Diego Velasquez, "La tunica di Giuseppe ebreo", 1630 (dettaglio)

Alla corte degli Asburgo: la Spagna e noi, nel Seicento

Marco Bona Castellotti

El siglo de l'arte italiana. Dipinti che andavano, pittori che venivano “Da Caravaggio a Bernini”, una mostra a Roma con i capolavori delle collezioni reali di Madrid

Visto con gli occhi di Velázquez e immortalato nella più sensazionale galleria di ritratti realizzata per il medesimo sovrano in età moderna, Filippo IV d’Asburgo, discendente in linea diretta da Carlo V, manifesta solitamente un’espressione più sonnolenta che da vispo sciupafemmine. E’ noto che il Cristo crocifisso dipinto da Velázquez intorno al 1632, quello – tanto per intenderci – con la ciocca di capelli che ricadono coprendo metà del visto del Salvatore, fu commissionato dal re al pittore sivigliano quale dono espiatorio al monastero delle benedettine di San Placido di Madrid, dove risiedeva una monaca con cui Filippo IV aveva intrattenuto un rapporto molto intimo. Nella lista delle donne amate dal sovrano, non ultima compare un’attrice celebre ai tempi suoi, tale Maria Inés Calderón soprannominata “la Calderona”, dalla quale il re aveva avuto un figlio, don Giovanni d’Austria, bastardo prontamente riconosciuto, cui il potente genitore assicurò una carriera a dir poco sfolgorante: da governatore generale delle Fiandre, a “principe del mare Oceano”, viceré di Napoli e della Sicilia, viceré della Catalogna a comandante in capo delle armate spagnole. Nel periodo di stanza del giovane monarca a Napoli, un eccellente pittore iberico di educazione caravaggesca, Jusepe de Ribera detto lo Spagnoletto, lo ritrasse a cavallo, poco più che sedicenne, a grandezza oltre il naturale, di prospetto, con lo scettro in mano ed elegantemente bardato per la circostanza della nomina a viceré. Come ogni ritratto equestre anche questo deriva liberamente dal prototipo del Marc’Aurelio in Campidoglio, la cui fortuna, nella storia dell’arte dal Medioevo in poi, fu maggiore di quella del Laocoonte, non solo perché questa statua di marmo fu rinvenuta nel 1506 mentre il Marc’Aurelio di bronzo non fu mai interrato, ma pure per la soluzione felicissima del destriero che procede al passo e della composta dignità del personaggio che lo monta.

   

La cultura seicentesca degli Asburgo è gremita di ritratti equestri; dallo splendido bronzo con Filippo IV su un destriero impennato, fuso da Francesco Mochi per il monumento di plaza de Oriente, alla sfilata delle cinque tele degli Asburgo a cavallo eseguite da Velázquez nel palazzo del Buen Ritiro a partire dagli anni Trenta del Seicento. Ribera aveva potuto certamente conoscere il Marc’Aurelio de visu durante il soggiorno a Roma, e averne preso ispirazione per il cavallone un po’ tozzo di don Giovanni, a metà fra il tipo del ronzino da scocca e quello da giostra. Data l’ufficialità, don Giovanni d’Austria appare incantato e vagamente basito. Sembra un manichino di cartapesta ritagliato. Tuttavia grazie al primo piano avanzato dell’animale e della persona e alla loro reciproca corrispondenza, nonché al fondale azzurrino del paesaggio con castel Sant’Elmo in lontananza e un braccio di mare solcato da qualche naviglio a vele spiegate, il quadro – come osserva Gabriele Finaldi – è d’indubbio fascino. La rigidità propria di un fotomontaggio si tempera nella luminosità che tutto avvolge, nella brillantezza del colore, nel generale clima di festa che si addice a un evento celebrativo. Ribera, per altro, tende più frequentemente al tragico-tenebroso. Lo attesta il gruppo di dipinti selezionati nella mostra intitolata “Da Caravaggio a Bernini. Capolavori del Seicento italiano nelle collezioni reali di Spagna” (Roma, Scuderie del Quirinale, sino al 30 luglio. Catalogo edizioni Skira). Il termine “italiano” non va preso alla lettera, essendovi anche opere di pittura e di scultura di artisti italiani soltanto d’adozione, specialmente romana e napoletana; le “collezioni reali” sono quelle di pertinenza del Patrimonio Nacional, istituito nell’Ottocento a tutela dell’immenso complesso di dipinti e sculture dislocati in sedi diverse dal museo del Prado, vedi il palazzo Reale di Madrid, il monastero de las Descalzas Reales, il convento dei Capuchinos, il monastero di San Lorenzo all’Escorial e il palazzo del Pardo.

