “chi crede di possedere la verità assoluta, non può concedere che altre verità ci siano nel mondo”. Denunciò lo scientismo, notò Aron, per rispetto e amore della scienza: nulla è più contrario allo spirito scientifico della sopravvalutazione della scienza, della tendenza a crederla capace di darci risposte ultime.

Durante la Prima guerra mondiale, tenne un diario, che dichiarava non pensato per la pubblicazione, nel quale dialoga con due dei suoi gatti, Mirrina e Timoteo. La guerra fu, come scrive Mornati, la “prima importante occasione di verifica degli strumenti di sociologia da lui messi a punto nel Trattato di sociologia generale”. Ma quel diario è anche un resoconto impregnato di sdegno, un attestato perfetto del carattere di Pareto. A leggerlo è più chiaro quel che intendeva Filippo Burzio: la personalità morale è l’anima della gloria di Pareto. Nulla lo irritava di più della censura da parte dei buoni, del mascheramento ideologico di una delle parti belligeranti, dell’abuso della parola “libertà”. Non crede che Sparta sia in guerra con Atene. La piccola Manon Michels, tutta fervida di entusiasmo per l’Intesa, ci rimane male: Pareto è equidistante, cerca i torti degli uni come quelli degli altri. Da giovane era pacifista, come Cobden, pronto a farsi beffe della grandeur coloniale di Crispi. Da vecchio disprezza le “religioni umanitarie” ma non si capacita di come si possa far il tifo per uomini che massacrano altri uomini.

Più di tutto, lo irrita il bavaglio messo alle opinioni. “Il consiglio comunale di Mirandola è stato sciolto e alcuni consiglieri sono stati denunciati, per essersi dichiarati massimalisti… ‘affermando inoltre che i tedeschi non sono dei barbari, come vengono artatamente descritti’. Sicché, attualmente, è un delitto affermare che i tedeschi non sono dei barbari”. Gli inglesi si avvolgono nella parola libertà: poi censurano, tassano, stroncano la libertà di movimento. L’eremita di Céligny scuote la testa: poteva essere ben contenta “M.me de Staël di vivere sotto il ‘tiranno’ Napoleone Bonaparte. Oggi il suo libro De l’Allemagne le procurerebbe qualche anno di carcere. Tale è la ‘libertà’ per cui – si dice – oggi i popoli combattono”.

Difese la libertà di parola non per gli amici, ma per tutti, pronto a ridere delle tesi più sciocche, ma guai che non fosse concesso esprimerle. Il fanatismo gli faceva orrore, disprezzava i pifferai, compativa i topolini che li seguivano. Dopo una vita passata a osservarlo, concluse che l’uomo politico è la più pericolosa delle bestie. Ognuno se ne protegge come può. Lui provava a farlo costringendosi a non distogliere lo sguardo.

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