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"Il denaro è morto, vi spiego perché"

Lorenzo Maria Alvaro

L'economista e  saggista Pierangelo Dacrema non ha dubbi: "È uno strumento antiquato, e come tale va abbandonato"

Milano è una città che cambia. Lo è sempre stata. Ma a dispetto della frenetica mutazione, del continuo trasformismo sempre di corsa dietro a mode, progetti e idee ci sono alcuni punti fermi silenziosi. Uno di questi, il più sacro e rispettato, è che quando si parla di dané, di denaro, si beve l’aperitivo. Era così ai tempi della fabbrica del Duomo, quando il commercio avveniva nelle locande affacciate sulla Darsena. È stato così ai tempi della mala, per Renato Vallanzasca, che decideva i colpi con la banda al Bar Basso, davanti ad uno sbagliato. Per Luciano Lutring, il “solista del mitra”, che beveva lo champagne in Galleria, al Camparino. Ed era così anche per Francis Turatello, che era di casa al Bar Magenta. È stato così per i colletti bianchi che dominarono la Milano anni ’80, quella delle bustarelle e del sindaco Pillitteri. Non è un caso se è ricordata come la “Milano da bere”. Oggi come allora se c’è di mezzo il denaro, prima di tutto si ordina un negroni. Ecco perché anche questa volta l’appuntamento è alla Bottiglieria Bullona, una delle istituzioni dell’aperitivo meneghino, a due passi da San Vittore. Al tavolo ad aspettarmi c’è un dandy che già sorseggia il suo primo giro. Questa volta non si tratta di discutere come fare soldi. Il denaro è l’argomento, certo. Ma il signore seduto a bere è il prof. Pierangelo Dacrema (foto a destra), economista, saggista e intellettuale, e quella che mi vuole raccontare è la storia di come uccidere la moneta. «Che al centro dell'economia vi sia il denaro sembra uno di quegli assiomi che rientrano nel novero delle ovvietà», sostiene, «ma la storia ci ha insegnato che là dove l'uomo ravvisa un'ovvietà spesso si nasconde la cristallizzazione di un errore. Oggi dobbiamo osare pronunciare quella che è considerata l'eresia suprema: il denaro è uno strumento antiquato, e come tale va abbandonato».

 

Professore se i tavoli intorno a noi facessero caso a quello che stiamo per dirci sono convinto ci prenderebbero per matti...

È probabile (ride).

 

Ma lei su questo ha addirittura scritto un libro. Quindi è convinto che non sia poi così strampalata come idea....

Si certo. Si chiama “La morte del denaro. Una lezione di indisciplina”. Più chiaro di così…

 

Cominciamo dall’inizio, dal perché. Per quale motivo lei vuole uccidere il denaro?

Certo, ma prima ordiniamo un altro giro. (Con la mano fa un cenno al barman per il secondo Negroni). Dunque il punto di partenza di una riflessione seria sul tema è una valutazione dei costi a livello di sistema dello strumento denaro. Una valutazione che io non ho mai visto fare seriamente. Non sto parlando dei costi dell’intermediazione, cioè quanto guadagna un depositante lasciando il denaro a reddito o in una qualche forma di investimento e quanto fa pagare il sistema per un prestito.

 

Come si calcola oggi il costo del denaro?

Facciamo un esempio. Si prende del denaro a prestito al 4% di interesse. Lo si lascia in deposito guadagnando l’1%. Il 3% di differenza è il costo del denaro. Questa logica va abbandonata.

 

E allora come si deve ragionare?

Il costo del denaro è immenso e si divide in tre grandi capitoli. Il primo sono gli uomini che si occupano di contabilità. Il denaro vive di manutenzione, di numeri, di dare/avere. Oggi il denaro è solo numero. Non stiamo parlando solo di banchieri, finanzieri, cassieri o scassinatori. Parliamo di una fetta molto più ampia della popolazione che si occupa di questa manutenzione. Oo la chiamo, in modo un po’ brutale, “occupazione apparente”.

 

Nel senso che non lo ritiene un lavoro?

Bè non fanno nulla. Se maneggi il 3%, o il 5% o anche il 7% nella vita, in realtà, non hai fatto nulla. Non hai fatto un Negroni, non hai fatto una lezione all’università, non hai fatto uno spettacolo e non hai fatto il giornalista. Non è insomma uscito nulla da te che non sia l’aver maneggiato quel numero. Questo detto con molto rispetto di chi fa questo mestiere oggi.

