A destra Lev Tolstoj (Olycom)  

Da Tolstoj a Facebook

Il potere delle storie e il lato oscuro dello storytelling

Gaia Manzini

I professionisti l'arte lo usano per influenzare, convincere o dividere, talvolta anche per distruggere. Un libro dell'accademico inglese Jonathan Gottschall aiuta a riconoscere i meccanismi, i paradossi e le strorture dell'arte della narrazione. E come difendersi

Per Lev Tolstoj l’arte narrativa era uno degli strumenti dell’unione tra gli uomini e, perciò, del progresso; dunque dell’avanzare del genere umano verso la felicità. Un secolo dopo, Mark Zuckerberg ha intravisto nella sua invenzione qualcosa di simile. All’inizio Facebook era stato lanciato ignominiosamente come strumento per classificare la sensualità delle studentesse di Harvard, ma dopo pochi anni Zuckerberg iniziò a parlare del suo sito in termini utopici: tramite Facebook si potevano costruire ponti tra familiari e amici. L’umanità si ritrovava collegata in un’unica rete dove condividere storie, sentimenti, idee. Grazie a questa dinamica di reciprocità, i vecchi pregiudizi sarebbero caduti, sostituiti da una rinnovata armonia e la felicità si sarebbe diffusa senza interruzioni. Non è andata così. 

 

Il sistema di algoritmi fa in modo che ogni fruitore rimanga dentro il suo “storiverso”. Ci osserva e ci apprezza soprattutto chi è simile a noi: l’empatia è tautologica. Dentro Facebook viviamo in mondi narrativi che rafforzano i nostri pregiudizi, invece che metterli in discussione. E quei mondi narrativi ci trasformano in versioni estreme di noi stessi. Quando sui social incontriamo chi è diverso da noi, non è l’empatia ad accendersi, ma la polarizzazione. Così quello che doveva trasformarsi in un villaggio globale dell’armonia è diventato per lo più un propulsore di inimicizia. 

Questo perché Zuckerberg ha frainteso le parole di Tolstoj? No. Solo perché l’arte della narrazione nasconde profondi paradossi. Quando parliamo di narrazione non intendiamo i libri, ma la diffusione dello storytelling: la fascinazione atavica e antichissima per le storie è rafforzata oggi più che mai da un movimento panculturale che celebra il potere trasformativo delle narrazioni in moltissimi campi dell’esperienza umana, dall’economia alla scuola, dalla legge alla medicina, dall’architettura alla crescita personale. E questa diffusione non fa che radicalizzare i paradossi del racconto. Prima di tutto, le storie sono il modo più antico ed efficace di attirare l’attenzione – quindi di manipolare l’opinione altrui. “Le storie sono il mezzo migliore che noi umani abbiamo inventato per influenzarci a vicenda”, scrive l’accademico e saggista inglese Jonathan Gottschall nel suo interessante Il lato oscuro delle storie. Come lo storytelling cementa la società e talvolta la distrugge, edito da Bollati Boringhieri. 

 

Se entrate in un locale all’ora dell’aperitivo e vi sedete in disparte a osservare, vedrete persone riunite in gruppi. Le vedrete muovere le labbra, fare smorfie, agitare le mani. Parlano, comunicano tra di loro. Non si racconta una storia solo per il gusto di raccontarla. Quasi sempre chi prende parola si muove come sospinto dal respiro di quello che sta dicendo. Sì, spinge, ovvero cerca di spingere in una certa direzione l’opinione di chi lo sta ascoltando. E’ la stessa cosa che succede quando scriviamo un post che voglia ottenere più like possibile, valutando le parole giuste, i giri di frase più ad effetto, gli aneddoti che attirino più compassione o simpatia. Si tratta di manipolazione al grado uno: puramente narcisistica. 

 

Ma il paradosso più profondo in cui incappa l’arte narrativa è che all’empatia che ci muove verso qualcuno – quella di cui parlava Tolstoj – spesso fa da contrappeso l’indignazione moralistica verso gli antagonisti. E’ ciò che accade anche nei libri: parteggiamo per l’eroe che dopo mille difficoltà ricostituisce un ordine nel suo mondo e, al contempo, proviamo un moto di antipatia nei confronti di chi lo avversa. Fuori dalle pagine di un romanzo, questo vuol dire che le storie sono il viatico per compattare schieramenti di opinione contrapposti. “Sì, le storie possono agire come magneti che attraggono gli essere umani in tribù coese, ma sono anche la cosa che più di ogni altra allontana una tribù dall’altra”, scrive Gottschall a proposito del paradosso implicito in ogni narrazione. Nulla, infatti, è davvero dichiarato nelle intenzioni, la vera narrazione non ama l’esplicitezza. Quindi nell’ottica della manipolazione ogni storia ben raccontata può trasformarsi in una sorta di persuasore occulto. 

