Ingmar Bergman assieme all'attrice e musa Liv Ullmann nel 1968; la loro relazione ispirò la miniserie (Wikimedia commons) 

Plagi, saccheggi e citazioni

Travolti da "Scene da matrimonio", tra Jessica Chastain e Anna Tatangelo

Andrea Minuz

Quando arrivò in Italia, lo sceneggiato svedese di Ingmar Bergman fu un successo inaspettato: avevamo scoperto un nuovo modo di trattare l’amore, la passione e le corna. Ora arriva anche il remake di Hbo

È il titolo di Bergman più saccheggiato, citato, plagiato. Ripreso alla lettera o evocato in una parabola ininterrotta di omaggi: inchieste sulla coppia, adattamenti teatrali dilettanteschi, raccolte di John Updike, parecchi film di Woody Allen e un memorabile programma di Davide Mengacci; quel “Scene da un matrimonio” che all’inizio degli anni Novanta anticipò tutti i “Boss delle cerimonie” a venire. Tra dialoghi e monologhi cattivissimi, Bergman radiografava la crisi esistenziale, la catastrofe di incomprensioni e infelicità della coppia in un “kammerspiel” gelido, minimalista, spietato. Mengacci la seguiva in tutti i passaggi, dal fidanzamento alla proposta di matrimonio. Eppure anche lì retroscena amari, dubbi atroci, ripensamenti fulminei (“una volta una sposa scappò con un delegato di produzione”, ricorda nel suo libro di memorie).

 

Ora i remake di “Scene da un matrimonio” viaggiano in parallelo tra Jessica Chastain e Anna Tatangelo. C’è la prestigiosa miniserie prodotta da Hbo che rifà Bergman all’americana (la si è vista in anteprima a Venezia, arriva su Sky oggi). E c’è “Scene da un matrimonio” condotto dall’ex “ragazza di periferia”, su Canale 5, rifacimento del vecchio programma di Mengacci per provare a rubare un po’ di spettatori a “Domenica In”. Se i puristi bergmaniani alzano già il sopracciglio, anche Mengacci non ci sta: “Avrei optato per Barbara D’Urso, e poi nessuno mi ha interpellato, l’ho saputo dai giornali”. Pure la miniserie Hbo, del resto, si prende molte libertà. Anziché beccarsi le corna, questa volta è Marianne a tradire, com’è giusto che sia in questi tempi di “quote rosa” nei Leoni d’oro. Ma questo “Scene da un matrimonio”, molto americano, molto glamour, angosciato e disperato come l’originale svedese anche se più vicino al “Marriage Story” visto lo scorso anno su Netflix, ci rimanda ai nostri beati anni Settanta, quando Bergman arrivò sulla Rai. Fu un vero cataclisma.

 

Chi c’era non può averlo dimenticato. Complice uno sciopero sindacale, l’ultima puntata di “Scene da un matrimonio” andò in onda a reti unificate davanti a diciassette milioni di telespettatori. Più di Sanremo. Più delle dirette Conte. Cose difficili da immaginare oggi, quando già il titolo dell’ultima puntata (“Nel cuore della notte, in una casa buia, da qualche parte del mondo”) basterebbe a decimare gli spettatori. Certo, lo sciopero sindacale creo l’effetto “Bergman di Stato”. Ma da un mese ormai tutta l’Italia che andava in estasi per “Portobello” era attraversata da un’insolita febbre svedese. Già dopo la prima puntata, trasmessa il 6 ottobre 1978, “Scene da un matrimonio” era diventato una buona scusa per non uscire la sera: “Ma sei matto? Stasera c’è Bergman”. Del resto, tra Br e bombe si usciva già pochino.

 

“Le famiglie si riuniscono al completo davanti al teleschermo”, si leggeva sul Corriere, “è un incredibile terapia di gruppo consumata nel silenzio delle mura domestiche; ognuno porta dentro di sé il messaggio di Marianne e Johan, lo interpreta a modo suo, lo coltiva in segreto”. I dialoghi di Bergman dettavano tutto un nuovo lessico: “Tra noi c’è il cosmico silenzio degli spazi tra un pianeta e l’altro”, “siamo degli analfabeti dei sentimenti”, “grazie per questo scambio di idee”, detto dopo che lui l’aveva tradita. Non erano tornati insieme, ma erano riusciti a comunicare, a parlare. Nel paese del delitto d’onore, delle vampate di gelosia, delle coltellate, con un analfabetismo reale ancora importante, figuriamoci quello “sentimentale”, tutto questo entusiasmo per Bergman suonava come un magnifico “cultural clash”. Sin lì i film del maestro svedese erano stati roba da cineclub impegnati. Magari visti a qualche Festa dell’Unità o in una conferenza su prodigi e limiti delle socialdemocrazie nordiche.