Allestimento della mostra "Da Caravaggio a Bernini" (foto scuderiequirinale.it)


Fra gli artisti non italiani nella mostra sono rappresentati il francese Charles Mellin, che a Roma affrescò una cappella in San Luigi, con i magnifici Santo Stefano protomartire e San Lorenzo diacono, e Charles Le Brun, presunto autore di un Cristo morto oggi nel palazzo Real de Aranjuez. Ribera era uno spagnolo nativo di Játiva che lavorò assiduamente a Napoli. Oltre al ritratto equestre, di Ribera sono stati scelti il San Girolamo penitente del Real monastero di San Lorenzo all’Escorial, descritto come un san Girolamo “enfermo y estenuado”, che per sollevarsi si aggrappa a una corda. Nell’atmosfera di drammatica ma concreta sospensione il quadro evoca Zurbaran; e il Giacobbe con il gregge di Labano che, nell’intensità del chiaroscuro, è testimone dell’estro di Ribera di riprendere Caravaggio non da semplice imitatore. Spagnolo è Velázquez, qui presente con uno dei vertici della sua pittura: la Tunica di Giuseppe ebreo, già esposta alla galleria Borghese nel 1999, da taluni ritenuta conclusa o almeno iniziata dal pittore sivigliano nel corso del primo viaggio in Italia (1629-’30), da altri assegnata al momento del ritorno in patria, quando il sivigliano fa risplendere nei suoi quadri i frutti del fecondo tour italiano che lo aveva portato probabilmente a Roma,Venezia e secondo taluni a Milano. Nella Tunica di Giuseppe ebreo si ravvisano tracce della pittura veneziana ed emiliana, in particolare di Guercino, come si nota nell’espressione sgomenta del vecchio Giacobbe alla vista della veste insanguinata di Giuseppe, ostentatagli dai fratelli per far credere all’anziano padre che il figlio prediletto fosse morto, inganno dettato dalla gelosia e dall’invidia. Il patriarca non se ne rende conto, mentre il cagnolino che abbaia parrebbe avvertire qualcosa. Velázquez attualizza la verità dell’episodio biblico alla luce di uno scavo psicologico degli atteggiamenti e degli affetti concepito in chiave realistica e rivissuto nella recitazione corale. Contemporaneamente riversa la maestà della cultura classica che aveva respirato a Roma nel corpo statuario del pastore volto di spalle.

  

Nei due viaggi in Italia, distanti fra lo loro un ventennio, Velázquez aveva attinto alle antichità archeologiche e all’arte italiana, traducendola, in alcuni, casi, in puntuali citazioni. Da Guercino aveva assimilato una certa vena sentimentale, che riconosciamo in un capolavoro del pittore di Cento esposto nella mostra e conservato nel Real monastero di San Lorenzo di Madrid: il Lot con le figlie fuggiti da Sodoma. La storia narra che al fine di “perpetuare la stirpe” le figlie di Lot si erano “congiunte carnalmente” con il padre, dopo averlo ubriacato. Insieme alla Susanna e i vecchioni, altra vicenda biblica dai risvolti equivocabili, e alla Conversione di Saulo di Guido Reni oggi nel Palazzo reale di Madrid, stupefacente capolavoro dimenticato e ora riscoperto, il Lot e le figlie apparteneva in origine alla collezione del cardinal Ludovico Ludovisi, nipote del Papa Gregorio XV, ed era custodito nella villa Ludovisi al Pincio. Alla morte del cardinale villa e arredi passarono al nipote Niccolò Ludovisi principe di Piombino che, per testamento, lasciò sei dipinti in eredità a Filippo IV. Raggiunsero la Spagna quasi in simultanea con il decesso del sovrano.

  

La Conversione di Saulo è uno dei vertici di Guido Reni che, affrontando il tema della caduta di Saulo da cavallo lungo la via di Damasco, avrebbe dovuto destreggiarsi fra celebri precedenti bolognesi e romani, a cominciar dalla versione dello stesso soggetto realizzata dall’odiato Caravaggio in Santa Maria del Popolo. Fu premura di Guido interpretare l’episodio narrato negli Atti degli apostoli in modo tale da mantenere le distanze dal naturalismo caravaggesco senza però scadere in una retorica di stampo accademico. L’evento della conversione è denso di particolari di cui i pittori tengono conto ad libitum. Da un lato indugiano sull’osservanza storica del racconto, dall’altro valorizzano il respiro soprannaturale che permea la conversione di Saulo. La divergenza tra Guido e Caravaggio non era esclusivamente stilistica ma intellettuale, ciononostante, benché Reni si fosse formato in ambiente bolognese, agli esordi del periodo romano, vale a dire nei primissimi anni del Seicento, non era rimasto immune dalle radiazioni delle novità caravaggesche, dalle quali era pressoché impossibile prescindere, pena mantenersi su posizioni di un conservatorismo retrivo e asfittico, indegno di un maestro della sua levatura. Una concezione troppo idealizzata della conversione dell’apostolo delle genti rischiava tuttavia di essere antitetica al fervore e alla spiritualità di Saulo che, in seguito all’abbagliante e sonora visione, rimase cieco tre giorni, e poi, quando riaprì gli occhi, era persona radicalmente mutata, cosa risaputa. Nel secondo decennio del XVII secolo, al tempo di questo meraviglioso quadro, Guido Reni aveva ormai imboccato la strada della poetica del bello ideale, che verrà teorizzata dal grande Giovan Pietro Bellori nel 1672 (non nel 1674). Trattando il tema della conversione, Guido risolve il problema della verità dell’evento nell’esaltazione di una declamazione prospettica. Saulo cade a terra con sensibile clangore; il cavallo si innalza quasi con ira verso lo squarcio che si apre nel cielo. L’idealizzazione consiste nella “artificiosità della posa e nell’irrealismo della gamma cromatica”, giocata sul contrasto di giallo, rosso e verde, e nella “qualità straordinariamente luminosa e cristallina della pennellata” (Benati). Pur lontanissimo dai contrappunti di luci e ombre altamente drammatici di Caravaggio e dalla introspezione in cui Caravaggio fa precipitare Saulo sbalzato e accecato, il dipinto di Guido Reni mantiene una certa dose di realismo nella nettezza dei contorni evidenziati da una luce tersa, simile a quella che circola dopo un temporale primaverile.

  

Reni, Guercino, Ribera, Barocci sono nomi altisonanti, ma alla ribalta del titolo della mostra spiccano quelli di Caravaggio e di Bernini. Lo stupefacente Crocifisso di bronzo di Gian Lorenzo Bernini è una vera eccezione, anche in considerazione del fatto che è la sola opera berniniana “a essere stata commissionata dall’estero e che sia uscita dall’Italia prima del 1685” (Montanari). Domenico Bernini, figlio e biografo di Gian Lorenzo, ne parla: “Filippo Quarto re della Spagna li (gli) richiese et hebbe un Crocifisso di bronzo più grande del naturale, che collocò nella gran cappella dei sepolcri dei re, e ne ricevé una gran collana d’oro per honorarlo”. Se del Crocifisso si posseggono notizie, incerta è la provenienza della Salome con la testa del Battista di Caravaggio che, in una scala dei valori, non è paragonabile al bronzo di Bernini. E’ un’opera molto bella ma nel corpus caravaggesco minore. La critica seguiterà a palleggiarla tra il primo e il secondo periodo napoletano di Caravaggio fino a che non uscirà qualche documento a mettere ordine. Incerto è anche l’arrivo del dipinto in Spagna, benché gli studi lo identifichino quasi sicuramente con la “degollación de San Juan con la mujer (donna) che rrecive (riceve) la caveza (testa) del santo”, menzionata nell’inventario, del 1657, della collezione del conte de Castrillo, viceré di Napoli, trasferita in blocco in Spagna lo stesso anno. La storia del dipinto, oggi nel Palazzo reale di Madrid, è narrata puntigliosamente da Cristina Terzaghi nel catalogo. Per inciso va notata la somiglianza della stesura pittorica del volto della vecchia che guarda con commiserazione la testa sul vassoio e di quello della serva che aveva fatto da scorta a Giuditta, quando l’eroina s’era presa la briga di decapitare Oloferne, di un dipinto rimasto in esposizione alcuni mesi or sono nella pinacoteca di Brera di Milano, oggetto di concitate discussioni critiche. La somiglianza a una prima occhiata è innegabile, ma ad aguzzare lo sguardo difforme risulta la caratterizzazione fisiognomica delle due signore: l’una, quella della “degollación” di Madrid, dura, aspra, dolente e vera, l’altra, della Giuditta di proprietà privata, eccessivamente stupita.

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