Proteste (e arresti) a San Pietroburgo. Manifestazione contro la guerra in Ucraina, febbraio 2022 (LaPresse)

i nostri ponti invisibili 

Conversazioni tra amici che si sono incrociati Ucraina e Russia, dove ora c'è la guerra di Putin

Marci Shore

Amicizie che viaggiano nel nostro tempo e nello spazio postsovietico che si è trasformato e adattato, dalle rivoluzioni del Maidan fino all'invasione russa. Le lettere, i messaggi, i distacchi. Da dove viene il male?

All’inizio di marzo, dieci giorni dopo che Vladimir Putin aveva inviato il suo esercito in Ucraina per iniziare il massacro, ho ricevuto un messaggio su un’applicazione criptata dalla mia amica Inessa a Mosca. Ci conosciamo da quasi trent’anni, ma l’ultima volta che ci eravamo parlate era sette anni fa. A quel punto, Inessa e io sapevamo entrambe che la guerra lampo prevista da Putin era fallita: Kyiv non era caduta in tre giorni. Ma il massacro stava continuando. Era un momento storico che definirei raro, perché senza alcuna ambiguità: un’invasione non provocata, senza ragione. Guardavamo tutto in diretta streaming su internet. O meglio, io guardavo tutto. In Russia le informazioni erano censurate. Eppure era impossibile che Inessa, così colta e attenta, non avesse saputo o non sapesse. “Pensavo che la cosa peggiore della mia vita fosse già accaduta: la perdita dei miei genitori”, mi ha scritto Inessa. “Non avrei mai potuto immaginare una cosa del genere….”. Poi un secondo messaggio: “Ho paura che in Russia stia per iniziare una guerra civile e poi, il terrore”.

 

 

Galina
Non sono un’osservatrice neutrale di questa guerra: l’ho vissuta da lontano, attraverso i miei amici che vi partecipano. Il mio attaccamento all’Ucraina non ha origine né in Ucraina né in Russia né in America, ma in un’area di provincia della Repubblica ceca, dove sono arrivata circa ventotto anni fa, durante gli ultimi giorni dell’estate del 1994: facevo l’insegnante di inglese. Ero l’unica americana in una piccola città con una piazza del mercato da poco restaurata nei toni del lime e del mandarino, e volevo essere apprezzata. Alla gente del paese, in generale, non piacevo. Altre donne della mia età erano invece molto apprezzate. Milena lavorava in un bar di vaga ispirazione italiana che serviva pizza e vino. L’atmosfera era giovane e luminosa, come Milena, e vi si riunivano  persone giovani e brillanti. Quando il bar non era affollato, Milena apriva la borsa della spesa da dietro il bancone e mostrava alle amiche i suoi nuovi acquisti: calze nere, tinta per capelli color rame, smalto per unghie viola. Con l’ombretto scintillante, il mascara pesante, i jeans stretti e i top aderenti di una ballerina, Milena era sempre bellissima e a suo agio. Sembrava contenta di mescolare i drink, felice di essere nel mondo che poteva essere toccato come il cucchiaio che faceva roteare fra le dita. Ero gelosa di Milena e della sua capacità di godersi il presente. Gli uomini la ammiravano. Nessuno la molestava. Certo, aveva un fidanzato che la proteggeva. Io ero quasi sempre da sola. Il mio trucco non era così pesante, i miei vestiti non erano così trasparenti, i miei capelli castani non erano tinti. Però gli uomini mi fischiavano, mi schernivano, mi seguivano per la piazza dipinta come se fosse chiaro che andasse bene così, che le solite regole non si applicavano agli stranieri. Non ero protetta dalle convenzioni sociali. Le altre donne del paese vedevano tutto, ma nessuna mi tendeva la mano.

 

Tranne Galina, una donna ucraina di circa quindici anni più grande di me, che insegnava nella mia stessa scuola. Lei mi tese la mano, uno di quei momenti che cambiano l’arco della propria vita. Mi preparò il tè, tradusse per me, mi disse chi in città aveva buona volontà, anche se mal riposta, e di chi non ci si poteva fidare. Oggi, quasi trent’anni dopo e una carriera come storica dell’Europa orientale, mentre sono incapace di distogliere lo sguardo da un paese ridotto in cenere da una guerra orrenda, capisco che il mio legame con l’Ucraina è nato grazie a questa amicizia inaspettata, sullo sfondo di quegli uomini e dei loro fischi. Forse era naturale che noi, due insegnanti di inglese, le uniche due straniere che lavoravano in quella scuola, fossimo attratte l’una dall’altra, nonostante le nostre differenze. Io ero un’ebrea agnostica; Galina era alla ricerca della fede in quel modo appassionato e disperato che si coglie nella parola russa bogoiskatel’stvo, “alla ricerca di Dio”.