 

Dunque il primo costo è questa “occupazione apparente”. Ma quanto pesa?

Tantissimo. Non dimentichiamoci che normalmente chi si occupa di numeri fa parte di una fetta della popolazione che ha studiato. Gente sveglia su cui il sistema ha investito tanti soldi.

 


Il secondo capitolo di costo?
Il secondo capitolo di costo?

La “disoccupazione apparente”. Oggi abbiamo la disoccupazione giovanile che sfiora il 40% e quella generale intorno al 12%. Ma è apparente. Per un motivo molto legato al denaro. Il mio studente del sud, che si è laureato con me che non trova un impiego o trova solo forme di sottoimpiego mostruose, è pieno di energie, più sveglio e più fresco di me. Solo che non riesce ad esprimerlo. Questo non perché sia disoccupato. Ma perché costretto ad esserlo da un sistema che lo tiene fuori dal circuito del denaro. Il motivo è che il nostro mondo ci dice che tutto quello che si fa è inutile se non viene pagato. Non è disoccupazione, termine avvilente da abolire. Semplicemente separazione dal sistema del denaro. Quindi si tratta di senza reddito non di disoccupati. Poi c’è il terzo capitolo di costo del denaro che, contrariamente ai primi due, è molto più difficile da quantificare ma non meno colossale: quello delle “motivazioni deviate”. Il fatto cioè di essere abituati, tristemente ed obbligatoriamente, a lavorare in vista di una remunerazione. Che rende il risultato in denaro, fatalmente, più importante del risultato fattuale del proprio lavoro.

 

Sta dicendo che non si lavora per passione?

In un certo senso. Il fatto di fare quello che si fa per avere un certo ritorno economico è una variabile di disturbo enorme. Basti pensare che il risultato concreto del mio lavoro e del mio impegno sarà modulato rispetto al compenso.

 

Questi sono i costi del denaro. Ma avrà pure dei benefici il denaro, o no?

Il punto non è se il denaro abbia o meno dei benefici. Non voglio eludere la domanda. Ma credo che la questione da porsi sia un’altra: un'economia post-monetaria - vale a dire un'economia che funziona in assenza di moneta – può offrire risultati preferibili a quelli forniti da un'economia monetaria? Io ho provato a ragionare, per dare una risposta, in termini economicamente molto classici. Mi sono avvalso degli strumenti del marginalismo economico, quelli che hanno avuto successo nel XIX secolo, nell’armamentario della micro e della macroeconomia. Ho anche scritto al riguardo un piccolo pamphlet molto tecnico per la “Rivista di estetica”. Sono giunto alla conclusione che un'economia senza moneta è in grado di offrire una maggiore produzione e una più equa distribuzione della ricchezza a scapito di un minore livello d'efficienza.

 

Come possiamo spiegarlo anche a chi non fa il professore di economia?

Facendo un esempio banalissimo. Ognuno di noi ha vicino casa una normale officina, un meccanico. Questa officina lavorerà con i propri mezzi che naturalmente non sono quelli della Fiat. Quando perde e quando guadagna, questa piccola officina, lo fa su dimensioni infinitamente minori di quelle della Fiat. È un fatto di economie di scala. Il tuo meccanico di fiducia per sopravvivere è costretto ad essere molto più efficiente della Fiat. Perché è piccolo ed è un sistema molto chiuso. La Fiat è molto meno efficiente di quella officina perché può permetterselo, perché è enorme. C’è più caos nella Fiat che nelle piccole officine. È normale che sia così. Possiamo in alternativa parlare della macchina da guerra moderna. I nostri eserciti fatti di persone che gestiscono droni dall’altra parte del mondo con un joystick, sedute in poltrona. Schiacciando ogni tanto un bottoncino seminano morte e distruzione e dopo due ore al massimo hanno la fonte imperlata di sudore. La macchina da guerra di Giulio Cesare era basata su un uomo che faceva 60 km a piedi al giorno, con 70/80 kg addosso, tra armi e vettovaglie e che dopo aver passato la notte all’addiaccio cercando di ubriacarsi si lanciava contro un nemico con il 30/40% delle probabilità di morire. Era un uomo che, se non si sfruttava al 99%, era morto prima di partire. Quindi quella macchina da guerra era costretta ad essere molto più efficiente.

 

L’efficienza, insomma, si misura in termini relativi, di sfruttamento del potenziale…

Certo, il mio ferro da stiro è uno strumento estremamente efficiente rispetto al sole. Usa la sua energia stirante al 25/30% sulla mia camicia. L’energia del sole di disperde al 99,99%.

