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Tiranni dall'est

Dai persiani a Putin: lo studio del dispotismo orientale allontana Mosca dall'Europa

Maurizio Stefanini

La tirannide come elemento ricorrente: nella Persia degli Achemenidi, come notarono i filosofi greci all’origine del pensiero politico, e nell'Unione sovietica di Stalin, come evidenziò in un saggio Karl August Wittfogel. E oggi anche nel regime degli ayatollah in Iran. Una tradizione millenaria di odio per la libertà

Da una parte c’è il regime degli ayatollah in Iran che uccide ragazzine col velo messo male, uccide minorenni a decine nella repressione delle proteste, condanna a morte sportivi e artisti e madri di famiglia. Dall’altra la Russia di Putin che, a parte condurre una invasione con risvolti genocidari in Ucraina, manda in galera perfino la gente che dica parole proibite come “guerra” o “gay”. Contemporaneità degli eventi a parte, i due governi sono legati da una dichiarata solidarietà, col governo di Teheran che vende a quello di Mosca droni, ricevendone in cambio materiale antisommossa e specialisti in repressione. Ma c’è anche un legame più antico e profondo. Osservando la Persia degli Achemenidi, infatti, i filosofi greci all’origine del pensiero politico coniarono la definizione di “dispotismo orientale”. E osservando l’Unione sovietica di Stalin, Karl August Wittfogel scrisse quel saggio in cui spiegava che il “dispotismo orientale” era arrivato fino a quel punto.

 

Di nuovo il dispotismo orientale sta tornando sulla scena del dibattito ideologico. Per Papa Francesco, le peggiori atrocità nella guerra in Ucraina le starebbero compiendo truppe nominalmente russe ma che “non sono della tradizione russa, come i ceceni e i buriati e così via”. Anne Applebaum insiste come a scatenare Putin contro l’Ucraina sia stato non tanto “l’abbaiare della Nato ai suoi confini”, ma lo spettacolo per lui inaudito di un paese che, pur condividendo con la Russia molto dna storico e culturale, riesce comunque ad attuare un’alternanza democratica e a mandare regolarmente i presidenti in carica all’opposizione a ogni nuova elezione. Ma lo stesso Putin, quando nel 2019 in una famosa intervista ha definito il liberalismo “un’idea superata”, ha allineato la sua “democrazia sovrana” a quel concetto di “valori asiatici” lanciato nel 1995 dal primo ministro malese Mahathir Mohamad e dal primo ministro di Singapore Lee Kuan Yew, concetto poi fatto proprio soprattutto dal regime di Pechino. 

 

“Neo-eurasismo” viene infatti chiamato quel filone di pensiero di cui è principale esponente Aleksandr Dugin, e che sempre più negli ultimi anni sembra essere l’ideologia del Cremlino. Il progetto di una nuova “unione eurasiatica” venne ad esempio annunciato da Putin nell’ottobre 2011, ancor prima di essere rieletto presidente per la terza volta. Il 18 novembre 2011 i presidenti di Bielorussia, Kazakistan e Russia hanno dunque firmato un accordo per fondare un’unione economica eurasiatica effettivamente partita il primo gennaio 2015, cui hanno poi aderito anche Armenia e Kirghizistan, con Cuba, Moldavia e Uzbekistan come osservatori. Proprio la resistenza dell’Ucraina ad aderire alla prospettiva eurasiatica, ma non a quella europea, è un’altra delle ragioni che ha scatenato l’ira di Putin. E verso la Cina e l’India, dopo lo scoppio della guerra, Putin sta venendo spinto dalle sanzioni.

 

Ma il pensiero politico inizia appunto con la distinzione delle forme di governo, tra quelle in cui governa uno, alcuni o tutti. Aristotele, anzi, spiega che queste forme di governo sono sei, dal momento che ognuna può sdoppiarsi a seconda se i governanti agiscono nell’interesse della collettività o nel proprio. Lui definisce le forme virtuose come monarchia, aristocrazia e “repubblica” (in greco: politeia); quelle degenerate come tirannide, oligarchia e democrazia (noi diremmo “demagogia”). Suggerisce anche la possibilità di mescolare il tutto in un “governo misto” che bilancerebbe le possibilità di degenerazione, e di cui Polibio e Cicerone vedono un modello concreto di successo nella repubblica di Roma. L’elemento monarchico dei consoli; quello aristocratico del Senato; quello democratico dei comizi.