Galina e sua figlia di tredici anni, Mara, erano arrivate poco dopo la Rivoluzione di velluto del 1989 in Cecoslovacchia; la cortina di ferro era appena caduta e tutti avevano bisogno di insegnanti di inglese. Era cresciuta parlando russo e ucraino; all’Università di Kharkiv aveva imparato l’inglese e il tedesco. Nel 1994, quando ci siamo incontrate, parlava molto bene il ceco, incomparabilmente meglio di me allora – o anche più tardi, quando l’avevo ormai imparato abbastanza bene. Tuttavia, il suo accento la distingueva come originaria dell’est, per i cechi il tipo di straniero meno desiderabile. Galina stava fuggendo da un matrimonio sbagliato nella Kharkiv sovietica. Credeva che parole diverse si piazzassero al centro delle nostre vite in momenti diversi. In quel momento la sua era la parola: fuga. “La tua”, mi disse una volta, anni dopo, “è attaccamento”. Ci siamo affezionate l’un l’altra. Non avevamo nulla in comune. O forse avevamo molto in comune: eravamo entrambe eccessivamente emotive in una cultura in cui la comunicazione era limitata. Condividevamo l’ansia per le buone maniere e per le usanze che avremmo potuto inconsapevolmente violare. A entrambe piaceva parlare di amore e di sesso e di quel che rimane nascosto nelle relazioni umane. Sua figlia Mara amava accendere le candele quando parlavamo nella loro piccola cucina, la sera. Galina cucinava per noi: mi introdusse lei alla ricotta dolce chiamata tvarog. Quando vai a letto con un uomo, cucini anche per lui, mi disse. Che sia tuo marito o un amante, non è importante: cucini per lui.

In autunno vennero a trovarci la madre, il padre e il fratello di Galina. Fecero un lungo viaggio dalla regione dell’Ucraina orientale chiamata Donbas, dove vivevano in una cittadina di minatori molto vicino al confine russo, che soltanto pochi anni prima non era un confine. L’Unione Sovietica, che sarebbe dovuta durare per sempre, si era sciolta poco prima del capodanno del 1991 e la Repubblica socialista sovietica ucraina aveva ottenuto l’indipendenza. Tutta la famiglia di Galina lavorava in miniera. La madre di Galina, una femminista sovietica, aveva continuato a lavorare in miniera anche mentre cresceva i figli piccoli. Quando li incontrai, furono affettuosi nei miei confronti, nonostante non parlassimo la stessa lingua.

Galina era in una posizione molto più vulnerabile della mia: aveva una figlia piccola, era senza  soldi e aveva solo un passaporto ucraino, il che rendeva impossibile lasciare la piccola Repubblica ceca senza un visto per ogni passaggio di frontiera. Con difficoltà riuscì a ottenere un visto per l’Inghilterra per fare da accompagnatrice a un gruppo di studenti in visita a Londra. In assenza della madre, Mara si trasferì al secondo piano per condividere la stanza con me. Parlava poco inglese e io parlavo un ceco molto elementare. Tuttavia, seduta sul piccolo letto di fronte al mio, mi ascoltava pazientemente mentre cercavo le parole per raccontare storie di vita in un altro continente. Ero felice di avere la sua compagnia. Era facile prendersi cura di lei – troppo facile: non chiedeva nulla e non si aspettava nulla. Sembrava chiedere scusa per la sua stessa esistenza. La sera, quando le chiedevo se volesse fare una passeggiata o uscire a prendere un gelato, rifiutava sempre molto educatamente.

Una volta, nel cuore della notte, un rumore svegliò Mara. Proveniva dal piccolo cortile recintato sotto di noi, invaso dalle erbacce, dove dormiva il grosso cane che lei e Galina avevano adottato. Mi svegliai al suono di Mara che si alzava dal letto e si vestiva. Era molto nervosa; voleva controllare il cane. “Vengo con te”, le dissi. Ci mettemmo le scarpe e attraversammo il dormitorio, poi l’edificio scolastico vuoto e un labirintico corridoio sotterraneo per raggiungere il cortile adiacente all’appartamento di Galina. Mara chiamò il cane. Sentii un fruscio di piante, un animale che correva. Qualcosa si muoveva nel buio. Una marmotta. C’era stato un incontro tra il cane e la marmotta. Ma era tutto a posto. Era finita.