 

Per anni i pubblicitari sono stati additati come i primi tra i famigerati persuasori nascosti. Negli anni Cinquanta il critico sociale Vance Packard sostenne nel libro I persuasori occulti che un gruppo di pubblicitari, scienziati e psicoterapeuti si fosse unito per cospirare contro i consumatori: attraverso la diffusione di messaggi subliminali, infatti, avrebbero detenuto un vero e proprio controllo sulla mente delle persone. Il libro di Packard fu venduto in milioni di copie. Ma questo anche grazie a un giovane ricercatore, un certo James Vicary. Vicary fece esperimenti concreti in fatto di persuasione inserendo in una pellicola cinematografica alcuni messaggi invisibili come “Mangia pop corn” o “Bevi Coca-Cola”. Poco dopo gli esperimenti pubblicò gli strabilianti risultati della sua ricerca: gli imperativi subliminali si traducevano in modo letterale in azioni concrete. Packard e Vicary, ognuno a suo modo, avevano la presunzione di aver provato la vulnerabilità progettuale della mente umana. Quando Vicary rese noto il suo esperimento di “pubblicità invisibile”, attirò su di sé le critiche dei più importanti quotidiani americani. C’era chi parlò di “stupro della mente”, chi di imminente “incubo orwelliano”. Peccato che fosse tutta una bufala. Le teorie di Packard non avevano alcun fondamento scientifico, e i risultati degli esperimenti di Vicary erano puramente inventati: era stato solo un modo efficace per salvare la sua società di marketing dal fallimento. Nonostante l’opinione pubblica lo criticasse, questo gli fruttò milioni di dollari in contratti. Si tratta di storytelling al quadrato: la narrazione della persuasione occulta affascina Vicary, che ne fa a sua volta una narrazione manipolatoria per affascinare un pubblico di possibili clienti. Al di là del fatto che era un imbroglio, la narrazione della persuasione occulta aveva già prodotto due schieramenti contrapposti: chi ci scorgeva una possibilità di guadagno e chi vedeva in tutto questo qualcosa che avrebbe messo a rischio la sopravvivenza stessa del libero pensiero.

“Si tratta di una cosa meravigliosa”, scrive Gottschall: “ogni volta che la straordinaria capacità delle storie di fare del bene viene incanalata per promuovere l’empatia, la comprensione, l’altruismo e la pace. Ma la magia condizionante della narrazione è altrettanto efficace nel seminare divisione, sfiducia e odio”. L’autore riporta uno dei paradossi più significativi ai tempi dei social. Si tratta di un episodio di cui si è molto discusso nel 2016. Il 21 maggio due gruppi di manifestanti si diressero verso l’Islamic Da’wah Center di Huston in Texas. Il primo era costituito dai membri di un gruppo Facebook chiamato The Heart of Texas, dedicato al retaggio texano, difensore del diritto a possedere armi e desideroso di frenare l’immigrazione. L’altro gruppo, United Muslim of America, sosteneva cause come i diritti degli immigrati e il controllo delle armi. I primi andavano a riunirsi davanti al Centro islamico per protestare contro l’“islamizzazione del Texas”; gli altri accorrevano per manifestare contro il primo gruppo. Nonostante molti avessero portato con sé armi da fuoco, la tensione si dissolse dopo qualche ora di slogan urlati gli uni contro gli altri. 

 

Ogni gruppo raccoglieva accoliti in base a una precisa narrazione che si dava degli Stati Uniti e dello Stato texano. Parliamo di più di 500 mila persone divise in due narrazioni contrapposte. In realtà, però, stiamo parlando di 500 mila inconsapevoli personaggi e comparse mossi da un unico narratore. Entrambi i gruppi, infatti, sono stati creati – riporta Gottschall – dalla Internet Research Agency di San Pietroburgo, ormai famosa “troll factory” al centro della macchina di influenza russa che si è scatenata nelle elezioni americane del 2016. Entrambi i gruppi sono diventati strumenti di propaganda estremamente efficaci. L’agenzia russa è una fabbrica di storie che scatena una guerra di narrazioni, sfruttando le spaccature all’interno di una società e alimentando ostilità e divisione. Nella fattispecie, i disordini del 2016 servivano a spostare le elezioni verso il candidato repubblicano, demoralizzando dall’altro lato i democratici. Le narrazioni messe in campo nella vicenda dell’Islamic Center hanno un doppio movimento: interno, che stimola aggregazione ed empatia tra simili, ed esterno, che alimenta odio e sospetto verso chi è diverso. E questo è possibile perché la mente umana ha un “bias di negatività” che ci fa istintivamente credere alle storie – e prefigurazioni – negative più che a quelle positive. Più al catastrofismo e alla cospirazione che non a un’epica edificante.

Si dice che Hemingway scommise una volta con gli amici di saper racchiudere tutta la potenza di un romanzo solo in sei parole. Durante una cena lo scrittore prese un tovagliolo e scarabocchiò una frase. Vendesi: scarpe da neonato, mai indossate. Naturalmente Hemingway vinse la scommessa. Al di là che l’aneddoto sia vero o meno, chiunque legga questa frase si ferma, ragiona per un secondo, fin quando la tragedia immaginaria prende corpo nella sua mente. E’ una storia che mostra senza dire: il suo messaggio implicito la rende più efficace. E poi nasconde una sofferenza, e la sofferenza si appella alla nostra compassione ed empatia molto più della felicità. Le storie di propaganda dunque sfruttano gli schemi classici della narrazione e le risposte psicologiche a quegli schemi. C’è una tendenza alla negatività che soggiace alla nostra psicologia. Gli eventi negativi catturano più facilmente la nostra attenzione e producono un maggior slancio motivazionale. E’ la ragione per cui “i drammi” trionfano nel mercato dello storytelling. La narrazione del riscaldamento globale tarda ad avere un effetto su di noi, nonostante l’ingrediente del catastrofismo, perché è una pessima storia. E’ pessima perché non ci sono protagonisti e antagonisti precisi (come invece c’erano nel caso dell’Islamic Center), ma qualcosa di astratto e generico come i processi geofisici. E poi perché si tratta di una storia disattivante: la portata del problema è così grande che è impossibile vedere noi stessi come protagonisti di una possibile soluzione. 
Le persone hanno bisogno di storie. Le storie hanno bisogno di problemi. I problemi hanno bisogno di cattivi che li causino, e i protagonisti hanno bisogno di sapere che potrebbero risolvere quei problemi. 

 

Fa notare Gottschall che alla base dell’odio etnico sta sempre la diffusione di una storia pregiudiziale di quelli che consideriamo “gli altri”; una storia che di solito scatena i peggiori demoni. Lo è stato da sempre per la persecuzione degli ebrei, lo è stato per gli hutu e i tutsi in Ruanda. Nel giugno del 1994 gli hutu ruandesi improvvisamente insorsero e iniziarono a massacrare i loro vicini di casa e colleghi di lavoro tutsi. E’ stato un genocidio compiuto a colpi di armi da taglio e a distanza ravvicinata: tra i più sanguinosi della storia dell’umanità. Eppure, dieci anni dopo il massacro, in Ruanda le famiglie e gli amici si stringevano intorno alla radio per ascoltare la soap opera Nuova alba. Si trattava di un esperimento psicologico: durante l’ascolto un team di scienziati avrebbe studiato il suo impatto sugli ascoltatori. Nella trama era stato inserito il tema della riconciliazione che si concludeva con un matrimonio interetnico. L’empatia scatenata dalla storia agì in modo attivante: le persone si dichiararono d’un tratto fiduciose nella capacità del dialogo di risolvere le differenze. In questo caso la manipolazione aveva un intento positivo di attivazione dell’empatia e del perdono.

 

Siamo immersi in un mondo in cui i narratori e le storie diventano sempre più forti, mentre il potere delle prove e dei fatti diventa sempre più debole. Un mondo in cui la verità è molto difficile da stabilire. Quando la narrazione si sposta dai romanzi alla politica, al marketing, all’ecologia, alla vita sociale, rischiamo di vivere all’interno di pericolosi deliri collettivi. Tutto dipende dalla dimensione etica del narratore che ci conquista. Siamo sempre manipolati dalle storie? Probabilmente sì, a patto che siano storie narrativamente impeccabili. Per questo dobbiamo chiederci di continuo chi ci sta raccontando quella storia. C’è qualcuno che vuole metterci contro altri da noi? Come? E perché lo sta facendo? Possiamo opporci all’imperialismo dello storytelling e all’acriticità da cui spesso siamo afflitti solo acquisendo un certo controllo delle dinamiche narrative e delle nostre risposte psicologiche che da quelle dipendono. Solo così saremo padroni delle storie che si trovano nella nostra testa. E non viceversa.