La musica davanti alle camere a gas

Le sonate all'inferno dei condannati a morte nei lager

Giulio Meotti

Il pianista Francesco Lotoro ha ritrovato ottomila spartiti di artisti passati dai lager e dai gulag. “Erano come quei cristiani che cantavano nel Colosseo prima di essere sbranati dai leoni”

Quando gli fu chiesto di sintetizzare il rapporto fra la musica e la Shoah, il grande critico culturale tedesco Theodor W. Adorno disse: “Hitler e la Nona (sinfonia di Beethoven, ndr): milioni che si abbracciano”. Con questa frase, Adorno voleva indicare la “Haine de la musique”, l’odio della musica come è stato definito dal francese Pascal Quignard, gli usi “malvagi” delle sette note, dalla fanfara, con cui i nazisti si impadroniscono di Primo Levi e delle “anime morte” di Auschwitz, ai cembali che incatenavano gli adepti durante i riti misterici latini e greci. Da trent’anni c’è un musicista italiano, il pianista Francesco Lotoro, che si è posto l’obiettivo di salvare la musica prodotta in quell’inferno. Sono le note uscite dall’universo concentrazionario del Novecento, lager nazisti e gulag comunisti. Uno splendido film sull’avventura di Lotoro, “The maestro”, è da poco uscito per la regia di Alexander Valenti.

 

“Ho iniziato per passione e voglia di esplorare territori nuovi, come ogni musicista”, dice al Foglio il maestro Lotoro. “E non smetterò mai, farò questo fino alla fine dei miei giorni. Ero a Tel Aviv quando mi chiesero di eseguire la Sonata di Gideon Klein, composta nel lager di Terezín. Iniziai a cercare, fino a incontrare la sorella, Eliska”. Questa pianista aveva appena trovato un’intera scatola di spartiti composti dal fratello durante la prigionia. E diede a Francesco una pergamena color sigaro, un rotolo di carta vellutato annerito con una stilografica dalla punta fine su un supporto di pentagramma prestampato: la sonata di Gideon, composta il 23 ottobre 1943 a Terezín. E’ l’inizio di un viaggio angosciante e strepitoso. “E poi Emil Goué, francese, professore di fisica, che sopravvisse e tornò a insegnare, ma morì per una malattia contratta nel campo. Il figlio, che vive a Parigi, mi ha consegnato le sue opere. Ho iniziato nel 1998, avevo venticinque anni. In Italia all’epoca c’era il Dizionario della musica Utet, che usai per ricostruire alcuni nomi. Da allora ho trovato ottomila partiture. Conservo tutto in due case a Barletta”.

 

Casa Lotoro è, infatti, la più grande biblioteca mondiale della musica scritta nei campi di concentramento. Le scatole vi si ammucchiano, gonfie di spartiti. Sulle etichette: “Praga”, “Berlino”, “Brno”. E poi “Goué”, “Kropinski”, “Ullman”. Sulla fila superiore: “Terezín”, “Dachau”, “Auschwitz”. “Ma spero finiscano presto in una cittadella della musica finanziata dal governo, dalla regione e dai privati”. Lotoro registra un primo disco al pianoforte, distribuito in Francia con il titolo “Les musiciens martyres de l’Holocauste” (I musicisti martiri dell’Olocausto). Ma non si ferma lì. Diventa un’ossessione per lui.

 

Nella Partita per orchestra di Gideon Klein, prodigio praghese ucciso ventiseienne ad Auschwitz con un colpo di pistola, spira un’ansia ossessiva. Come anche nella Secopnda sinfonia di Viktor Ullmann, melodia tristissima che vaga senza meta, raggelando il cuore. Appena arrivati ad Auschwitz, Ullman e la moglie sfilano davanti al dottor Mengele, che decreta la loro morte con un gesto della mano. Quella stessa tristezza, da non confondere con l’impotenza, si sente nella voce e nello sguardo di Lotoro, la cui mente è popolata di figure scomparse (per chi volesse sostenere il suo lavoro, c’è una onlus, Last Musik, che ne finanzia il progetto, i viaggi per tutta l’Europa, in Israele, in America latina).

 

La casa di Lotoro è il più grande archivio mondiale della musica concentrazionaria. Iniziò in Israele con la Sonata di Gideon Klein

Lotoro, che insegna al conservatorio di Foggia, ha redatto l’Enciclopedia discografica della musica concentrazionaria, che riunisce in 24 cd la musica prodotta nei campi fra il 1933 e il 1945. E’ un pianista missionario che si è convertito dal cattolicesimo all’ebraismo, scoprendo poi di avere un bisnonno ebreo. Le canzoni di Lotoro saranno eseguite a fine maggio a Roma e al Piccolo di Milano da Ute Lemper.

 

“La musica dei campi ha trovato strade impensabili. Jack Garfein, emigrò in America dove sposò Carroll Becker. Era nel lager dove un amico gli cantò una canzone prima di andare alla morte e lui la utilizzò dopo la guerra. C’è chi ha visto l’Europa in un marciapiede di Vienna, c’è chi cantava l’Inno alla gioia di Beeethoven in faccia a un soldato tedesco, umiliandolo. Il 29 maggio 1938 a Vienna sulla banchina del treno per Dachau Herbert Zipper intonò l’Ode An die Freude di Beethoven. Nacque allora l’Unione europea. Quei musicisti dovevano fare testamento, consegnare quello che avevano. Nella Guerra civile spagnola si sentivano canzoni concepite tre anni prima a Dachau. Nel film ‘Shoah’ di Claude Lanzmann si vede una SS, Franz Suchomel, che canta una musica di Hermann Leopoldi che era stata scritta a Buchenwald e intonata dalle SS di Treblinka. Ho trovato musica anche nei campi di sterminio, come Sobibor, dove c’erano due violini, due flauti e due fisarmoniche. Mi sono messo alla ricerca di Erwin Schulhoff, della sua sinfonia numero otto, morto di tubercolosi nel 1942. Si era fermato ma si capiva dove stava andando, così l’ho ricostruita. Scrissi a Josef Beck, il grande musicologo, che mi mise in contatto con il figlio di Schulhoff, Petr. Viktor Ullmann aveva avuto una visione nel lager. ‘Non ci siamo seduti sui fiumi di Babilonia’, diceva. ‘Abbiamo messo ordine nel caos’”. L’11 marzo 2011, nella chiesa di Sant’Antonio a Barletta, Lotoro dirige in prima mondiale la versione originale del Kaiser von Atlantis, il capolavoro di Ullman composto nel campo.

 

La musica nei campi fu persino innovativa. “Nei campi gli strumenti erano limitati e si doveva rivoluzionare la musica. Il lager nella sua tragicità e nella potente trasformazione concettuale che il musicista opera su di esso diventò l’ultima Bayreuth e la prima Darmstadt del linguaggio musicale del Novecento. Con un flauto e due violini componevano qualcosa di nuovo. A Birkenau c’era tutto tranne il contrappasso. Se in un campo di concentramento prendi la ghiera di una bomba, la agganci a una pelle di coniglio, monti un’asta di legno ricavata da una panchina, tiri su di essa i fili dei freni di una jeep, prendi il dorso di un pettine per stendere le corde e lo rinforzi con un pezzo di gamella, cosa ottieni? Un mandolino a forma di banjo”.

 

Lotoro fa notare un tragico paradosso. “Ad Auschwitz si faceva più musica nei blocchi dove si moriva di più. Adolf Eichmann applaudì all’esecuzione del Requiem di Verdi a Terezín. La musica non è estetica, ma azione. Come i cristiani che cantavano nel Colosseo prima di essere sbranati dai leoni. La musica ha ideologicamente distrutto il Terzo Reich. Il block cinque a Birkenau è sulla strada dove si passava per andare alla camera a gas. Simon Laks lo scrive che suonavano all’aperto. Andai a Birkenau e dissi alla funzionaria di controllare. Mi diede ragione”.

 

"Karel componeva sulla carta igienica, poi faceva uscire la sua musica di nascosto. Morì dopo una notte passata al freddo"

Lotoro ha trovato anche storie incredibili. “Come Ilse Weber, che finì a Birkenau. Era musicista, scrittrice, poetessa. Il marito nascose le opere della moglie nel maneggio di Terezín prima di partire per la morte. Ilse volle accompagnare i bambini nelle camere a gas. Disse loro di respirare profondamente, così non avrebbero sofferto. Fece un atto eroico, ma scrisse anche delle canzoni di musica leggera che sono dei gioielli. A Birkenau un’orchestrina accoglieva i convogli destinati alla gasazione. Era una strategia psicologica per celare quanto sarebbe successo. Dopo la gasazione gli addetti militari, uomini e donne, andavano nella sala prove e chiedevano Schumann e Grieg per rilassarsi. Nella camere a gas veniva intonato l’Ani Ma’amin, ‘io credo con forza che arriverà il Messia’”.

 

La musica era anche rivolta. “Chi condusse la rivolta a Sobibor, ordinando di squarciare i reticolati e facendo fuggire i deportati? Il musicista ebreo ucraino Alexandr Aronovič Pečerskij, detto Saša. Chi nel giugno 1945 si mise a capo degli ex deportati di Terezín? Il pianista e musicologo ceco Vaclav Holzknecht. Chi inviò fuori dal lager di Sachsenhausen messaggi su cartoline nelle quali alcune sillabe erano appositamente scritte in tedesco errato, rivelando in piena guerra esperimenti medici sul vaiolo compiuti sui detenuti politici nonché la sorte riservata a ebrei e prigionieri di guerra sovietici? Il cantante e compositore polacco Aleksander Kulisiewicz che immagazzinò nel cervello 770 canzoni create dai suoi compagni ripetendole sottovoce tra le labbra per non dimenticarle. O come i coristi di Mauthausen che dopo una esecuzione capitale all’appello intonarono un travolgente ‘Hymn an das Leben’ in faccia al carnefice annientandolo umanamente e ideologicamente. O Ignacy Paderewski che dopo l’occupazione tedesca della Polonia nel 1939 divenne presidente del Parlamento polacco in esilio a Londra e diede numerosi concerti pianistici nel mondo raccogliendo fondi per la causa polacca”.

 

Eppure, si sono perse tante musiche nei lager. “Di Franz Klein, che scrisse un’opera in tre atti, ci è arrivata solo l’introduzione. Fu ucciso ad Auschwitz e la sua opera è andata perduta. Dal campo di Chelmno non è rimasto nulla. Di Ullman si sono perse le quattro cadenze scritte per i concerti di Beethoven”.

 

Perché comporre in una simile situazione? "Dovevano fare testamento, lasciando quello che avevano. La loro musica"

Lotoro non ricerca solo musica ebraica. “Nei campi dove c’erano cristiani si componevano le ‘szokpa’, la musica natalizia polacca. Ho trovato tanta musica cristiana, di monaci, di preti. Dachau fu l’epicentro della musica religiosa cristiana concentrazionaria, vi entrarono 2.579 sacerdoti, vescovi e monaci ma anche 109 pastori evangelici, 22 prelati greco–ortodossi e altri della chiesa riformata e veterocattolica; di essi, 1.034 morirono per inedia, malattia, impiccagione, fucilazione o crocifissi a testa in giù, 300 di essi subirono esperimenti medici o perirono sotto tortura”.

 

Si scriveva musica ovunque si poteva. “Sui fogli di quaderno, sui giornali, sulle lastre a raggi X, sulla carta igienica. Josef Kropinski, soldato polacco, finisce ad Auschwitz, dove diventa il primo violino, poi a Buchenwald, dove di notte va a comporre nella stanza della vivisezione dei cadaveri. C’era tanfo, così i soldati non lo disturbavano. E’ difficile immaginare un uomo che si chiude in una stanza a fare musica mentre l’altra stanza è piena di cadaveri. Nella camera di dissezione i laboratoristi analizzano i cadaveri, incidono l’epidermide, estraggono gli organi, studiano le reazioni delle loro cavie ai test d’esplosione delle granate e a ogni genere di virus e veleni. Il materiale prelevato viene poi inoltrato all’accademia medica di Graz o all’istituto di igiene di Berlino per un’analisi più approfondita. I camici bianchi di Buchenwald recuperano dai cadaveri anche tutto ciò che può avere un valore: i denti d’oro, ma anche la pelle. Divenne persino una ‘specialità’ locale: lavorare la pelle conciata per confezionare portamonete, abat-jour, guanti o copertine di libri offerti ai visitatori di riguardo. Alla luce di una candela, il musicista ventinovenne scrive quella che saràl’opera più ricca mai ritrovata nei campi. Impermeabile all’odore della morte, Kropinski riempie uno spartito dopo l’altro. Come in un processo di fotosintesi clorofilliana, Kropinski trasformava il carbone in ossigeno. Alla Liberazione si mise in marcia da Weimar a Monaco, ma a causa del freddo bruciò per scaldarsi le sue opere. Di 440 opere ce ne restano 117. E un violino. Voleva bruciare pure quello”.