Nel gennaio del 1995 partii per Praga. Galina mi scriveva spesso. Iniziava le sue  lettere sempre con: “Cara, cara Marci”. Trovava il solo dear inglese freddo e neutro, a differenza del russo dorogaia o del ceco drahá, che erano termini molto più caldi. In aprile allegò un ritaglio del Monde sull’esistenza precaria dell’Ucraina post sovietica. “Siamo liberi”, diceva uno studente nell’articolo, “ma stiamo morendo di fame”. Pur sapendo quanto i suoi amici e la sua famiglia stessero soffrendo lì, Galina sentiva la mancanza della sua vita travagliata in Ucraina: non riuscì mai a sentirsi a suo agio nella città ceca. Un giorno la direttrice di una scuola in una città più vicina a Praga offrì a Galina un posto di insegnante. Mara non voleva ricominciare da capo, ma Galina non le diede scelta: aveva un lavoro migliore e un appartamento più luminoso, con spazio e luce, e gli stranieri lì erano meno appariscenti. Tuttavia, non era felice. “Incontrare persone è come una catena di esperienze dolorose”, mi scriveva, “una ricetta credibile e affidabile è fuggire (ecco, finalmente, la mia parola preferita!)”.
Ho sempre scritto a Galina in inglese e a Mara in ceco. Nell’estate del 1999, dopo aver imparato il russo, ho scritto la mia prima lettera indirizzata a entrambe. La mia lettera l’aveva colpita, mi rispose Galina. Non riusciva a credere che potessi esprimere così  tante cose in russo in modo tanto rapido – molte di più di quante ne avessi mai espresse in inglese. Si era commossa leggendomi: aveva sempre pensato che fossimo come sorelle, e la mia lettera in russo glielo aveva appena dimostrato. Galina cominciò a scrivermi in russo. Lei e Mara erano andate a vedere una rappresentazione teatrale, I fratelli Karamazov di Dostoevskij. “Non è Dio che non accetto, capisci”, dice Ivan al fratello Alyosha, novizio in un monastero, “è questo mondo di Dio, creato da Dio, che non accetto”. Galina aveva preso le parti di Alyosha. L’amore è sempre doloroso, mi disse Galina: questo è il prezzo che paghiamo per l’amore di un uomo, rispetto all’amore di Dio.


Kolya
Kolya, come Galina, era fuggito dall’Ucraina sovietica. Come il marito da cui Galina era scappata, Kolya era cresciuto a Leopoli, nell’Ucraina occidentale, parlando russo, ucraino e polacco, prima di trasferirsi da adulto a Kharkiv, nell’est. Più tardi, quando eravamo entrambi a Varsavia per fare ricerche per le nostre tesi di laurea e io parlavo già il polacco, ho sentito come il polacco di Kolya fosse  antiquato in modo quasi seducente, come se fosse ingioiellato. Incantava le donne di mezza età che lavoravano negli archivi semplicemente parlando. Una volta, a una festa a Toronto, spiegò a uno studente polacco perché aveva imparato così bene il polacco, crescendo in Ucraina sovietica: “Le ragazze parlavano polacco....”. E a Kolya piacevano molto le ragazze.

Ci siamo conosciuti all’Università di Toronto, in un seminario di storia sovietica. Kolya amava la lingua russa, ma odiava l’Unione sovietica: la sorveglianza, le bugie, l’assenza di libertà. Per anni aveva studiato l’inglese da solo e preparato la sua fuga da un impero le cui frontiere erano chiuse. In seguito aveva imparato il tedesco, mentre viveva in un campo profughi in Austria. Quando ci siamo incontrati aveva già vissuto almeno nove vite: soldato nell’Armata rossa, insegnante di storia nell’Ucraina sovietica, camionista nel Midwest americano.

Kolya era calvo, bello e in forma; indossava un trench quando faceva freddo. In inverno, quando lo vedevo aspettarmi davanti al mio palazzo, incorniciato dalla neve, sembrava un elegante agente del Kgb uscito da un romanzo di spionaggio. Amava giocare a calcio, soprattutto con altri emigrati sovietici, che condividevano con lui l’idea che il gioco dovesse essere duro. Desiderava uno spazio in cui l’aggressività fosse autorizzata. Questa assuefazione alla violenza era qualcosa che non avevo mai visto. Da dove veniva lui, mi disse una volta, i genitori picchiavano i loro figli – lo disse senza condannarli. Anche lui era stato picchiato? No, ma il suo caso era diverso, la loro famiglia era ebrea. In Unione sovietica, spesso portava con sé ai matrimoni dei tirapugni. Per sicurezza. La natura delle cose prevedeva che gli uomini bevessero troppo e iniziassero a litigare, era ragionevole essere preparati. Trovava difficile capire certe regole in occidente: perché non era appropriato spaccare una bottiglia di birra contro la testa di un uomo che molestava una donna in un bar? Agli uomini non era permesso proteggere le donne? Questa cosa non lo disgustava, ma lo sconcertava: per lui semplicemente non aveva senso.  (segue nell’inserto VIII)
Ci siamo avvicinati molto; anche questa è stata un’amicizia inaspettata, nata in mezzo allo studio intenso della storia sovietica. Quando Kolya mi disse che era innamorato di me, sapevo che non mi avrebbe mai toccato. Mi sentivo più sicura con lui di quanto non mi fossi mai sentita con chiunque altro. Facevamo lunghissime passeggiate, spesso di notte. Mi addentravo nella letteratura sulle purghe staliniane, decisa a cogliere il terrore, imparando cose che Kolya aveva sempre saputo. Quando a volte la proiezione immaginativa nel passato mi sembrava troppo reale, il terrore troppo vicino, era Kolya a tranquillizzarmi. In risposta alle mie continue ansie, mi diceva: “In russo abbiamo un detto: ‘E’ molto difficile trovare un gatto nero in una stanza buia, soprattutto se non c’è un gatto nero’”.

 

Inessa

Nonostante Kolya e Galina fossero molto diversi, condividevano la stessa accettazione del destino. Non era un caso. Imparando il ceco e poi il polacco, scoprii che nelle lingue slave quello che in inglese sarebbe stato il soggetto della frase – io, per esempio – spesso diventava l’oggetto indiretto, come se la vita fosse qualcosa che accadeva a me e io non fossi tanto l’attore quanto il destinatario dell’azione. Nel 1993 conobbi Inessa, una studentessa laureata di Mosca che stava trascorrendo il semestre autunnale presso l’Università della California dove studiavo. Inessa possedeva una peculiare combinazione di delicatezza e forza che sembrava provenire dal riconoscimento che il destino esisteva e aveva le sue prerogative. Aveva ventotto anni, ma sembrava più giovane. Era di una modestia che non avevo mai visto prima, come se sentisse di non avere diritti naturali in questo mondo, ma non provasse alcun risentimento per questo. Era disposta in qualsiasi momento a sacrificarsi per gli altri, persino a scomparire, se questo fosse stato meglio per loro.

Inessa era figlia unica. Non era mai stata tanto lontana da casa. Era preoccupata per sua madre, malata di cancro. La sera guardava le fotografie dei suoi genitori e piangeva. Una volta abbiamo parlato del motivo per cui non si era ancora sposata. Inessa credeva che le persone fossero adatte a ruoli diversi: alcune donne erano brave mogli, brave madri o brave sorelle. Lei era una brava figlia.
Qualche tempo dopo il ritorno di Inessa in Russia, sua madre morì di cancro. “Mi sento come se fossi morta anch’io”, mi scrisse. Quando andai a trovarla a Mosca, sette anni dopo il suo soggiorno in California, sembrava più giovane, ma anche più sofisticata, bella come non lo era mai stata prima. Solo ora che la madre che aveva amato più di ogni altra cosa non c’era più, poteva crescere. Viveva con il padre vedovo e il loro gatto: si prendeva cura di entrambi.

 

A Mosca mi vestivo come non avevo mai fatto in altri paesi; indossavo gonne corte e aderenti e un ombretto viola scintillante, proprio come le donne russe. In metropolitana leggevo riviste femminili russe con lunghi articoli su come manipolare un amante fino a portarlo a una proposta di matrimonio: “E’ necessario agire”. Volevo essere invisibile. Non avevo esattamente paura di essere sola in Russia. Ero solo in stato di allerta.
Ho imparato ad amare Mosca proprio perché era così difficile amare Mosca, una città non affascinante come San Pietroburgo, una città di dimensioni disumane. Nell’enormità di Mosca c’era una brutalità assente a San Pietroburgo. Spesso nella capitale sembrava che si usassero i verbi solo all’imperativo. Eppure Inessa amava questa città dura, Inessa che era un’orchidea, l’antitesi della brutalità. Mosca era la sua casa, vedeva cosa c’era di bello lì.

Abbiamo trascorso un pomeriggio al caffè del Museo Mikhail Bulgakov. Seduto su una sedia del caffè c’era un gatto enorme, nerissimo, il cui muso ipnotico era indimenticabile. E allora capii: questo era il gatto, il Behemoth di dimensioni reali, de Il Maestro e Margherita di Bulgakov, il suo cupo racconto satirico sulla visita di Satana a Mosca. Inessa amava Bulgakov. Da ragazza aveva pianto per tutta la durata del Maestro e Margherita. L’accostamento di Bulgakov tra la Mosca di Stalin e la Gerusalemme di Ponzio Pilato parlava alla sua esperienza: il male può essere endemico, ma ci si poteva ancora aggrappare a quel che aveva detto Satana, che “i manoscritti non bruciano”.

Quando nel 2002 lasciai Mosca per fare ricerche a Kyiv, Inessa venne con me alla stazione ferroviaria e mi accompagnò al treno. Il capotreno si accorse che lei non sarebbe venuta con me e si agitò. Non pensava che fosse sicuro. “Non lascerai che la tua amica vada da sola?”, le chiese. Inessa lo rassicurò: il mio ragazzo mi aspettava alla stazione di Kyiv. Il capotreno accettò: naturalmente non era vero. Non avevo un fidanzato. E non conoscevo nemmeno una persona a Kyiv.