 

E questo cosa centra con la moneta?

Centra perché io preferisco il sole al ferro da stiro. È più utile, più bello. È un sistema più interessante.

 

Quindi un sistema post monetario sarebbe più interessante? Non è un po’ vago?

Quello che voglio dire è che si tratta di un sistema che potrebbe reggere un numero di fancazzisti, già oggi molto alto, enormemente superiore. Fancazzisti per altro che oggi a volte sono anche remunerati profumatamente. E sarebbe un sistema di libertà, rispettoso degli orientamenti individuali e più meritocratico. Se tu non hai voglia di fare nulla in questo nuovo sistema avresti poco ma avresti comunque di che vivere. E sarebbe una tua scelta.

 

Credo però che il problema si ponga sulla ricchezza. Sulla fascia alta della popolazione. Sbaglio?

Se fossi Maradona magari saresti meno ricco di denaro ma continueresti essere ricco di proprietà fisiche. Continueresti ad essere Maradona. La proprietà del denaro è un mitra che spara ad alzo zero in migliaia di direzioni. L’oggetto invece viene usato in modo specifico. Un telefono, un libro, una casa hanno uno scopo. È molto diverso. Una proprietà fisica può essere anche una capacità. A questo si aggiunge la cosa più importante: la proprietà è anche cura della cosa. Onori ed oneri. Se uno è proprietario della Fiat rimane proprietario solo se è bravo, ci tiene e non si rompe le scatole.

 

Quindi al posto del denaro ci sarebbe la proprietà?

Il presupposto è che la proprietà sia capitale che non ha bisogno della moneta per essere accumulato. E che il capitale sia fondamentalmente risparmio, reddito accantonato e utilizzabile nel lungo periodo. Comunque espressione di un profitto che vede la moneta tradursi in merci, beni concreti di valore più o meno cospicuo. Che la proprietà, pubblica o privata, venga ben amministrata ha un’evidente importanza sociale: da ciò dipendono le modalità della produzione dei beni e la loro effettiva disponibilità. Che la proprietà privata – la diffusione, la non concentrazione, della proprietà – abbia favorito, o possa favorire, una buona amministrazione del capitale non è solo un’ipotesi.

 

A me sembra però che stiamo girando intorno al problema cruciale. È tutto molto stimolante. Ma come si fa senza denaro. Se entro in un bar e ordino un caffè, poi che succede?

Ha ragione. Cadiamo per un attimo nell’utopia. Ma serve per fare un passo in avanti. Domani ci alziamo tutti e decidiamo, con una stretta di mano, che il denaro non c’è più. E, sempre per incanto, le persone ricominciano a fare le stesse cose di prima. Con una differenza. C’è un miliardo e mezzo di persone che non hanno più un cazzo da fare. Cioè tutte quelle persone che lavoravano con il denaro. Che somiglierebbero molto ai disoccupati di oggi. Ora, sul piano delle probabilità, questo numero di persone colossale cosa farà? Dormono? Si mettono a letto e basta?

 

Probabilmente si industrieranno, si daranno da fare…

Esatto. Hanno bisogno di esprimersi, di realizzarsi. Io credo al fatto che un uomo non abbia voglia di stare a letto tutto il giorno e abbia voglia di fare qualcosa per sé, per sua moglie, per suo figlio. Lo dimostra il fatto che l’uomo della pietra ha regalato un futuro migliore ai suoi figli senza l’utilizzo del denaro. Il motore della storia, quello vero, è diverso. Il denaro somiglia più a una droga di Stato, in questa epoca. L’economia, in questo nuovo quadro, continuerebbe a soddisfare il suo naturale bisogno di cambiare e progredire, vale a dire crescere. Lo sviluppo economico è essenzialmente cambiamento.

 

Ma perché qualcuno dovrebbe fare impresa? Uno Zuckerberg perché dovrebbe, ad esempio, fare una cosa come Facebook?

Per la proprietà. La proprietà rimane e sarebbe addirittura valorizzata. Il capitalismo sotto forma di accumulo della proprietà non sarebbe più un sistema merce, denaro, merce. Si limiterebbe a merce-merce. Non sto parlando di un ritorno al baratto naturalmente. Il baratto è uno scambio uno a uno. Io parlo di un rapporto uno-mondo.

 

Proviamo a spiegarlo?

Io do al mondo quello che ho voglia di dare e il mondo mi restituisce quello che vuole. Ma in una logica di mercato. Per cui se quello che ho da dare è molto richiesto riceverò molto in cambio. Questo permetterebbe anche di tornare ad un concetto di mercato vero. Non con la prevalenza del fatto monetario, che è la finanza di oggi. Penso che emergerebbe un mercato più reale: un mercato degli uomini, delle idee, delle energie. Più libero e più capace di esprimersi.

 

Ho un altro dubbio: ci sono cose che hanno un futuro di lunghissimo periodo che non è il caso di cambiare. Una forchetta perché si dovrebbe cambiare? È utile oggi e lo sarà anche tra un milione di anni. Il denaro non è come una forchetta?

È vero ci sono cose che non sono suscettibili di un’evoluzione. La forchetta, che tu la faccia a tre rebbi o a venti rimane comunque una forchetta ed è sempre utile. Anche se il Giappone ci dimostra che, se si vuole, se ne può fare anche a meno. Ma no, non è lo stesso. Non stiamo parlando di un oggetto così specificatamente utile. Stiamo parlando di uno strumento universale, che si è sostituito a milioni di sensazioni, perché è diventato la cloaca dei desideri di tutti. Una trappola in cui sono caduti in molti. Anche noi. Ci abbiamo creduto. Allora perché non fare emergere la pochezza dell’aspirazione al denaro?

 

Messa così però diventa un po’ filosofica come questione…

La filosofia sta alla descrizione del mondo come l’economia a una sperimentazione di esso. In economia il pensiero è azione, e se il pensiero è l’immagine dei fatti, la filosofia è l’immagine della storia e la visione più realistica dell’economia che la anima.

 

Quanti probabilità ci sono di poter attuare una cosa del genere?

In quanti anni?

 

Me lo dica lei…

Su 10 anni pochissime. In 50 anni diventerebbe uno scenario altamente possibile.

 

E come si esce della moneta? Si decide un D-day?

No, prima ci vuole un’unificazione monetaria mondiale. Questa è la strada. Tutto il mondo con un unico linguaggio monetario. Una moneta che potrebbe essere fatta da numeri e criteri diversi. Dopo di che si può andare oltre. Ma deve essere un processo morbido, non traumatico e gestito. Con linguaggi diversi è molto più difficile.

 

C’è sempre quel mondo che col denaro ci lavora. Come si fa a chiedere a uno come Mario Draghi una cosa del genere?

Sarebbe uno dei primi ad aderire. Conosce la merda assoluta e vuole uscirne. Sarebbe più difficile spiegarlo a chi è più ancorato al proprio presente. Certi uomini del sistema invece lo sanno benissimo che è così. E più sono nel sistema e più lo hanno capito. Basta pensare alla politica di oggi. Perché è piccola e incapace? Perché si è abituata a spegnere ed accendere i semafori. Fanno solo contabilità. Tutto gira intorno ad una sola questione: se ci sono o meno le risorse. E anche qui è evidente l’ingiustizia del denaro: per le banche, cioè per il denaro, i soldi ci sono sempre. Il denaro c’è sempre quando si tratta di non metterne in discussione la centralità. Draghi, è noto, non può permettersi di superare il 2.5% d’inflazione. Perché salterebbe, se ne dovrebbe andare. E allora come mai i politici europei possono permettersi il 20% di disoccupazione? Perché le malattie sociali dell’esclusione e della povertà sono più sopportabili della malattia del denaro che è l’inflazione. Un mondo del genere non può continuare.

 

Quindi secondo lei non è una scelta che dobbiamo prendere ma un cambiamento che avverrà per certo?

Fatalmente, è inevitabile. Ne sono convinto. Nel nostro futuro c’è un mondo post monetario. Il mio desiderio è che accada nel modo meno cruento e doloroso possibile. Invece temo sarà molto doloroso, un terremoto molto violento. La vera utopia è pensare che le cose rimangano come sono. Oggi abbiamo una sola certezza: è evidente che questo sistema ormai non funziona più. 

 

Pierangelo Dacrema
Economista, ha iniziato la sua carriera accademica all'Università Bocconi di Milano nel 1981. Professore ordinario dal 1993, insegna all'Università della Calabria. È autore di numerosi articoli e saggi, fra cui “La dittatura del PIL” (Marsilio, 2007) e la traduzione di “Le mie prime convinzioni” di John Maynard Keynes (Adelphi, 2012).

 

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