Un’immagine tratta dal film del 1936 “Tempi Moderni”, scritto diretto e interpretato da Charlie Chaplin

L'oppio dei disoccupati

Luciano Capone

Il reddito di cittadinanza ha una storia: eccola. E pure una filosofia più sensata di quella grillina

La guerra alla povertà ha enfaticamente posto sotto le luci della ribalta le inadeguatezze dei sistemi di welfare nazionali. L’assistenza fornita agli indigenti è, in molti stati, vergognosamente inadeguata, così come le norme che ne regolano la fruizione compromettono tanto gli incentivi quanto il potenziale che gli interessati avrebbero di aiutare se stessi. La maggior parte delle persone non ha accesso ai servizi di assistenza dello stato, dal momento che i criteri per accedere alle varie categorie di welfare federale, statale e locale sono incredibilmente restrittivi. Molte persone povere, che pure avrebbero accesso ai servizi di welfare, non accettano l'aiuto degli uffici locali perché altrimenti sarebbero soggette a innumerevoli pratiche poco dignitose da parte di chi si occupa di verificare le condizioni finanziarie di chi è ammissibile ai servizi di assistenza, stabilendo fino a che punto lo sono”. Sembrano parole pronunciate oggi per quanto sono attuali, e invece sono state scritte oltre mezzo secolo fa da James Tobin, l’economista americano che qualche decennio più tardi avrebbe vinto il premio Nobel per l’economia. In quell’articolo del 1967 dal titolo “Is a negative income tax practical?”, scritto con altri due economisti, Tobin proponeva di superare i problemi legati alla povertà estrema e all’incapacità del welfare state di porvi rimedio attraverso un reddito di cittadinanza, un sussidio monetario diretto per soddisfare i bisogni essenziali dei più bisognosi.

 

L’idea del keynesiano Tobin di un’imposta negativa sul reddito, che per i più poveri funziona esattamente come un sussidio universale e incondizionato, in realtà riprendeva una proposta di qualche anno prima di un altro premio Nobel per l’economia, che però era posizionato sul lato opposto dello spettro ideologico: il liberista Milton Friedman. Il più noto esponente della scuola di Chicago nel 1962 aveva esposto la sua preferenza per un sistema universalista di assistenza ai bisognosi: “I vantaggio di questo sistema sono evidenti – scriveva Friedman nel bestseller “Capitalismo e libertà” – sarebbe orientato specificamente al problema della povertà; offrirebbe un aiuto nella forma più utile agli individui, ossia in denaro contante; avrebbe efficacia generale e potrebbe sostituire la congerie di misure attualmente in vigore; opererebbe al di fuori dal mercato”. Insomma il trasferimento di uno stipendio mensile agli esclusi ed emarginati ha secondo Friedman una serie enorme di vantaggi: non è discriminatorio, non distorce il funzionamento del mercato, rispetta le preferenze individuali dei destinatari che possono liberamente farne l’uso che ritengono migliore, non annulla gli incentivi a lavorare perché ogni somma in più percepita non riduce il benefit pubblico e ha minori costi di gestione rispetto ai programmi statali. “Aspetto ancora più importante – diceva Friedman – se il metodo dell’imposta negativa andasse a sostituire il coacervo di misure attualmente dirette al medesimo fine, non v’è dubbio che gli oneri amministrativi complessivi si ridurrebbero”. Ma se mette d’accordo Friedman e Tobin il reddito di cittadinanza è una misura di destra o di sinistra? Liberale o socialdemocratica? Quali sono i punti a suo favore e quali le criticità? Prima di provare a rispondere alle domande è necessaria una precisazione lessicale e concettuale. Il “reddito di cittadinanza” non è quella cosa proposta dal Movimento 5 stelle. Come ogni altro tema serio finito in mano ai grillini, anche questo termine ha perso qualsiasi senso o legame con la realtà.