 

Olga
Durante la mia permanenza a Mosca, Inessa mi presentò la sua amica Olga, una cristiana gentile e garbata che si manteneva traducendo romanzi dall’inglese. Nonostante il suo vocabolario fosse ricco, Olga non mi parlava mai in inglese; non era mai stata all’estero e l’inglese per lei esisteva solo sulla carta, nei romanzi. Come Inessa, anche Olga aveva trascorso tutta la sua vita a Mosca e non si era mai sposata. Viveva con la madre e la sorella, una ragazza madre, e si dedicava ad aiutare a crescere il figlio di sua sorella. Sebbene guadagnasse pochissimi soldi, era, come Inessa, generosa e non si lamentava. Tutte e tre insieme abbiamo visitato parchi, musei e gallerie, camminando per le strade di Mosca alla ricerca degli edifici in cui avevano vissuto grandi scrittori. Nell’autunno del 2006, il padre di Inessa morì. L’essere rimasta orfana ha dato a Inessa la libertà, ma era una libertà tardiva; il momento di creare la sua vita adulta era passato.

Anche Olga aveva quasi superato l’età fertile, eppure, poco dopo la morte del padre di Inessa, gli occhi di Olga incontrarono quelli di un artista che da tempo frequentava la sua chiesa, e si videro come se fosse la prima volta. Si sposarono. Olga lasciò Mosca e si trasferì con il marito in un villaggio nei boschi, dove frequentavano le funzioni ortodosse in una chiesa a pilastri ottagonali costruita in mattoni rossi. Mi inviò fotografie della foresta spoglia e innevata in inverno, degli alberi in fiore in primavera, della stufa bianca in muratura che riscaldava la loro casa. Mi inviò fotografie dell’arte minimalista del marito che evoca i colori lussureggianti della foresta su uno sfondo monocromatico, combinando la forma moderna con il villaggio russo apparentemente senza tempo.

 

Rivoluzioni
Galina fu accettata per studiare filologia slava in Inghilterra. “La distanza tra le persone qui è troppo grande”, mi scrisse dopo il suo arrivo in Gran Bretagna, “e in Russia è troppo piccola”. Ormai Mara non era più una bambina. Aveva terminato gli studi, sposato un  ingegnere molto gentile ed era rimasta a casa con i loro due figli. Mara rimase per scelta in quella piccola città dove la direttrice aveva dato lavoro alla madre: mentre la madre era voluta fuggire, Mara aveva desiderato radicarsi. Galina non poteva darle ciò che non aveva.

Nel 2004, il Cremlino sostenne la manipolazione delle elezioni presidenziali in Ucraina. Nel novembre dello stesso anno centinaia di migliaia di ucraini scesero nel Maidan, la piazza centrale di Kyiv, per protestare contro le elezioni truccate. Galina venne a trovarmi a Vienna durante la cosiddetta Rivoluzione arancione. Per la famiglia di Galina era difficile capire cosa stesse accadendo a Kyiv, una città che, vista dalla loro piccola città mineraria, sembrava lontana. Parlammo anche di Mara. “Mara ha sempre saputo di potersi fidare di te”, mi disse Galina quel giorno. “A causa della marmotta”. A causa della marmotta. Avevo dimenticato la marmotta.
Poco dopo, in una piccola comunità di suore domenicane in un monastero canadese, Galina prese i voti. Lì trovò finalmente la pace; per la prima volta le sue lettere erano felici. Temeva solo gli orsi, che di tanto in tanto le facevano visita dalla vicina foresta. Passò quasi un decennio prima che la guerra la riportasse nel mondo laico. Nel novembre 2013, gli ucraini si riunirono nuovamente al Maidan. A differenza di quanto era accaduto nel 2004, quella dell’inverno 2013-2014 fu una vera rivoluzione. Questa volta gli ucraini si riunirono al Maidan dopo che il presidente gangster sostenuto dal Cremlino, Viktor Yanukovich, si era rifiutato di firmare un accordo di associazione con l’Unione europea, atteso da tempo. Sarebbe stata una possibilità, un piede nell’ingresso dell’Europa. I giovani sentivano che il loro futuro gli era stato improvvisamente sottratto. Le proteste pacifiche sarebbero potute svanire se il presidente non avesse risposto con tanta violenza: pestaggi di massa, rapimenti, corpi torturati trovati nei boschi. Il Maidan è diventato un intero mondo parallelo; il regime di Yanukovich divenne sempre più selvaggio. La tensione si spezzò nel febbraio 2014, quando il presidente diede il via al massacro; i cecchini sui tetti dei grattacieli spararono contro i manifestanti.