 

La prima versione di “Scene da un matrimonio”, prodotta per la tv svedese, era uscita nel 1973. Bergman ci aveva messo dentro più o meno tutti i suoi disastri coniugali, tradimenti, pene d’amore, famiglie allargate. A quel tempo era assai affascinato dalla tv, dalla possibilità di costruire un dramma tutto giocato sulla parola e i primi piani degli attori, i fedelissimi della sua “factory”. La tv, non il cinema, gli sembrava destinata a un grande, radioso futuro se non altro in termini di audience (Bergman voleva essere visto, anche con tutti quei silenzi, angosce, riflessioni sulla morte, lavorava per riempire le sale, non per svuotarle). “Scene da un matrimonio” uscì poi in versione cinematografica, dunque assai ridotta. Non passò inosservato, ma da noi non fu certo un successo.

 

“Difficile”, “cerebrale”, “angoscioso”, “troppo lungo”. Qualche anno dopo la Rai acquista la versione televisiva svedese. Dietro l’operazione c’è Mimmo Scarano, direttore della Rete Uno. Uno assai spregiudicato per l’epoca. Intervistato sul “preoccupante successo dei telefilm americani”, diceva, “sì, lo so, c’è chi li disprezza, ma che bello se sapessimo farli anche noi così”. Insieme a David Jacobs, l’ideatore di “Dallas”, che ammise di aver pescato a piene mani da Bergman (“Volevo scrivere una versione più pruriginosa e più americana di Scene da un matrimonio”), Mimmo Scarano fu probabilmente l’unico a intravedere un filo diretto tra le soap americane e le inquietudini esistenziali del maestro svedese. Di sicuro l’unico in Rai: “Pochissimi nella rete ci credevano. Solo noi e la tv svedese l’abbiamo trasmesso per intero”. Ma forse neanche Scarano si aspettava un successo del genere e uno strascico di dibattiti di quella portata (“per tutto l’inverno si parlerà d’amore e disamore”, scriveva Lietta Tornabuoni sulla Stampa).

 

Bergman arriva come un terremoto. Entrano in campo tutti: politologi, femministe radicali, Maurizio Costanzo, psicanalisti e sociologi che in quegli anni vivono il loro boom mediatico, come oggi i virologi. Senza il traino di “Scene da un matrimonio”, Alberoni non avrebbe iniziato la scalata di quarantacinque ristampe e oltre un milione di copie vendute del suo seminale “Innamoramento e amore”, uscito l’anno dopo. Un’Italia ancora scossa dalla legge sul divorzio, parola impronunciabile solo una decina d’anni prima, si scopre di colpo molto “svedese”. Ansiosa di confronto sincero e spietato tra le parti. Basta ipocrisia, amanti, sotterfugi. Grazie a Bergman, le corna si dotano di un “contenuto”. Si tradisce come prima, ma si è presi in una pensosa riflessività sul comunicare e il non comunicare. La gelosia latina lascia il posto al distacco nordeuropeo. “Anche la donna italiana tradisce”, si legge su Epoca, “e oggi lo fa senza il senso di colpa che prima la ossessionava.

 

Però la sofferenza è la stessa, semmai più intensa; il disagio non riguarda tanto il tradimento ai danni del suo compagno, quanto la constatazione che qualcosa di molto importante non ha funzionato nel loro rapporto. E allora teme di continuare a non intendersi con il nuovo partner”. Fioccano pareri di psicanalisti e psichiatri: “Avere un amante non è solo un’esigenza sessuale, ma culturale: non è uno faccenda di letto, ma uno scambio di umanità”. Era fatta: via “Malafemmena”, dentro Bergman. In un lungo speciale sull’Espresso si lasciavano intravedere, come da un buco della serratura, gli “spaccati” di vita degli italiani davanti a “Scene da un matrimonio”, lavorando, si capisce, anche molto di fantasia: “Roma. Interno d’una abitazione, sera di martedì 24 ottobre: l’uomo, sprofondato nella poltrona, accende una sigaretta dopo l’altra senza mai staccare gli occhi dal televisore. Seduta sul divano accanto, la donna ha lasciato cadere il solito lavoro a maglia ed è completamente presa dalla trasmissione. Nessuno parla finché non si conclude la quarta puntata di ‘Scene da un matrimonio’”.