 

Il reddito di cittadinanza, conosciuto nel mondo anglosassone come “universal basic income” (reddito di base), è un sussidio universale incondizionato, cioè un trasferimento monetario elargito dalla comunità politica a tutti i suoi membri, in maniera individuale e senza alcuna condizionalità, con lo scopo di incrementarne la libertà, l’autonomia e l’indipendenza: a ogni persona è garantita una somma per poter soddisfare i bisogni fondamentali. Rispetto alla misura originale il fake grillino è l’esatto opposto: un (pessimo) sussidio condizionato che funziona come un incentivo alla disoccupazione e una tassa sull’occupazione. Il M5s propone di garantire un reddito minimo da 780 euro ai disoccupati e sottoccupati in cambio della disponibilità di alcune ore lavoro di utilità sociale e dell’accettazione di un posto di lavoro (che però può essere rifiutato fino a tre volte) compatibile con il curriculum personale e trovato dallo stato attraverso i centri per l’impiego. Dato che lo stato non è capace di trovare a tutti i disoccupati un posto di lavoro è difficile che i sussidiati cerchino da sé un’occupazione, perché il sistema premia chi non fa nulla e punisce chi si dà da fare: se una persona ha un reddito pari a zero riceve 780 euro, se invece lavora riceve solo un’integrazione al reddito fino alla soglia di 780 euro.

 

Ciò vuol dire che se un disoccupato guadagna con dei lavoretti 100 euro, gli viene sottratta una somma identica dal sussidio, in pratica viene tassato con un’aliquota marginale del 100 per cento. A chiunque conviene non lavorare o fare lavori in nero. E questo significa trasformare uno strumento di assistenza in una “trappola per la povertà”. Ed è proprio questo il modello di welfare dannoso contro cui metteva in guardia James Tobin: “La verifica delle condizioni finanziarie è, nei fatti, una tassa del 100 per cento sui guadagni di chi accede ai servizi di welfare; per ogni dollaro che guadagna, la sua assistenza si riduce di un dollaro. La gestione del welfare pubblico, oggi, è perlopiù una questione di vigilare sulla condotta dei poveri per impedire che ‘ingannino’ i contribuenti, piuttosto che un programma per aiutarli a migliorare le proprie condizioni economiche attraverso i propri sforzi individuali. Ne consegue che la povertà e la dipendenza dai servizi di welfare si trasmettono da una generazione all’altra, e che il muro che separa i poveri dal resto della società si fa sempre più alto nonostante la nazione diventi sempre più ricca”.

 

Sgomberato il campo dall’equivoco concettuale e lessicale grillino, il tema del reddito di cittadinanza o “reddito di base” resta molto attuale e, come abbiamo visto, affonda le radici nella cultura liberale e non solo nella sinistra socialdemocratica. Già qualche decennio prima dello stesso Friedman, negli anni ’40, il futuro premio Nobel per l’economia Friedrich von Hayek in “La via della schiavitù” – un libro fondamentale per il pensiero liberale del Novecento, in cui venivano lucidamente descritti i pericoli totalitari connaturati all’espansione dello stato – scriveva che “Non c’è ragione alcuna perché in una società come la nostra, che ha raggiunto livelli generali di benessere, non debba essere garantito un minimo di sostentamento a tutti. Non può esservi dubbio che un minimo di cibo, abitazione e vestiario, sufficienti a preservare la salute e le capacità di lavoro, debbano essere garantiti a tutti”. Persino i teorici dello stato minimo, o comunque di uno stato ridotto, erano favorevoli a quello che è il programma statale di redistribuzioe del reddito più ampio, neutrale e ambizioso possibile. Il fascino del “reddito di base” sta, a gli occhi di Hayek e Friedman, nel fatto che è una misura alternativa al welfare state, molto più efficace dei programmi statali nel colpire la povertà, minimizza la distorsione del comportamento degli agenti economici, è trasparente, non è paternalista ed elimina i costi della burocrazia e l’intermediazione statale. Il fronte socialista o socialdemocratico invece è favorevole al reddito di base partendo da presupposti diversi. Lo considera uno strumento di giustizia sociale, capace di ridurre la disuguaglianza e la disoccupazione strutturale e tecnologica, garantire sfere di autonomia esterne al mercato.

