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In viaggio con gli elfi

L'Islanda non fa parte della Terra, qui le creature del mito sopravvivono

Francesca D'Aloja

Una natura soverchiante e dominatrice. Il pensiero vola a ciò che abbiamo lasciato solo poche ore fa, il traffico di Roma, i clacson, i rumori urbani, l’incivile civiltà. In sole cinque ore abbiamo attraversato millenni a ritroso. Il racconto di un’avventura tra madre e figlio

"Allacciate le cinture di sicurezza, abbiamo iniziato la discesa verso il Pianeta Islanda”. E’ questo l’annuncio che dovrebbe fare l’assistente di volo in prossimità dell’atterraggio a Reykjavik. Se avete intenzione di spingervi sin laggiù (o sin lassù…?), sappiate che nulla di ciò che vi aspetta, una volta sbarcati, è paragonabile a paesaggi terrestri. Vedrete montagne, nuvole, spiagge, promontori e cascate che possono definirsi tali solo da un punto di vista formale non avendo nulla a che fare con gli equivalenti sul pianeta Terra. E non fidatevi delle pur spettacolari immagini scattate da fotografi professionisti o dilettanti turisti, poiché nemmeno il più sofisticato obbiettivo fotografico potrà mai restituire l’assurda magnificenza di quei luoghi (tantomeno le parole, salvo inventarne di nuove, non esistono aggettivi adeguati nel nostro vocabolario…). I soli che potranno figurarsi l’Islanda senza visitarla sono i consumatori abituali di LSD o di peyote, familiari con quel genere di raffigurazione psichedelica. A tutti gli altri tocca acquistare un biglietto (la sola spesa low cost, il resto vi sembrerà assurdo tanto quanto i paesaggi galattici).
 
Da qualche tempo mi concedo il lusso di fare viaggi non convenzionali insieme a mio figlio Tano. Io e lui. Per non convenzionale intendo l’esplorazione di luoghi singolari, fuori dal comune, ma anche (e soprattutto) la partecipazione a eventi sensazionali che accadono in determinati luoghi del mondo. Lo scorso giugno abbiamo attraversato l’Andalusia infuocata per assistere alla rentrée del più grande torero di Spagna. Lo si attendeva da tre anni, e la corrida del 12 giugno, nella quale José Tomas ha affrontato quattro tori in solitaria è stato senz’altro un avvenimento eccezionale.

 

Il nostro primo viaggio insieme, dieci anni fa. Abbiamo cominciato con il non plus ultra, volando in India per assistere a un evento che più volte ho provato a raccontare scontrandomi con l’insormontabile limite delle parole al cospetto di fatti che solo l’esperienza fisica, diretta, può restituire. Non ci riuscì nemmeno Mark Twain che si limitò a commentare: “Beyond imagination” riferendosi al Kumbh Mela, il più grande raduno religioso dell’umanità, che si svolge ogni dodici anni, e secondo una precisa combinazione zodiacale, sulle rive dei fiumi sacri (Gange, Yamuna e il mitologico Saraswati) in quattro località a rotazione. Appuntamento imprescindibile per i fedeli che in massa partecipano al rito collettivo di purificazione, immergendosi nel fiume sacro per mondarsi dai peccati e interrompere così il Samsara (ciclo continuo di morte e reincarnazione).

 

Chissà cosa mai avrebbe potuto dire lo scrittore americano se si fosse trovato, come è accaduto a noi, premuto fra milioni di pellegrini (circa cento milioni transitati nei cinquantacinque giorni di celebrazione) giunti nella città di Allahabad, dove nel 2013 si è svolto il portentoso Maha Kumbh Mela: il più importante di tutti i Kumbh Mela (Maha significa appunto grande), al quale solo chi ha la sorte di essere nato al momento giusto può assistere, considerando che ha luogo ogni 144 anni… (tanto per chiarire: il precedente si era svolto nel 1896, il prossimo avverrà nel 2157). 

 

Se è dunque possibile, nell’arco di una vita, partecipare a un Kumbh Mela (anche più di una singola volta), il Maha Kumbh Mela è occasione unica e irripetibile. 
Volevo fare qualcosa di memorabile insieme a mio figlio, la scelta si è rivelata “beyond imagination”. Provate infatti a immaginare una traversata notturna in compagnia di milioni di persone che avanzano come un sol uomo in direzione del Sangam, il centro del sacro, laddove confluiscono i tre fiumi e dove, al sorgere del sole, si procederà al rituale dell’abluzione salvifica. La processione è composta da ogni genere di umanità: semplici pellegrini, venerati brahmini, eremiti scesi dalle montagne, bambini, donne, vecchi, i Sadhu vestiti color ocra (asceti che per raggiungere l’illuminazione si sottopongono a mortificazioni estreme come non sedersi per anni o tenere un braccio sollevato fino all’atrofia), turisti sovreccitati, i demoniaci Naga Baba, con il corpo nudo ricoperto di cenere e i capelli che sfiorano terra, i Mahant trasportati a spalla su baldacchini multicolori traboccanti di fiori, e poi elefanti, cavalli, yogi… Un caravanserraglio mistico e circense. La folla, sostenuta dalla forza della fede e dalla potenza da essa generata, si dirige compatta verso un comune obiettivo, cantando, pregando, danzando, in preda a un delirio da cui è impossibile sfuggire (ci si va per questo!), si segue la fiumana cercando di non perdersi, sarebbe fatale, i cellulari in tilt per via del numero esorbitante di persone, la stanchezza che combatte contro la prospettiva dei chilometri da macinare (una ventina), gli altoparlanti gracchianti nelle orecchie, i colori, gli odori… Non bastano due occhi per cogliere la fantasmagorica distesa di corpi umani, inumani, non umani… 

 

E’ stata l’esperienza più strabiliante che abbia fatto in vita mia. Viverla insieme a mio figlio l’ha resa ancora più memorabile. Quando all’alba di quella notte infinita ho visto il suo lungo corpo lanciarsi nelle acque del Gange (le più inquinate al mondo), non mi sono preoccupata come forse avrei dovuto, ma ho pensato che sì, era quella la giusta conclusione. Folle, imprudente, ma tremendamente giusta. Sono certa che quel bagno non solo non l’abbia messo in pericolo ma lo abbia, in qualche maniera benedetto, quel figlio che neonato non ho voluto battezzare.

Da allora è diventato il compagno di viaggio ideale.
“Ti va di andare in Islanda?” gli ho chiesto un mese fa.
“D’inverno? Sei sicura?”.
“Solo d’inverno è possibile vedere l’aurora boreale”.
“Andiamo”.
 

Viaggiare in Islanda d’inverno è considerata una scelta estrema, le temperature possono scendere fino a meno 20°, raffiche di vento mettono a rischio la circolazione (tanto che nelle assicurazioni stipulate per il noleggio di automobili viene considerata l’eventualità di “pietre volanti” scagliate dal vento che danneggerebbero la carrozzeria…), luce solare ridotta al minimo, possibili tempeste di ghiaccio.   

Ma ci sono dei vantaggi: oltre alla probabilità (mai garantita ma plausibile) di vedere la mitica aurora boreale, si ha la certezza di non incrociare orde di turisti, esplorare i ghiacciai e, non ultimo, di risparmiare rispetto ai prezzi esorbitanti della stagione estiva. Dettagli che ho seriamente preso in considerazione. Inoltre la presenza di Tano equivale a un portafortuna, lui di solito porta il sole.

E infatti.

Atterriamo con un’ora di anticipo grazie alla spinta del vento, e già questo vantaggio mi sembra beneaugurante. Fa freddo ma non freddissimo, e il cielo è di un azzurro accogliente. Seguiamo le indicazioni di un blogger scovato durante le ricerche pre partenza, il quale suggeriva la perlustrazione della penisola Reykjanes, ingiustamente trascurata per la prossimità con l’aeroporto, ed effettivamente bellissima con suoi paesaggi alla Caspar Friedrich, scogliere a picco su onde gonfie di schiuma e fari solitari. Un primo, eloquente impatto con quello che ci aspetta: una natura soverchiante e dominatrice. Il pensiero vola a ciò che abbiamo lasciato solo poche ore fa, il traffico di Roma, i clacson, i rumori urbani, l’incivile civiltà. In sole cinque ore abbiamo attraversato millenni a ritroso. Si guida che è un piacere, strade dritte, infinite e senza interruzioni. Non vedremo un semaforo per i prossimi otto giorni.

 

Reykjavik: fragile e provvisoria come una scenografia. Nulla pare stabile, incongrue casette colorate modello Playmobil, danno l’impressione di volar via alla prima folata di vento. Ci si chiede come possano riparare da freddo e tempeste.

 

“Assurdo” è l’aggettivo che dal primo giorno di viaggio in poi sarà il più impiegato nei nostri commenti. Tutto qui è assurdità. A partire dalla sequenza infinita di consonanti che compongono parole impronunciabili. E come altro definire la gigantesca chiesa modernista, con la facciata di cemento e lo sproporzionato campanile simile a uno Space Shuttle pronto al decollo (tutto sommato coerente con il paesaggio lunare)? Traccheggiamo per la città in attesa del buio, un buio, si spera, propiziatorio. La parola magica da cui tutto è partito è: aurora boreale. 

 

Tano controlla compulsivamente sul cellulare gli aggiornamenti sull’app Aurora Forecast che segnala probabilità 7, dunque altissima. E’ bene non farsi illusioni, la sua apparizione fa parte delle leggende nordiche, come gli elfi e le fate. Ma (come si usa dire a Roma) “per non saper né leggere né scrivere”, ci dirigiamo verso il punto considerato ideale, un faro affacciato sulla baia, lontano dalle luci della città. Nel giro di pochi minuti siamo circondati da automobilisti mossi dalla stessa speranza. Il naso all’insù e il cellulare in mano. 

 

E qualcosa accade. Bande luminose fendono il nero del cielo, a occhio nudo sembrano le scie di condensazione degli aerei, ma se si osservano attraverso la telecamera del cellulare ecco che il verde fosforescente ne rivela la natura aurorale. Urla di giubilo, “E’ lei!”. L’attesa è stata premiata anche se lo spettacolo è meno emozionante di quanto ci si aspetti, ma è già molto come omaggio di benvenuto. Scattiamo un numero esagerato di fotografie e soddisfatti rientriamo in città. Per oggi può bastare. Parcheggiamo in una stradina deserta, a ridosso della nostra guest house, ed è proprio lì, nel silenzio irreale della nostra prima notte islandese che ci attende il vero spettacolo. I piccoli fuochi al faro non erano che il preludio. Sui tetti delle casette colorate, a dispetto delle luci artificiali, si scatena una formidabile tempesta magnetica. Afferro il cellulare, quello che accade nel cielo, anche se ci sembra sia stato destinato a noi, a noi soltanto, deve essere documentato. Oltre alle immagini la telecamera registra i nostri “Wow! Incredibile! Pazzesca! Questa sì che è l’Aurora…!”. Una nuvola multicolore che cambia forma e intensità, come fanno gli stormi sui cieli di Roma, fiammate viola, azzurre, verdi, che ondeggiano disuguali e folli formando spirali e dardi incandescenti… Secondo la mitologia norrena, i bagliori cangianti sono raggi di sole riflessi sugli scudi delle valchirie mandate in combattimento da Odino.

 

Se è così, sulle nostre teste sta infuriando una gigantesca battaglia. Anche se meno spettacolari, Odino ce ne regalerà altre due, di aurore. Un record.
Davanti a noi, una settimana di prodigi quasi intollerabili. Vedremo spiagge di sabbia nera, scogliere di granito dalle forme incredibili, grotte di ghiaccio che sembrano miniere di diamanti, crateri, torri di gas che esplodono dalle profondità della terra, cascate, montagne dai rilievi mai visti, il mitico Snæfell da cui ebbe inizio il Viaggio al centro della terra di Jules Verne…

 

Di tutta questa magnificenza ci rimarrà impresso un luogo non segnalato dai percorsi classici, meno imponente ma carico di un’energia particolare, un magnete che ci ha attratto in egual misura e la cui immagine ora lampeggia dal salvaschermo del mio computer. 

 

E’ una montagnola dalla perfetta forma piramidale, al centro di una distesa sconfinata. Piccola ma potentissima. L’abbiamo notata andando in cerca della guest house dove avremmo trascorso la notte, e una volta lasciate le valigie siamo tornati a vederla, al tramonto, come in attesa di qualcosa. Abbiamo chiesto alla proprietaria dell’alberghetto, una buffa creatura dall’aspetto fiabesco, cosa fosse quella strana piramide di terra, ci ha spiegato che si trattava di un “mini vulcano” e con lo stesso tono assertivo, ha aggiunto: “E’ un rifugio degli elfi”. Non c’era l’ombra di un dubbio nella sua affermazione. “E lei li ha visti?” chiede Tano. “Sì, certo.”
Sì. Certo. Come possono non esistere gli elfi, le fate, i troll in un territorio come questo? In Islanda gli esseri più incongrui sono gli umani, semmai.

 

Quasi il 60 per cento degli islandesi crede all’esistenza di queste creature. E ne ha un profondo rispetto. Se ci si chiede come mai non esistano strade che attraversano la parte centrale dell’isola (c’è una sola strada, la Ring Road, che ne costeggia il perimetro), la risposta è la seguente: l’entroterra è territorio dei troll. Il passaggio delle automobili scatenerebbe la loro ira. Quando si è tentato di costruire delle strade i lavori sono stati interrotti da “strani incidenti”, e il governo ne ha sospeso la realizzazione. A Reykjavik esiste la Elf School, specializzata in corsi sul folklore popolare. Durante le escursioni ai turisti è caldamente raccomandato di non lanciare pietre che potrebbero inavvertitamente colpire gli elfi nascosti. 

Noi non li abbiamo visti.

Siamo andati a cercarli. Di notte, sul piccolo vulcano. E poi di nuovo all’alba, arrampicandoci sulla magica piramide. Sono certa di non aver guardato bene, di non essermi armata di pazienza sufficiente, poiché di una cosa sono certa: quel piccolo vulcano, di cui conservo una manciata di terra scura, è senza dubbio il rifugio degli elfi. Ne è convinto anche mio figlio, la mia magica creatura.
 

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