 

Uno Strindberg neorealista. Ma è soprattutto dopo la fine dello sceneggiato che Bergman tiene sotto scacco i giornali. Si partiva da lì e si tirava in ballo un po’ di tutto: “Gli indifferenti” di Moravia, “Anna Karenina”, “L’amante di Lady Chatterley”, “Madame Bovary”, visto un paio di mesi prima nell’omonimo sceneggiato con Carla Gravina e Ugo Pagliai, in un adattamento molto “teatro d’inchiesta” e un po’ femminista. Si ripercorrevano gli scandali e gli adulteri della cronaca italiana: l’irruzione del dottor Enrico Locatelli nella villa di Fausto Coppi coi carabinieri in cerca della “dama bianca”. Ma anche la revolverata della contessa Pia Bellentani a Carlo Sacchi, industriale tessile suo amante, in un party a Villa D’Este, con la moglie e l’altra amante di lui che si gettavano disperate sulla vittima, mentre la contessa si sparava con una pistola che però s’inceppava (“Dio mio che noia questi italiani”, commentava serafico il barone Rothschild, poco più in là). Partirono anche le inchieste sull’adulterio. Come oggi avremmo avuto una puntata di “Report”. Tutti i giornali riportavano dati, statistiche, numeri in crescita. Si parlava di “monogamia flessibile”.

 

Anche perché, nel frattempo, il mito della “coppia aperta”, modello rivelatosi davvero improponibile per gli italiani, era ormai tramontato. Ce l’avevano già spiegato anni prima Alberto Sordi in “Amore mio aiutami” o Ettore Scola in “Dramma della gelosia. Tutti i particolari in cronaca”. Né i proletari di Scola, né i piccolo-borghesi di Sordi sembravano capaci di gestire con la giusta freddezza e distacco e impassibilità nordica il loro adulterio, tanto meno l’ammucchiata e il ménage à trois. Dunque via coi ceffoni e le sberle tra le dune di Sabaudia in quel finale incredibile del film di Sordi e, manco a dirlo, oggi impensabile, irricevibile, impossibile. Le “esperienze delle comunità”, scriveva Epoca, “si sono rivelate disastrose, e le coppie tornano a rinchiudersi nel rapporto a due, si distaccano anche fisicamente dal gruppo, rifugiandosi in una tana esclusiva”. Ma come mai un popolo innegabilmente poco incline alla gestione nordica delle corna, refrattario al confronto diretto o alla terapia di coppia, si specchiava all’improvviso nel naufragio di un matrimonio molto borghese e molto svedese? Una prima risposta è nella parolina che proprio in quei giorni inizia a circolare sui giornali: il “riflusso”.

 

Il ripiegamento nel privato. L’inaspettato ritorno dei sentimenti dopo tutta quella politica radicale. Dopo le lotte, le bombe, gli omicidi, i morti, l’attacco allo Stato, le manifestazioni violente, gli scioperi. Anche le corna, anche l’amore coniugale, anche i matrimoni sfasciati, rimossi negli anni della contestazione, tornavano ora a reclamare un po’ d’attenzione. “Non è ben chiaro come sia cominciato questo improvviso ritorno di fiamma che riporta l’attenzione sul personale e sul privato, a danno del politico e del pubblico” si leggeva in un editoriale di Epoca, “ma è probabile che sia stato innescato da ‘Scene da un matrimonio’ di Ingmar Bergman”. Fu quindi uno sfogo liberatorio epocale. Un diluvio di lettere ai giornali. Gente comune ansiosa di raccontare la propria storia, il dramma delle corna messe, ricevute o anche solo pensate. In mancanza di social, le mortificazioni della propria vita coniugale venivano date in pasto ai giornali (delle lettere ai giornali e del “travoltismo” come avvio del “riflusso” parla Paolo Morando in “Dancing Days”, un bel libro pubblicato qualche anno fa da Laterza).

 

Al Corriere arrivò la lettera di una casalinga disperata di Cinisello Balsamo. Raccontava la sua noia, l’impossibile convivenza con il marito, confessava il proprio adulterio e spifferava quello di tre quarti del proprio condominio. Soprattutto, reclamava l’attenzione della stampa: “Mi fate pena anche voi, cari giornalisti, che pensate che alla gente interessi solo l’elezione del Papa o quello che dice Andreotti”. A sinistra non c’erano dubbi: manovra diversiva della Dc. Per Repubblica, la sbornia italiana per “Scene da un matrimonio” era tutto un complotto per sviare l’attenzione dai “veri problemi”. Dietro questo revival del privato e del personale c’era “il Potere”. “Il fenomeno”, scriveva Enzo Forcella, “è politicamente preoccupante, dato che è appunto questo il brodo di cultura nel quale il potere democristiano ha in passato creato la propria forza”. Una manovra oscura. Una trattativa Stato-cornuti. La Dc che usava Bergman (da sempre un classico della distrazione di massa) come puntello per intontirci. Per allontanarci dai problemi reali. Altri invece chiedevano a gran voce, “Bergman a scuola”: “Sarebbe opportuno che ‘Scene da un matrimonio’ fosse oggetto di studio e dibattito nelle scuole, farebbe diminuire i delitti passionali e ragionare le persone”. Oggi invece puntiamo tutto su schwa e asterischi. Gli sceneggiati sono diventati serie tv da vedere anche nei Festival. Per il resto, non siamo poi così cambiati.

 

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