Ma già i greci individuano nelle grandi monarchie asiatiche un tipo di tirannide quasi imposto dalla necessità di tenere assieme grandi territori. Lo osserva Erodoto, e lo analizza Aristotele, che avrebbe spiegato il concetto al suo allievo Alessandro Magno. “Veniamo a portargli la libertà”, dice infatti il conquistatore Alexander nel film di Oliver Stone del 2004. Avviene in realtà il contrario: è questo “dispotismo orientale” che contagia prima i greci con le monarchie ellenistiche, poi i romani con l’Impero. 

 

Nel Medioevo, in Europa l’irruzione dei barbari porta però in occidente una tradizione di assemblee tribali. Da esse, attraverso il feudalesimo, nascono i parlamenti. Istituzioni parlamentari e riscoperta del modello imperiale attraverso il diritto romano nel ’500 cozzano tra di loro, e in gran parte d’Europa nascono le monarchie assolute. Gli stessi illuministi che nel ’700 provano a scommetterci come strumento riformista ammettono che si tratta di “dispotismo”, ancorché “illuminato”. In Inghilterra vince invece il Parlamento, e appunto cercando di dare una logica teorica a quel che è venuto fuori dalla storia, John Locke inventa il liberalismo e la divisione dei poteri.

In tutto il ’700, però, c’è una gran confusione tra quel che sta proponendo la realtà e la rilettura di quel che teorizzavano gli antichi. Il ginevrino Rousseau, in particolare, pensa come gli antichi che la libertà sia possibile sono in una dimensione cittadina, ritrova la democrazia diretta ateniese nelle assemblee popolari dei cantoni della sua Svizzera e disprezza i parlamenti. “Il popolo inglese ritiene di esser libero: si sbaglia di molto; lo è soltanto durante l’elezione dei membri del parlamento. Appena questi sono eletti, esso è schiavo, non è nulla”. Montesquieu prova invece a mettere assieme Locke e Aristotele. Rielabora infatti la teoria della divisione dei poteri dell’inglese, sostituendo però alla originaria tripartizione tra potere esecutivo, legislativo e federativo (quello proprio della politica estera) quell’altra fra esecutivo, legislativo e giudiziario che poi si è imposta. Ma assieme sviluppa dal greco una sua tassonomia delle forme di governo tra monarchie, repubbliche e dispotismi: questi ultimi in cui il governante non è limitato da nessuna legge, ma governa a suo arbitrio.

Ad esempio, il papa o il sultano: ma Voltaire ebbe buon gioco ad osservare che in realtà anche nello stato della Chiesa e nell’Impero ottomano ci sono leggi cui il despota deve obbedire. Una tipica mescolanza tra modello inglese e letteratura politica greca è pure alla base della Rivoluzione americana, e di un modello costituzionale che, trumpate a parte, regge ancora dopo due secoli e mezzo. Lo stesso tentativo, fatto in una Francia dove la tradizione era stata invece per due secoli assolutista, porta prima al Terrore giacobino e poi a Napoleone. Due forme appunto di nuovo “dispotismo” che nel 1819 conducono alla famosa riflessione di Benjamin Constant sulla differenza tra la libertà degli antichi, che nelle città-stato consisteva essenzialmente nella possibilità di partecipare alle decisioni di questo stesso stato; e la libertà dei moderni, che in nazioni estese deve consistere essenzialmente nella libertà del cittadino dallo stato, attraverso quella divisione dei poteri che è l’erede del governo misto.

 

Attenzione, che anche Karl Marx definisce poi un modello di produzione asiatico basato sul controllo della produzione da parte del potere che si mantiene stabile nel tempo, a differenza dell’evoluzione che l’occidente conosce tra società schiavista, feudale e capitalista. E pure a Marx si devono alcune famose e sprezzanti battute su quella che secondo lui era la irreparabile appartenenza della Russia al modello del dispotismo asiatico. “Nel fango insanguinato della schiavitù mongola e non nella gloriosa rudezza dell’epoca normanna [quella dei vichinghi di Kyiv] è nata quella Moscovia di cui la Russia moderna non è che una metamorfosi”. “La potenza moscovita nacque e crebbe a quella scuola di abiezione che fu la terribile schiavitù imposta dai mongoli”. 

 

Possibile che proprio la Russia così disprezzata abbia poi costruito il primo stato marxista della storia? In realtà, il marxismo prevede che il socialismo inizierà a essere costruito nei paesi più avanzati man mano che il capitalismo vi avrà svolto la sua funzione storica. Il leninismo spiega che però con il passaggio del capitalismo a una ulteriore fase “imperialista”, il proletariato dei paesi ricchi si è borghesizzato, grazie alla distribuzione di risorse ricavate dallo sfruttamento coloniale. Spetta dunque a paesi in via di sviluppo come Russia, Cina o India fare da avanguardia della rivoluzione. Ma al marxismo-leninismo è in teoria sempre possibile contrapporre una analisi marxista ortodossa del regime sovietico, come mera modernizzazione del modo asiatico di produzione sotto vernice socialista. Così, anche il vecchio dispotismo evolve nel moderno totalitarismo studiato da Hannah Arendt, Carl J. Friedrich e Zbigniew Brzezinski e rappresentato da George Orwell. Un incubo che, grazie agli strumenti della tecnologia moderna, porta al massimo l’antica prassi del potere senza controllo.

 

Appunto qui arriva Karl August Wittfogel. Tedesco, come Marx: era nato a Woltersdorf, in Bassa Sassonia, il 6 settembre 1896. E come Marx poi esule nel mondo anglosassone e da esso dipendente per la sua analisi. Morto a New York il 25 maggio 1988, Wittfogel intitola “Oriental Despotism: A Comparative Study of Total Power” un libro uscito nel 1957 per Yale University Press, e dalle dimensioni monumentali: 828 pagine nella traduzione italiana del 1980! Studente di filosofia, storia, sociologia, geografia e sinologia, nel 1920 aderisce al neonato Partito comunista di Germania. Autore di pamphlet storici e di scritti di geopolitica ed estetica, diventa membro della Federazione degli scrittori proletario-rivoluzionari, e i suoi primi successi sono come drammaturgo. Nel 1920, la sua opera in un solo atto “Lo zoppo” è la rappresentazione di apertura del Teatro proletario di Erwin Piscator a Berlino. Insegnante all’università popolare “Schloss Tinz”, nel 1923 è invitato alla settimana marxista del lavoro. Insomma, potrebbe diventare un altro Bertolt Brecht. O un altro Marcuse, quando dal 1925 inizia a collaborare con la Scuola di Francoforte. Prende poi un dottorato in sinologia, ma nel 1933, quando il nazismo va al potere, finisce in un lager. Liberato grazie a pressioni internazionali, tra 1936 e 1939 va a fare ricerche in Cina. Nel 1939 col patto Molotov-Ribbentrop diventa anticomunista arrabbiato. Anticomunista proprio perché antinazista. 

 

Professore di storia cinese all’Istituto di studi estremo-orientali e russi di Seattle dal 1947 e professore emerito di storia cinese nel 1966, Wittfogel integra Marx e il suo modo di produzione asiatico con quanto aveva spiegato Max Weber sulla tipologia del “dominio sultanale”, anche per sviluppare in chiave più generale una sua teoria sulla “società idraulica” che aveva elaborato in un suo libro del 1931 su “Economia e società della Cina”. Lì osserva che fino al XVIII secolo la Cina era di gran lunga superiore all’occidente nella costruzione delle dighe, dei canali navigabili e dei sistemi di irrigazione. Ma ciò era stato possibile solo grazie a una forte organizzazione burocratica in grado non solo di elaborare grandi progetti di manutenzione di opere idrauliche, ma anche di assicurare il massiccio reclutamento coatto di forza lavoro necessaria per realizzarle.

 

Ma non sono tutte le prime grandi civiltà a essere nate dove c’erano grandi fiumi? Come si impara a scuola fin da quando si inizia a studiare la storia: il Nilo, il Tigri e l’Eufrate, l’Indo, il Fiume Giallo… E non è lì che appunto gli antichi greci avevano collocato il dispotismo orientale? Erodoto, anzi, fa un racconto nel Libro III delle sue “Storie”. “C’è una pianura in Asia chiusa tutt’intorno da una catena montuosa, e nella catena ci sono cinque gole. (…) Dalla catena montuosa che la racchiude scorre un grande fiume: il suo nome è Aches. Il fiume in precedenza, dividendo il corso per ognuno dei popoli che ho detto, ne irrigava i territori, andando attraverso ogni gola in ciascuno di essi; tuttavia, da quando questi popoli sono sottomessi ai persiani, è capitato loro quanto segue: il re ha ostruito le gole dei monti e ha posto chiuse a ciascuna gola; una volta sbarrata la via d’uscita dell’acqua, la pianura all’interno dei monti diventa un mare: il fiume vi sbocca, ma non può uscire da nessuna parte. Coloro che in precedenza erano soliti servirsi dell’acqua, non potendo più servirsene subiscono un grave danno: poiché, se durante l’inverno il dio fa piovere per loro come per gli altri uomini, d’estate, quando seminano miglio e sesamo, hanno penuria d’acqua. Quando dunque non viene loro assolutamente concessa, essi e le loro mogli si recano in Persia, si mettono davanti alla porta del re e si lamentano con grandi grida; il re, per quanti soprattutto ne hanno bisogno, dà ordine allora di aprire le chiuse che immettono nella loro direzione. Quando la loro terra si è imbevuta d’acqua a sazietà, queste chiuse sono sbarrate, e il re dà disposizioni di aprirne altre per quanti restano e ne hanno soprattutto bisogno. Tuttavia, come so per averlo sentito dire, il re fa aprire le chiuse ricavandone grandi ricchezze, a parte il tributo”.

 

Qui, appunto, è lo schema. Nelle pianure di grandi fiumi che possono rendere l’agricoltura particolarmente produttiva, nascono i primi stati proprio perché bisogna che qualcuno  abbia un forte potere per imbrigliare e distribuire le acque. Da ciò viene un surplus che permette lo sviluppo di una burocrazia e di una corte con apparato fastoso, ma appunto questo schema rende più facile sottomettere la società, visto che basta tagliare l’acqua per ridurre i sudditi alla fame. L’idea dello stato può poi più tardi venire copiata in società la cui agricoltura dipende dalle piogge, e dove dunque è possibile quello che Wittfogel definisce sviluppo sociale multilineare, in cui libertà e responsabilità dell’individuo hanno il ruolo decisivo. Sempre per imitazione e influenza, però, alcune di queste società non basate sull’irrigazione possono sviluppare a loro volta uno schema di potere dispotico. Come, appunto, avvenuto in Russia per via di una doppia influenza: il modello bizantino arrivato con la fede ortodossa; il modello mongolo arrivato per conquista. Per Wittfogel, appunto, anche il marxismo-leninismo sovietico aveva finito per riallacciarsi a un modello di società monolineare-deterministico.

 

Ovviamente, nel clima della Guerra fredda la teoria di Wittfogel divenne un’arma politica, che in tale chiave fu altrettanto entusiasticamente esaltata o contestata. Morto Wittfogel nel 1988 e finito il modello sovietico tra 1989 e 1992, il dispotismo idraulico cadde poi un po’ nel dimenticatoio, anche se vi si agganciò Samuel Huntington, la cui teoria dello “scontro di civiltà” è stata una delle chiavi più intriganti per interpretare il mondo post-Guerra fredda. Ma adesso non solo il putinismo sembra una terza declinazione del modello già zarista e sovietico – si compiace anche di esaltare questa sua “radice” asiatica e autoritaria come chiave di superiorità rispetto al “decadente” occidente. Ma in questo modo la guerra all’Ucraina sembra quasi evocare quelle guerre della Persia achemenide alla Grecia in cui per la prima volta il dispotismo orientale sembrò voler cancellare la libertà occidentale. Ed è allora forse interessante ricordare la citazione di Erodoto con cui Wittfogel chiudeva il suo volume, nella risposta di due greci al funzionario persiano che prometteva loro “di renderli potenti nella loro patria solo che si fossero schierati dalla parte del Gran Re, suo dispotico padrone”. “Idarne, essi dissero, tu sei un consigliere unilaterale. Tu hai esperienza di mezza realtà soltanto e ignori l’altra metà. Tu conosci la vita dello schiavo, ma, non avendo mai provato la libertà, non puoi dire se essa sia dolce o no. Ah, se tu sapessi cos’è la libertà, ci avresti invitati a batterci per essa, non solo con la lancia, ma anche con l’azza”.

 

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