Nello Musumeci (Foto LaPresse)

Musumeci, il Baudo del Cav.

Marianna Rizzini

Missino intransigente ma democristiano dentro. Come il catanese Nello Musumeci ha imposto ad Arcore la sua candidatura alla Regione

A vederla dal Continente, la storia in divenire di Sebastianello Musumeci detto “Nello”, candidato alla presidenza della Regione Sicilia per il centrodestra con qualche mugugno presso Forza Italia ma anche con parallelo intento di concordia, può essere rappresentata dalla frase di un occhiuto osservatore catanese: “Non ai sondaggi dovete guardare, ma al fatto che tra i sostenitori di Musumeci – realtà o magnifica illusione che sia la sua futura vittoria – c’è chi, immaginandosi già assessore e volendosi portare avanti con il lavoro, sta facendo anzitempo i colloqui agli aspiranti collaboratori”.

 

Tuttavia sono stati i sondaggi a collocare Musumeci oltre il 30 per cento e davanti al candidato a Cinque Stelle Giancarlo Cancelleri, sospeso al momento dalla corsa per un intoppo legale a margine delle Regionarie via web, e a determinare lo sbriciolamento dell’ultimo mattoncino di perplessità presso il quartier generale di Silvio Berlusconi – che lo appoggia, sì, ma che inizialmente non era del tutto convinto dal candidato, forte nell’oratoria ma sconfitto nel 2012 nella corsa alla Regione, quando il centrodestra correva spaccato: di qua Musumeci, di là Gianfranco Miccichè. “Musumeci parla bene”, diceva di lui il leader di Forza Italia, aggiungendo però pur sempre qualche “ma…”. E anche se la leggenda vuole che un giorno Berlusconi, sentendo Musumeci arringare il pubblico a un comizio, se ne andasse per la piazza a chiedere ai politici autoctoni “ma dove l’avevate nascosto questo?”, una leggenda uguale e contraria dice che Musumeci, ex presidente della provincia di Catania negli anni (’90) della famosa “primavera” di Enzo Bianco, presentasse per così dire dei punti in curriculum non irresistibili per Silvio Berlusconi, allora detto Cavaliere. Il quale Cavaliere resisteva persino nell’invitare Musumeci ad Arcore.

 

Ma l’acqua sotto i ponti pur sempre passa, specie nella Sicilia in cui arrivò a nuoto un Beppe Grillo ancora arrembante, e in cui il centrodestra, memore della spaccatura che portò alla débâcle e alla vittoria dell’avversario di centrosinistra Rosario Crocetta, e incredulo per l’andatura favorevole e non soltanto siciliana dei sondaggi, non ha voglia di buttare a mare la possibilità di una corsa non fallimentare. Tantopiù che, dicono a Catania, c’è chi tra Palazzo Grazioli e Arcore, nel 2012, aveva soprannominato Musumeci, con motteggio non si sa quanto bonario, “Signor Ritenta sarai più fortunato”.

 

E insomma ora la convergenza sul nome Musumeci è cosa fatta, seppure in ticket con l’avvocato Gaetano Armao (inizialmente prediletto presso ampi settori di Forza Italia e poi bloccato dal niet di Giorgia Meloni e Matteo Salvini), nonostante il suo curriculum di destra-destra. Musumeci è stato infatti missino senza distinguo in gioventù (militante della “Giovane Italia”, ha mosso i primi passi politici come consigliere comunale, sorridendo ai compaesani anche di centro e di sinistra nella natìa Militello in Val di Catania, ma senza mai offendersi se qualcuno lo chiamava “fascistone”). Allo stesso modo, Musumeci è stato un non-finiano senza distinguo man mano che la carriera politica avanzava, motivo per cui, come ha scritto sul quotidiano La Sicilia Mario Barresi, a destra, a un certo punto, lo chiamavano “perdente di lusso… al posto sbagliato nel momento sbagliato… anti-finiano, anti-cuffariano e anti-lombardiano con Fini, Cuffaro e Lombardo all’apice del potere, e berlusconiano al crepuscolo del berlusconismo”. Tuttavia a Catania c’è chi, scrive Barresi, lo ricorda in altre, più trasversali vesti: intento, per esempio, a passeggiare lungo il corso di Militello e a stringere la mano ai comunisti “prima che ai suoi amici” o a cantare canzoni al karaoke con chi capitava. E, prima che diventasse bancario, suo lavoro extra-politico, i coetanei lo ascoltavano mentre leggeva “il telegiornale del sabato notte a Sirio 55”, con incrollabile aplomb, anche se “dopo dieci minuti di monoscopio” partivano i film porno.

 

Il suo segreto è “la coerenza”, dicono alcuni. Ma visto che la sua trasversalità pre e post missina si è fatta negli ultimi tre anni vera e propria bandiera – la sua azione ruota infatti attorno a “#Diventeràbellissima”, movimento civico che prende le mosse da una frase di Paolo Borsellino e mira a un consenso il più largo possibile e “dal basso” – c’è chi individua in Pippo Baudo, di Militello in Val di Catania come Musumeci, il forse inconsapevole modello del Musumeci medesimo: chi più del presentatore d’Italia, democristiano nel midollo e trasversale per indole ed eloquio, può insegnare con l’esempio al candidato quasi-unitario del centrodestra i segreti del saper piacere a chi, sulla carta, mai e poi mai ti manderebbe giù? “Baudo e Musumeci sono distantissimi politicamente”, dice un catanese, e Baudo stesso, interpellato sul tema, fa notare che, “non votando più in Sicilia”, non si occupa neanche lontanamente di queste cose.

 

Eppure il modello Baudo, giù a Catania, ha fatto scuola. Ed ecco, racconta un catanese, “il Musumeci che, dopo la sconfitta, piano piano e zitto zitto se ne va per i comuni di Sicilia a parlare con ‘la gente’, come dice lui, e a costruire un piccolo serbatoio di presunto ma solido consenso da presentare sul tavolo della trattativa”. Trattativa che è stata condotta da altri (a Roma o ad Arcore) mentre lui, Musumeci, diceva di voler andare da solo ma con il centrodestra possibilmente convergente, compreso Angelino Alfano, il quale poi la convergenza l’ha fatta sul candidato del Pd Fabrizio Micari, e compreso Miccichè (che avrebbe preferito come candidato presidente Gaetano Armao e che, ancora ad agosto, mandava a dire al duo Salvini-Meloni: Forza Italia è pronta a correre da sola come nel ’94). Parole che avevano fatto insorgere, dalla destra-destra, addirittura Francesco Storace, con videolettera diretta a Berlusconi: “La Sicilia aspetta di poter risorgere. E lo può fare solo con un gentiluomo: si chiama Nello Musumeci. Permettimi un suggerimento da un tuo vecchio amico: è arrivata l’ora di smetterla con tante, troppe trattative…”. Un mese dopo, ad accordo su Musumeci raggiunto, parlava, con sguardo più nazionale che locale, Maurizio Gasparri: “Il cantiere è quello di un centrodestra che vinca oggi in Sicilia e domani in Italia… in questo cantiere i veri operai sono quelli che non hanno mai cambiato casacca e non hanno mai oscillato”. Poi parlava a nuora perché suocera intendesse Ignazio la Russa: “… Devo ringraziare l’intelligenza di Berlusconi a cui raccontavo del radicamento di Nello Musumeci e del legame che ha con i siciliani… questo accordo mi sembra un viatico importante per le elezioni politiche…”. Poi parlava lo Stefano Parisi più centrista di “Energie per l’Italia”, che, intervistato dal Giornale, plaudeva “all’occasione da non sprecare”, anche in vista di un futuro “ritorno al governo del paese”. Infine parlava il leghista Roberto Maroni: “Bene che il centrodestra si ricompatti proprio in Sicilia”. E così il cerchio si chiudeva, in un certo senso, proprio nel momento in cui a Roma l’idea del listone unico di centrodestra non viveva giorni felici.

 

Ma la Sicilia è prodromo e conseguenza di tutto, come si è visto nel 2013 (elezioni Politiche) dopo la marcia serrata grillina nell’isola, con tanto di Beppe Grillo impegnato in una corsa alla Forrest Gump per le vie della costa, sotto gli occhi curiosi, anche se non ancora politicamente conquistati, degli avventori casuali dei comizi. Ed è dunque possibile che oggi, in tempi in cui al Movimento Cinque Stelle, in Sicilia e altrove, tocca uscire dalla realtà truculenta ma ovattata del blog, l’animo vetero-missino di Musumeci possa convivere, in prospettiva elettorale, con l’animo pippobaudista e con la dialettica ecumenica messa in campo dallo stesso candidato presidente.

 

“Bisognava forse capirlo prima, dove si andava a parare”, dice un osservatore locale, citando come indizio di trasversalismo “la piccola Leopolda di centrodestra in scena a Catania”. Allusione che rimanda alla “Festa delle idee”, kermesse che l’allora deputato all’Ars e non ancora candidato unico Musumeci aveva orchestrato alla Vecchia Dogana, nel settembre del 2015. E si era visto, allora, sotto l’Etna, il diavolo parlare letteralmente con l’acqua santa, in varie combinazioni (c’erano in cartellone, per esempio, il renziano Davide Faraone e il forzista Renato Schifani, ma anche il giovane filosofo amato dai complottisti Diego Fusaro, anticapitalista e antiliberista). E Musumeci, che era stato sconfitto nella corsa alla presidenza nel 2012 ma che dal 2012 si era portato avanti con la traversata nel deserto conseguente sconfitta politica, aveva fatto una prova generale di discorso programmatico, inanellando pensieri trasversalissimi nel discorso finale (durato, raccontano i presenti, “un’ora o forse anche un’ora e mezza”). Pensieri rivolti alla sanità siciliana da riformare ma pure al centro Cara di Mineo, “… caso politico e paradigma di un fallimento…: quello che doveva essere un centro temporaneo per l’emergenza è divenuto, con i governi Monti, Letta e Renzi, definitivo”. E Musumeci definiva infine la tre giorni di brainstorming trasversale catanese “una sfida vinta”, ché alla Vecchia Dogana si era sentita “voglia di politica alta, pulita e perbene”, perché “la gente” era “stanca di vivere in una condizione di smarrimento” e perché i soldati volenterosi di “#Diventeràbellissima” avevano incontrato per le vie assolate dell’isola, sul finire dell’estate, “lo sguardo compiacente e interessato” di chi non la pensava come loro. Non per niente, oggi, la portavoce di “#Diventeràbellissima” Giusy Savarino, ripercorrendo a ritroso il percorso fatto, dice che nel 2014, “anche visto il 40, 8 per cento del Pd di Renzi alle Europee”, si era deciso di “investire su una proposta politica alternativa, per cercare di ricostruire un rapporto di fiducia con i siciliani delusi”. Punto di partenza: “Il tour per l’isola, i corsi di formazione per i giovani e la Festa delle idee”. Dice Savarino che il movimento civico che si ispira alle parole di Borsellino “è cresciuto nella stima dei siciliani lavorando a mani nude e sottotraccia, negli anni bui di Crocetta, nella consapevolezza che nel 2012 il centrodestra spaccato aveva perso e nel timore che la classe dirigente si mettesse di traverso. Ma abbiamo, mi pare, vinto la scommessa”.

 

Sottotraccia, però, c’è chi sottolinea il fatto che l’ossessione per i codici etici e le liste pulite di Musumeci, uno che per anni ha vissuto sotto scorta e che fa del suo essere antimafia uno dei punti di forza della propria candidatura (è stato anche presidente della Commissione antimafia all’Ars), non può non cozzare, in fase di compilazione liste, “con le manovre di avvicinamento di qualche cambia-casacca non proprio da codice etico, pronto magari a tappezzare preventivamente di manifesti giganteschi i muri dei paesi costieri”, come dice un osservatore locale. Chissà. E però intanto sull’isola infuria la polemica sintetizzabile sotto il titolo “che cosa faranno gli ex lombardiani e gli ex cuffariani?”.

 

Ed è a questo punto della corsa, nel momento in cui la convergenza di tutto il centrodestra sul nome Musumeci non pare più un miraggio – nome di ex presidente della Provincia di Catania ma anche di ex europarlamentare ed ex Sottosegretario al Ministero del Lavoro (nel 2011, ultimo scorcio di governo Berlusconi) – che i catanesi riportano alla memoria i giorni in cui Enzo Bianco e Musumeci, alla presentazione del libro di Carlo Lo Re sulla primavera di Catania, si guardavano sorridendo e rievocavano i bei tempi andati: “Di quella stagione andrebbe ritrovata la sinergia tra le istituzioni, la voglia di farcela che si era costituita grazie a un sindaco combattivo e a un presidente galantuomo, ma adesso non so se posso ripeterla, devo valutare le mie energie”, diceva Bianco mentre un Musumeci di destra-destra, ma già con l’occhio all’elettorato mobile che non si incolla a un unico colore, parlava della cosiddetta riforma della “doppia scheda” che, all’Ars, nel 2011, aveva raccolto in teoria anche il favore del Pd: “… la chiave del mio successo e anche di Bianco è stata la doppia scheda, quella che nel 1997 è stata soppressa; entrambi riuscivamo a conquistare gli elettorati opposti. E’ grazie a quella riforma che gli uomini di governo potevano non farsi schiacciare dai partiti o rimanerne ostaggi… Anche se la contingenza è irripetibile, quel modello è invece riproponibile”. Poi faceva una pausa, per buttare lì una frase che, con il senno del poi, appare profetica anzichenò: “… Noi? Noi non siamo ancora candidati alla pensione…”.

Di più su questi argomenti:
  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.