 

Sulla scorta di queste considerazioni e sulla base dei principi esposti da John Rawls in “Una teoria della giustizia”, Philippe Van Parijs giunge a conclusioni ancora più estreme di quelle di Rawls, affermando che anche il “surfista di Malibù”, che passa le giornate a surfare e prendere il sole ha diritto ad essere nutrito dalla società. Naturalmente, in entrambi i campi, quello liberale e socialdemocratico, non mancano le obiezioni a uno strumento che separa completamente il guadagno dalla produzione e il reddito dal lavoro. Per la mentalità e i valori borghesi, quella che hanno dato il via alla rivoluzione industriale e capitalista, l’etica del lavoro è sempre stato un valore basilare e ogni strumento di welfare, almeno nelle intenzioni, è sempre stato indirizzato al rientro nel mondo del lavoro. Il reddito di cittadinanza invece rompe questo legame tra l’individuo e il lavoro, che è anche un legame sociale, perché permette che una persona capace di lavorare venga retribuita dalla società anche se decide di non fare nulla o cose che nessuno altro desidera. Simmetricamente nella tradizione della sinistra, che come la cultura liberale nasce a partire dalla Rivoluzione industriale, il sussidio universale, garantendo il diritto al reddito, fa sparire dall’orizzonte il diritto al lavoro e cioè a un’occupazione nella società che è fonte non solo di sostentamento ma anche di dignità e “coscienza di classe”.

 

E’ indubbio che il reddito di base possa alimentare parassitismo e comportamenti “anti-sociali”, ma si tratta di rischi legati anche a tantissimi altri strumenti di welfare meno efficienti e non universali. E questo è vero soprattutto per paesi come l’Italia in cui gran parte della spesa pubblica va nelle tasche di chi non ne ha bisogno. Roberto Perotti, economista della Bocconi ed ex commissario alla spending review, nel libro “Status quo” ha scritto che lo stato italiano funziona come come un “Robin Hood al contrario”. Una misura universale, fuori dal controllo della politica e della burocrazia, paradossalmente, e soprattutto in paesi come l’Italia, oltre a ridurre la povertà potrebbe ridurre comportamenti parassitari e spingere le persone ad assumere più rischi, nella consapevolezza di avere una rete di protezione nel caso in cui le cose dovessero andare male. Il reddito di cittadinanza è oggetto di una serie di sperimentazioni in giro per il mondo e al centro del dibattito politico, anche perché si lega molto al tema della distruzione di posti di lavoro dovuta agli impatti della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica. “Il reddito di base incondizionato potrebbe essere un’importante innovazione per ridistribuire i guadagni derivanti dall’automazione e dalla globalizzazione, attraverso la costruzione di un cuscinetto contro choc e rischi sistemici, e la generazione di incentivi all’offerta di lavoro tra le persone povere”, dice Ugo Colombino, economista dell’Università di Torino, che da tempo studia la materia.

 

L’innovazione tecnologica, l’automazione, la robotizzazione e in prospettiva l’intelligenza artificiale porteranno notevoli benefici e crescita economica, ma nel frattempo renderanno molti lavori obsoleti. Oltre alla protezione dalla disoccupazione, un altro vantaggio di un reddito universale di base è che, a differenza di vecchi strumenti come la cassa integrazione che legano il dipendente a posti di lavoro morti o che presto verranno distrutti, tutela la persona e consente una maggiore integrazione con le nuove forme più fluide e flessibili di lavoro della sharing economy. Non v’è dubbio che una riforma radicale del welfare con al centro un reddito minimo universale abbia molti aspetti positivi, ma prima di proporlo come la soluzione definitiva bisogna valutarne la fattibilità. Per paesi con debito pubblico, spesa pubblica e pressione fiscale elevati non c’è spazio per aggiungere altri debiti, spesa e tasse e quindi il reddito di cittadinanza può essere introdotto solo in sostituzione e non in aggiunta alla spesa attuale. Prima di costruire il welfare del nuovo secolo bisogna smantellare quello del Novecento. Ma è proprio questa la cosa più difficile. Come ha ricordato recentemente l’economista Tyler Cowen su Bloomberg, il 38 per cento del budget dell’Unione europea è destinato ai sussidi per l’agricoltura (2 per cento degli occupati), ovvero per salvare i posti di lavoro distrutti dalla Rivoluzione industriale. Siamo nell’era dei robot, ma il nostro welfare è ancora in guerra contro la macchina a vapore.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali