Un laboratorio dello Shenkar College. Una storica dell’arte, Leah Perez-Recanati, dirige il dipartimento di moda

Israeli fashion

Fabiana Giacomotti

La settimana della moda a Tel Aviv e una scuola che è fabbrica di talenti. C’era una volta il sarto ebreo: l’archetipo si è evoluto

Dieci anni fa, Victor Bellaish lasciò la direzione creativa di Roberto Cavalli, all’epoca al vertice del glamour internazionale, per tornare in Israele. Laureato dello Shenkar College, era arrivato in Europa cinque anni prima da vincitore del concorso Mittelmoda ed era già talmente disgustato del mondo della moda da non volervi più avere a che fare. Anticipando una lunghissima serie di abbandoni di cui l’ultimo è stato quello di Rodolfo Paglialunga da Jil Sander, due giorni fa, dichiarò di volersi dedicare alla pittura e alla scultura, e a nord del Mediterraneo nessuno sentì più parlare di lui. Il 12 marzo 2017 Victor, per gli amici “Vivi” secondo la stessa tecnica di sillabazione affettuosa e snob in uso in Israele per la quale un primo ministro si fa chiamare universalmente Bibi e che noi milanesi comprendiamo benissimo, ha aperto con una piccola ed eccellente collezione sartoriale le sfilate della quinta fashion week di Tel Aviv. La moda è tornata a piacergli, purché in dimensione umana: ha un piccolo atelier dalle parti della grande sinagoga di Allenby, due sarte di origine russa, qualche stagista; tinge, invecchia e rielabora i tessuti che trova, perché da queste parti approvvigionarsi di stoffe di alta qualità a prezzo accettabile è difficilissimo, e dunque nelle piccole boutique che quasi tutti gli stilisti anche alle prime armi aprono si trovano capi meravigliosi perché realizzati grazie alla tecnica del riciclo, del ricamo, della scomposizione e della rielaborazione, quando non grazie all’invenzione vera e propria di nuovi filati e mescole. Gli stilisti meno bravi, o che puntano a una produzione più commerciale e di prezzo abbordabile, cioè non di couture, producono in Turchia. Qualcuno nella striscia di Gaza, dove esistono dichiaratamente laboratori di alta qualità e, soprattutto, programmi governativi ed europei volti a favorirne lo sviluppo, nell’ovvia ottica della pacificazione.

 

Nelle piccole boutique che quasi tutti gli stilisti aprono si trovano capi meravigliosi, realizzati grazie alla tecnica del riciclo e del ricamo

Argomento delicato: la moda è tornata a essere un argomento di interesse generale da quando la barriera fra Israele e la striscia di Gaza è stata rafforzata e il rischio di attentati è drasticamente diminuito, ma i nuovi stilisti cercano spazi e atelier di preferenza a Jaffa, il vecchio quartiere arabo, dove la multiculturalità è diventata valore aggiunto. Fra pochi giorni, vi aprirà la prima boutique la coppia di giovani, lei deliziosa e già in attesa del primo figlio, che sta lanciando la linea di casualwear Holyland Civilians e che ha entusiasmato giornalisti e compratori internazionali arrivati a Tel Aviv per la settimana della moda. Dividono gli spazi e le spese con una creatrice di gioielli: producono poco in Israele, molto in Turchia. Realizzano tutti i prototipi con le proprie mani. Arrivano, anche loro e va da sé, dalla disciplina dello Shenkar. “We are good out of deprivation”: siamo bravi per necessità, dice Leah Perez-Recanati, una storica dell’arte dagli occhi verdissimi e la risata squillante che è tornata a capo del dipartimento di moda dello Shenkar College e in Israele una decina di anni fa, dopo un periodo in Colombia come moglie dell’ambasciatore Yair Recanati, e che in un periodo relativamente breve lo ha portato ai vertici della classifica accademica mondiale.

 