 

In seguito, Yanukovich fuggì oltre il confine con la Russia, sotto la protezione di Putin. Giorni dopo, “omini verdi” in mimetica non identificata apparirono nella penisola ucraina della Crimea, che Putin aveva ormai dichiarato parte della Russia. La città natale di Galina era tra le località del Donbas conquistate dalle bande di separatisti sponsorizzate dal Cremlino, che cercavano di creare stati separatisti. Ormai l’anziano padre di Galina era costretto a letto; la madre camminava con difficoltà. Galina tornò nella Repubblica ceca per stare più vicina alla madre, che trascorreva le sue intere giornate a piangere. Nell’aprile 2014 il padre morì. Anche se non era lontana, Galina non riuscì ad andare al suo funerale: era troppo pericoloso. I battaglioni fedeli allo stato ucraino si sparavano con i separatisti del Donbas, alcuni locali, altri provenienti dall’altro lato del confine russo. Quando arrivò l’inverno, Galina temeva che l’anziana madre morisse di fame o di freddo. A volte non c’era acqua. L’ufficio postale smise di funzionare; Galina non poté nemmeno spedire un pacco di Natale. Durante i bombardamenti, dovevano nascondersi in cantina. 

Galina voleva attraversare il confine con l’Ucraina, ma la madre e il fratello glielo vietarono. Non tornò al monastero. Ricominciò a vagare. La guerra nel Donbas fu il suo ponte di ritorno al mondo. Non fu un ponte gioioso. “Non è una semplice ‘trasformazione’, il passaggio da uno stato di esistenza a un altro”, mi scrisse. “Il tempo è necessario per capire cosa succederà”. A Galina sembrava di assistere alla sofferenza della sua famiglia in una lotta biblica tra il bene e il male. “Sono assolutamente certa che questo tipo di male che sta avvenendo dove le persone hanno già sofferto così tanto”, mi scrisse Galina, “non può essere combattuto solo con gli sforzi umani. Abbiamo bisogno dell’aiuto di Dio. E mentre lo stato russo si affida a Putin, o meglio a Putler, l’Ucraina si affida totalmente e completamente alla divina provvidenza e all’aiuto di Dio. Sono assolutamente certa che l’Ucraina abbia scelto la parte migliore. Questa non è solo la mia fede, ma davvero fides et ratio”.

 

La madre e il fratello di Galina la pensavano diversamente e, a differenza di Galina, erano lì, nel Donbas, vittime di una guerra che non avevano voluto. Erano etnicamente ucraini, ma più profondamente sovietici; il russo era la loro lingua. Quando Galina chiese loro con ansia se fossero al sicuro dai separatisti, suo fratello rispose: “Siamo noi i separatisti!”. Vent’anni di indipendenza ucraina non avevano fatto loro molto bene, anzi: vedevano più stabilità in Russia. Lì gli stipendi e le pensioni erano più alti; in Ucraina non c’era mai la certezza che sarebbero stati pagati. Vedevano che Putin aveva messo fine all’anarchia; anche loro volevano qualcuno di forte al comando, che difendesse la popolazione russofona del Donbas dal colpo di stato fascista sponsorizzato dagli americani a Kyiv – dopo tutto, era così che il Maidan veniva descritto dalla televisione russa; era tutto ciò che avevano sentito. “Putin mente”, scriveva Galina. “E’ interessante notare”, mi disse, “che mia mamma e mio fratello siano contenti di sentire che gli mandi i saluti e parlano di te con calore. Tuttavia, probabilmente danno la colpa all’America delle loro sofferenze”. Gli amici più stretti della famiglia si schierarono dall’altra parte: erano contro i separatisti. La linea di divisione nel Donbas attraversava molte famiglie e molte amicizie. “Obiettivamente”, diceva  Galina, poteva capire sua madre e suo fratello: si sentivano più vicini alle cose russe. Vedevano in Russia la stabilità  che non c’era in Ucraina.

La madre e il fratello di Galina sapevano che Galina non era d’accordo con loro. Così non parlarono più di politica. Galina faceva loro soltanto domande pratiche. Avevano freddo? Avevano sete? L’ufficio postale funzionava, poteva mandare loro del cibo? Aveva deciso di tacere; era moralmente inammissibile giudicare persone che vivevano in condizioni disumane. Non credeva che lei stessa sarebbe stata in grado di sopportare tali condizioni. “Scapperei da qualche parte”, mi disse. Fuggire. Non ne era orgogliosa. Galina pregava che Dio aprisse gli occhi di Putin sul male che stava commettendo.

 

A differenza di Galina, Kolya aveva trovato un posto per sé: era professore di Storia in un piccolo college del sud-ovest americano, dove viveva con una donna di Leopoli che aveva conosciuto in gioventù e che ora era sua moglie. Pur avendo meno fede e meno gentilezza, capiva le bugie di Putin tanto quanto Galina. “Anche se sono disgustato dal nazionalismo ucraino di destra”, mi scrive ora Kolya, “sono troppo consumato dall’odio per la Russia e per tutto ciò che è russo”. In poche parole, “sedurre” la popolazione in Russia non è così difficile e come storici conosciamo molti precedenti. “Putin sta dicendo ai russi quello che vogliono sentire e questa è la fine della storia”.

 

Inessa, la cui famiglia paterna era arrivata a Mosca dall’Ucraina prima della sua nascita, era tranquilla nella sua tristezza. Quando gli “omini verdi” apparsero sull’isola di Crimea, mi scrisse in un messaggio che sperava solo che non ci fosse stato sangue. Olga mi inviò le fotografie dei dipinti del marito. Mi scrisse del loro cottage nella foresta, che richiedeva lavoro e cure ma li rendeva felici. Sullo sfondo della sua tranquilla vita quotidiana c’era la guerra nel Donbas. L’Ucraina non le sembrava un paese straniero: così tante persone avevano famiglia da entrambi i lati del confine. Olga non sapeva come gli americani, e come io personalmente, si rapportassero a questa tragedia – pensava che non potessi non essere influenzata dalla televisione americana, dalla propaganda occidentale, e non voleva provocare risentimento – e quindi non disse altro.
La incalzai. Olga acconsentì. Cominciò con I demoni di Dostoevskij: un’opera geniale. Come potevano i russi, dopo aver letto un romanzo in cui tutto era messo a nudo, essere così ciechi di fronte al pericolo dei movimenti rivoluzionari? Aveva in mente il Maidan. “Le rivoluzioni”, scrisse Olga, passando al presente,  “non portano mai a nulla di buono”. Olga era certa che l’occidente avesse interferito in Ucraina, e che lo avesse fatto solo per cattiveria: la Russia era sempre stata una “spina nella carne dell’occidente”. E’ stato Putin – scriveva Olga – a tirare fuori la Russia dal baratro. Sotto il suo governo, la vita dei russi era diventata più calma, più gentile, più stabile. Era grata a Putin anche per aver sostenuto i valori della famiglia, per aver protetto i bambini dalla “propaganda gay”. “Che l’Ucraina, il nostro vicino, come risultato di un attento lavoro da parte dell’occidente... sia diventata il nemico della Russia, come dovrebbe piacerci? E ora abbiamo al potere lì, se non dei fascisti, dei nazionalisti che non sono migliori dei fascisti e a capo dello stato un oligarca, e cosa c’è di buono? La Russia ha sostenuto il governo precedente, non questi banditi. E ancora è colpa della Russia? E’ un peccato che, grazie all’occidente, l’Ucraina non sia più nostra amica. La povera Ucraina si è rivelata una merce di scambio nei giochi occidentali contro la Russia”.

 

Ormai conoscevo molte persone in Ucraina. Per tutti loro, il Maidan è stato un’appassionata protesta contro la corruzione, la brutalità dello stato, l’impotenza di fronte all’arbitrarietà del potere. Valeva la pena morire se quello era il prezzo per rifiutarsi di essere governati dai gangster. I miei amici ucraini che avevano trascorso l’inverno al gelo sul Maidan sapevano fin troppo bene che non c’era alcuna cospirazione americana dietro di loro: al contrario, speravano disperatamente nel sostegno dell’occidente. Erano stati lasciati da soli. “Quello che verrà dopo, Marci, sarà come Dio vorrà”, aggiunse Olga. “Il tempo lo dirà”.
Ho raccontato a Kolya della lettera di Olga. Non c’era opportunismo in lei. Credeva che la storia raccontata da Putin alla televisione russa fosse vera. “Molti russi sostenevano la stessa cosa durante e dopo l’èra di Stalin (non voglio nemmeno menzionare Hitler)”, mi rispose Kolya. “Ora dicono che Boris Nemtsov è stato assassinato dalla Cia per disonorare la Russia, come se fosse rimasto qualcosa da disonorare”.

Nel giugno 2015, un anno dopo l’inizio della guerra nel Donbas, mi recai a Dnipropetrovsk, una città dell’Ucraina orientale dove non molto tempo prima una grande folla si era riunita spontaneamente nel centro della città e aveva abbattuto la statua di Lenin. Di notte, una giovane storica mi accompagnò a fare una lunga passeggiata per la sua città, passando per le strade – viale Karl Marx, via Komsomol, argine Lenin – che non erano state rinominate dopo la caduta dell’Unione sovietica. Era pacata, umile e riflessiva, molto simile a Inessa, e pensai alle passeggiate che io e Inessa avevamo fatto a Mosca. “E’ pericoloso lì?”, Inessa mi chiese ansiosa per messaggio. No, le assicurai, non lo era. In ogni caso, non quel giorno. Il fronte rimaneva a qualche centinaio di chilometri di distanza. “Ti aspetto a Mosca”, aggiunse Inessa. Invece avevamo programmato di incontrarci a Kyiv quell’ottobre. Ma a ottobre Inessa non venne a Kyiv e non mi disse perché. Non mi scrisse più nulla.