 

Dopo la guerra, Kropinski non compone più un solo pezzo. I cinque anni di internamento hanno indebolito il suo cuore e lasciato postumi neurologici irreversibili. Non avendo potuto convalidare il diploma del conservatorio nel 1940, non potrà aspirare a un posto come professore di ruolo. Soprattutto, si rende conto che comporre musica non è più vitale come era al campo. Ormai è muto davanti al foglio bianco. Va a vivere a Wrocław, impiegato nell’amministrazione di una cooperativa agricola, suonerà il violino soltanto in famiglia, o a casa degli amici superstiti. In vita non riceverà mai alcun riconoscimento per la sua opera.

 

"Viktor Ullman, ucciso ad Auschwitz, diceva: 'Non ci siamo seduti sui fiumi di Babilonia. Abbiamo messo ordine al caos"

Lotoro si mette sulle stracce di Rudolf Karel. “Insegnante di composizione, resistente, imprigionato a San Pancrazio a Praga, un luogo maledetto. Aveva la dissenteria ma scrisse intere opere, fra cui il ‘Nonet’, con dei pezzi di carbone appuntiti con cui si curava. Da prigioniero politico non poteva scrivere, così arrotolava i fogli nella biancheria, per farli uscire dal carcere. Morì di ipotermia dopo essere stato costretto a stare al gelo per una notte. A Westerbork Hans Krieg scrisse canti per l’accensione dei lumi a Channukkà mentre, l’ebreo olandese Hans von Collem compose Psalm 100 sul terriccio del campo di patate dove svolgeva i lavori forzati e poi lo stese su carta igienica. La domenica successiva, approfittando dell’assenza delle guardie, lo eseguì con un coro nelle latrine della colonia. Mi occupo anche di Gulag, della Vorkuta, dei campi comunisti dell’Nkvd, dove c’era il mastino ideologico ma non la camera a gas. L’arco cronologico da me scelto va dal 1933 al 1953, la morte di Stalin. I più grandi lì furono Protopopov, Mossolof, Nozirief. Ho viaggiato in quindici nazioni e incontrato duecento sopravvissuti”.

 

Nell’inverno tra 1940 e 1941, Olivier Messiaen era in un lager tedesco. Parigino di fatto anche se era nato ad Avignone, organista e compositore, aveva 32 anni e godeva già di buona fama. Messiaen ottenne carta pentagrammata e matite e cominciò a scrìvere sotto l’urgenza di una ispirazione irrefrenabile. Nacque il Quatuor pour la fin du temps (Quartetto per la fine del tempo, capolavoro della musica da camera).

 

Che senso ha ricercare tutto questo? “Dove la vita cessa di essere fisica procede sul piano intellettuale e spirituale”, continua Lotoro. Schopenhauer riconobbe l’unicità della musica giungendo ad affermare la sua indipendenza dal mondo fenomenico, tanto che “potrebbe sussistere anche se il mondo non esistesse più”. “Ma l’opera muore se non la esegui”, conclude Lotoro. “Nell’ebraismo la memoria vive se la ricordi. Ma non è solo Pompei, è Pompei più la biblioteca di Alessandria che vuole diventare Bayreuth e la Scala. Ancora siamo a Pompei, a ricostruire tutto, scavando negli archivi, parlando con i sopravvissuti, le famiglie. Sulla banchina delle stazioni in attesa della deportazione e negli stessi treni, i prigionieri hanno cantato e suonato; a Birkenau condotti alla gasazione, hanno cantato; a dispetto delle sirene serali che nei lager imponevano silenzio e coprifuoco, i deportati cantavano dalle finestre. Viktor Ullman diceva: ‘Più avevamo voglia di vivere, più avevamo voglia di fare musica’”.

 

Come nel finale dell’opera Der Kaiser von Atlantis scritta a Theresienstadt da Ullmann, quando parafrasando il comandamento della Torah, i cantanti intoneranno: “Du sollst den großen Namen Tod nicht eitel beschwören”. Non dovrai mai nominare il nome della Morte invano. E in ebraico: “Bemotàm zivu lanu et hachaim”. Con la loro morte ci hanno comandato la vita.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.