Se nelle università italiane l’interdisciplinarietà significa affiancare storia della moda ed economia aziendale nel programma di studi dello stesso corso senza che nessuno dei due docenti incaricati miri a prevaricare sull’altro e gli studenti si facciano un’idea di come giri il mondo fuori dalle aule, allo Shenkar la trasversalità prevede che il docente di fisica sperimenti l’effetto della trasmissione dell’elettricità corporea sui tessuti insieme con gli studenti di moda senza sentirsi offeso nell’amor proprio, e una mattina mi sono trovata a fare la catena umana con quattro ragazzi al fine di verificarlo. Fra i corridoi e gli spazi comuni vi sono cucine e spazi per il riposo, che può anche svolgersi in classe quando si avvicina il momento della sfilata di fine anno e il tempo per cucire, tagliare, rifinire, dipingere sembra non bastare mai: ”Una sera Alber Elbaz, uno dei migliori fra i nostri studenti di tutti i tempi (per oltre un decennio ha guidato il rilancio di Lanvin, nda), mi disse che, al di là della didattica e della motivazione, avrei dovuto far sognare i miei studenti. Tornata in università a tarda notte, li trovai che dormivano tutti nei sacchi a pelo. Gli mandai la foto: “Hai visto che li faccio sognare?”. Alla fashion week, questo corpo d’eccellenza della creatività trasversale e disciplinatissima ha portato un piccolo saggio, comprensivo di una camicia maschile stampata centinaia di volte, ironicamente, rabbiosamente, con il versetto più controverso della preghiera del mattino per questi nostri tempi sessualmente interlocutori: “Benedetto tu o Signore Nostro D. re del mondo che non mi hai fatto donna”. In Israele, o per meglio dire a Tel Aviv, il tema della trasversalità di genere è guardato quasi più con interesse sociologico che di passerelle, e le polemiche attualmente in corso sull’accesso delle donne alle cariche religiose e sulla percentuale in aumento di studiosi delle yeshivot ketanot mantenuti dallo stato si sentono relativamente poco. Quello che si sente moltissimo è piuttosto la spinta verso l’internazionalizzazione. Israele punta a qualificarsi come meta turistica d’eccellenza, aperta e senza pregiudizi razziali o di orientamento sessuale: sulla prima parte sta lavorando. Sulla seconda e la terza è già una star con una sua icona, il capitano della Israel Air Force Adir Gabbai, scelto dallo stato come testimonial del Family Day insieme con il marito Dean. La moda ne è il link perfetto, sebbene sia ancora in rodaggio e non potrebbe essere altrimenti, nonostante la fama internazionale del produttore della Fashion Week, l’ex modello Motty Reif. Cinque anni sono pochissimi per affermarsi in un mercato competitivo come quello dello stile, e nonostante il sarto ebreo sia un archetipo, prima ancora che una figura letteraria, in Israele non è ancora ipotizzabile che la scomparsa di un nome dell’alta sartoria ottenga intere pagine sui quotidiani come è accaduto la settimana scorsa in Italia per Enrico Isaia, maestro di eleganza maschile e di scuola sartoriale, il cui atelier alle porte di Napoli, nonostante le dimensioni ben diverse di fatturato e di riconoscibilità nel mondo da un secolo, ricorda tuttora questi ragazzi chini a rifilare un orlo o a rifinire un occhiello con il sorriso orgoglioso sulle labbra.

 

Si cercano atelier di preferenza a Jaffa, il quartiere arabo di Tel Aviv, dove la multiculturalità è diventata valore aggiunto

La Gindi Fashion Week, con i suoi tre giorni di sfilate e presentazioni, non ha dunque ancora superato la fase sperimentale, e la mancanza di una filiera produttiva di supporto è più che evidente. Le idee non mancano; manca chi sappia trasformarle in un modello riproducibile. I dati sulle esportazioni italiane in Israele forniti da Massimiliano Guido dall’ufficio dell’Ice di Tel Aviv evidenziano la portata della questione: su due miliardi e mezzo di export italiano nel paese nel 2016, in leggera crescita rispetto all’anno precedente, abbigliamento e articoli in pelle hanno fatto un balzo in avanti dell’8,7 per cento, a quasi centosette milioni di euro. La moda inizia a piacere, ma piace prodotta e targata altrove. Due anni fa, Missoni sfilò alla Fashion Week e Tel Aviv ne parlò per settimane. Quello di Motty Reif è dunque il volenteroso tentativo di dare una dimensione e un’attrazione internazionale a una nazione che manda nel mondo alcuni fra i migliori talenti creativi perché non ha più una produzione in grado di sostenerli adeguatamente in patria. Ognuno ha la quota di cervelli in fuga che gli spetta, e se i bioingegneri faticano a trovare adeguata occupazione in Italia, qui sono i sarti a sperare in un futuro migliore.

 

Per accedere al programma di sfilate e presentazioni, gli stilisti invitati alla Fashion Week investono una cifra davvero modesta per gli standard occidentali, circa diecimila euro, ma talvolta nemmeno uno shekel, grazie al supporto di una serie di sponsor come la famiglia Gindi, un pezzo da novanta del retail mondiale da oltre un secolo (avete presente la catena americana Century21 divenuta simbolo della ricostruzione post 11 settembre?), che vi investe 2 milioni di euro all’anno e ne regola tempi, modi e impostazione con piglio autocratico. Quest’ultima edizione, che avrebbe dovuto tenersi a settembre, è stata infatti spostata due volte per farla coincidere con l’apertura del progetto immobiliare dei Gindi, un fashion mall circolare da trecento negozi ispirato al Westfield di Londra, comprensivo di museo e centro sportivo, circondato da quattro torri residenziali da quarantotto piani e undici palazzi con altrettanti asili per bambini oltre a uffici, scuole, piscine, giardini pensili e un numero imprecisato di altre attività sulle quali Ori Levy, marito di un’erede Gindi e partner della Gindi Investment, mi ha intrattenuta per un’ora con un piglio tale che mi è sembrato educato chiederne il prezzo al metro quadro e scoprire che, dai cinquemila euro circa al metro delle prime vendite, ancora sulla carta, cinque anni fa, il prezzo ha raggiunto i dodicimila e che in pratica non c’è più un centimetro libero nemmeno fra i garage, a loro volta realizzati in un numero spropositato e subito andati a ruba perché, fra i tanti paragoni possibili fra Italia e Israele, quello della mancanza di parcheggio nei centri cittadini non è certamente l’ultimo. Per perimetro e investimento (la sola asta per il terreno ha comportato un esborso di oltre novecento milioni di shekels, oltre duecentocinquanta milioni di euro), il progetto dei Gindi è assimilabile a quello di Hines a Porta Nuova, a Milano, non fosse che in questo caso la municipalità di Tel Aviv, dopo aver dato del filo da torcere alla cordata familiare sull’offerta pubblica, ha tenuto per sé una quota del venticinque per cento imponendo la costruzione di teatri, sale da concerto e soprattutto asili. La soluzione, naturalmente, ai Gindi va benissimo perché un nucleo familiare gravitante attorno a uno shopping mall ventiquattr’ore su ventiquattro sarebbe sembrato un sogno eccessivo se non fossero arrivate le istituzioni a renderlo, forse loro malgrado, una realtà.