 

Ho trovato una vecchia fotografia di Inessa, Olga e me davanti alla dacia di Boris Pasternak nel villaggio di Peredelkino. La dacia era illuminata dal sole. Eravamo tutte e tre in piedi all’ombra degli alberi, Inessa e Olga in jeans chiari, io con una lunga gonna nera. Sembravamo abbronzate e allegre. Peredelkino sembrava verde e rigogliosa. Un richiamo. Inviai la fotografia a Inessa, ma non ricevetti risposta.

Sulla via del ritorno in America da Kyiv, Galina e io ci incontrammo a Praga. Portava un cappello color prugna; lo aveva comprato per il nostro incontro. Non la vedevo da quando era entrata in convento più di dieci anni prima, eppure mi sembrava e mi sembra immutata, come se fossimo state lontane solo poche settimane. L’aria era calda e umida; girovagammo per Praga con i nostri cappelli, la pioggia velata e non invadente. Decidemmo di cercare un ristorante tranquillo, preferibilmente francese, e Galina chiese a un trio che incrociammo se conoscessero un posto del genere. Sì, disse uno degli uomini. Poteva consigliarci il ristorante dove lavorava come cameriere, ci stava andando in quel momento. Sentì l’accento di Galina, le chiese di dove fosse; iniziarono a parlare della guerra in Ucraina orientale. All’interno del ristorante l’arredamento alludeva senza pretese agli anni Quaranta. Parlammo del Donbas, dei suoi genitori, della verità. Parlammo anche del nostro incontro nella piccola città boema più di due decenni prima e del fatto che ora mi sentivo irresistibilmente attratta dall’Ucraina, ipnotizzata dal Maidan, da quel miracolo che non era mio, incapace di voltare le spalle – tutto come se fosse una strana coincidenza. Galina non era d’accordo. Come aveva scritto il romanziere yiddish Isaac Bashevis Singer – mi disse, passando ora al ceco – “Coincidenza non è una parola kosher”.

 

Epilogo
Galina ora vive in una città ceca. Quando sono iniziati ad arrivare bambini e donne rifugiati dall’Ucraina, lei si è offerta di andare da loro, di tradurre, di aiutarli ad adattarsi, anche se solo per un breve periodo. Poco prima dell’invasione, le avevo inviato Daniel Stein, Interpreter della scrittrice russa Ludmila Ulitskaya. Era un lungo romanzo, ma Galina lo aveva già finito. Lo aveva portato a una donna ucraina in fuga dalla guerra – mi scrisse – dicendole che era da parte mia, il regalo di una sconosciuta. Kolya è morto. E’ morto improvvisamente, inaspettatamente, per un attacco di cuore, quattro anni fa, a soli sessant’anni. Non scrivo più a Olga. Non è più possibile, non è più sicuro, soprattutto per lei.

Dopo l’inizio della guerra, ho trovato Inessa su un’applicazione criptata. E’ rimasta nello stesso appartamento, ora è sola con due gatti. Non crede a Putin, ma non riesce nemmeno a credere che la guerra sia davvero inutile. Le ho inviato – sempre in modo criptato – video e informazioni a cui non può accedere facilmente in Russia. So che ciò che le invio è insopportabile. La guerra è una giustapposizione di ciò che è puramente concreto con ciò che è puramente metafisico. Le immagini traboccano di fisicità: arti mancanti, corpi straziati, volti insanguinati. E la domanda, immacolatamente distillata: da dove viene il male? Ogni volta che clicco su “invia” temo che legga il mio messaggio e si avveleni. Vivere in un regime totalitario significa esserne coinvolti. Si prova vergogna e disperazione, ma non si ha il potere di resistere.

 

L’ultima cosa che Inessa mi ha scritto è questa: tornando a casa ha comprato dei lillà per sé, qualcosa per mitigare l’orrore. Per strada lo sguardo di un’anziana donna aveva incrociato il suo. Era impossibile esprimere a parole ciò che l’anziana voleva dire, ma era tutto lì, nei suoi occhi. Inessa le aveva dato i suoi fiori. La donna l’aveva abbracciata e aveva cominciato a piangere. E così erano rimaste lì, sulla quella strada di Mosca, abbracciate. Non ci sono più parole, mi ha scritto Inessa.


Questo testo è stato originariamente pubblicato sulla Yale Review.  (traduzione di Priscilla Ruggiero)

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