Lo Shenkar College, un corpo d’eccellenza della creatività trasversale. Cresce la spinta verso l’internazionalizzazione

 

Alla serata di apertura della fashion week – in passerella modelle dai diciassette ai settantacinque anni per festeggiare il sessantesimo anniversario del brand di costumi Gottex, e accidenti come si tengono queste signore che corrono sulla spiaggia tutte le mattine – insieme con Sara Netanyahu e i Gindi e Galit Gutman, che a quarantaquattro anni è ancora nell’olimpo delle ubermodel, è apparso il sindaco Ron Huldai e si è detto molto orgoglioso che Israele possa diventare un “fashion hub” e che dunque verranno incluse attività di promozione della moda per le celebrazioni dei settant’anni di Israele, nel maggio del 2018. La moda non serve a nessuno fino a quando ci si accorge che è perfetta per vendere ogni altra cosa. In Israele sarebbe una potenza come accade in altri campi, vedi il software engeneering grazie al quale crediamo di pagare i servizi in Corea a Samsung e invece ne lasciamo una piccola ma consistente parte qui, sulla spiaggia di Tel Aviv, se negli ultimi vent’anni non si fosse giocata quella filiera che, ancora una volta su scala ben diversa, è alla base delle fortune della moda italiana e della sua tenuta sulla fascia di alta gamma nonostante la concorrenza di Cina, Corea, Taiwan e di tutte le perle del Far East che sgraniamo come un rosario ogni volta che parliamo di delocalizzazione e con lo stesso tono sommesso.

 

Le idee non mancano, manca chi sappia trasformarle in un modello riproducibile. Il mall della famiglia Gindi: trecento negozi

Una delle principali catene di moda low cost locale, Castro, fondata quarant’anni fa da un sefardita di origine greca e oggi quotata alla Borsa di Tel Aviv (il business dei tessuti è sefardita per antonomasia fin dal Medioevo, cercate anche negli archivi italiani e troverete documenti risalenti al Quattrocento con nomi ebraici di cui molti nell’area geografica che va da Prato a Bologna, torneremo sul tema a breve) ha etichette che rivelano la stessa origine dei capi reperibili da H&M, Terranova, Forever21 e la stessa noncuranza estetica e produttiva. Montagne di t shirt che non tengono la forma, di gonne senza un perché, di lingerie che al tocco sfrigola come una sogliola, di bomber in seta sintetica di terza imitazione del modello Gucci originale e di scarpe chiuse allacciate, con una particolare punta tonda un po’ rialzata, che invece si trova solo in questo paese e che se a noi modaioli d’occidente piacciono molto è perché negli ultimi due anni ci siamo fatti sedurre dalla moda post sovietica di Gosha Rubchinskiy, del direttore creativo di Balenciaga e del collettivo Vetements, Demna Gvasalia, ma della quale riconosciamo le origini e la filosofia, collocandola senza ombra di dubbio fra Mosca e Kiev dopo la Rivoluzione di ottobre. Se la moda occidentale, e in particolare quella di origine cattolica, sconta tuttora la riprovazione morale della vanitas, quella di origine giudaico-sionista paga invece lo scotto, doppio, che incrocia Antico Testamento e matrice comunista della propria fondazione, avrete certamente presenti i ritratti di Ben Gurion scravattato in mezzo ai leader mondiali azzimati e impettiti. La moda è utile ma fino ad ora non è stata materia di primo interesse per gli spiriti eletti. Mentre le cose vanno cambiando, lo Shenkar College si è dunque guardato attorno e, un premio dopo l’altro, è diventato un marchio desiderabile in sé.

 

Qualche mese fa, il sindaco di Prato Matteo Biffoni è venuto a Tel Aviv per offrire a Leah Perez Recanati di aprire una succursale del suo dipartimento in città. La signora ci sta pensando. Quando si verrà a sapere, per molte delle scuole di moda italiane spuntate dal nulla negli ultimi anni, sarà un colpo durissimo.

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