Il male immaginato

Simonetta Sciandivasci

L’origine dell’orrore che non vogliamo leggere sui giornali non è la brama di potere, ma la nostra fantasia. Ce lo spiega Macbeth

Esasperata e molto arrabbiata”, una lettrice del Corriere della Sera ha scritto al direttore Luciano Fontana chiedendogli perché mai l’informazione scandagli i delitti con tanta minuzia, foga, insistenza. Nei giorni precedenti, il quotidiano aveva pubblicato “addirittura vignette con il filmato e le modalità dell’omicidio di quei poveri genitori uccisi da due minorenni”. Si trattava di Salvatore Vincelli e Nunzia Di Gianni, uccisi a Pontelangorino (Ferrara) da Manuel, il migliore amico di loro figlio Riccardo, in cambio di mille euro da saldare a operazione ultimata, cioè a funerali fatti e polizia depistata, se non fosse che i due ragazzi, entrambi minorenni, sono crollati dopo poche ore di interrogatorio. E’ stato il primo delitto mediatico dell’anno, quello che ha connesso il 2017 alla spirale antica, probabilmente eterna di sangue domestico e il cui annuncio è stato occasione per tetre liste (“tutte le volte che in Italia i figli hanno ammazzato i genitori, sfoglia la gallery fotografica”). “Cara signora, conoscere tutti gli aspetti della realtà ci aiuta forse a trovare le soluzioni” e “il lato oscuro non riguarda sempre qualcun altro”, le ha risposto Fontana. Quando Macbeth premedita di uccidere il re Duncan, sovrano di Scozia di cui è fedele servitore, dice: “La luce non veda i miei tenebrosi e profondi desideri: l’occhio si chiuda davanti alla mano, e sia pure quell’atto che l’occhio ha paura di vedere quando è compiuto”.

Il primo delitto mediatizzato dell’anno è stato quello dei genitori uccisi a Ferrara. E’ giusto che i giornali ne parlino così tanto?

Bignamino della “tragedia di Scozia”: nella tradizione scozzese, l’eredità della corona non spetta ai familiari, bensì al congiunto più valoroso tra gli uomini vicini al sovrano. Macbeth, generale del re Duncan, è a spasso nella brughiera con il suo amico Banco: freschi di vittoria sugli eserciti norvegesi e irlandesi intenzionati a spartirsi il piccolo ma indomito regno, i due amici chiacchierano del tempo quando incrociano tre streghe che predicono loro un futuro in cui Macbeth sarà re. Il predestinato avvisa subito la moglie che, per assecondare il destino più in fretta possibile, architetta il regicidio: Macbeth ne sarà esecutore pratico, condannandosi al tormento e ad altri, inevitabili delitti che gli assicurino il mantenimento del trono. Non riuscirà mai più a dormire e morirà ucciso dal padre di una delle sue vittime, il non nato da donna (perché partorito con cesareo). Lady Macbeth, invece, sconterà una pena speculare e morirà nel sonno, probabilmente suicida.

Che sia visibile o nascosta, un’azione si compie: non è lo sguardo a dirigerla. Che sia testimoniato o meno, “ciò che è fatto, non può essere disfatto”: sarà il mantra con cui Lady Macbeth tenterà di annientare gli assilli della colpa, scolorire i fantasmi che appaiono a suo marito, archiviare il sangue versato in un fascicolo giustificatorio. Macbeth tornerà spesso, anche dopo l’assassinio del re (che ne inaugura moltissimi altri), sullo sguardo, la vista, gli occhi, il buio, la luce e lo farà dopo essersi predetto che “per me non esisterà altro che ciò che non esiste”. Ciò che non esiste è la sua immaginazione, dove Macbeth è già assassino non solo prima di uccidere, ma pure prima di meditare di farlo: “La sua natura non è tanto la brama di potere, quanto piuttosto una certa propensione alla fantasia”, ha detto Franco Branciaroli a Luca Doninelli, raccontandogli il suo Macbeth, in tour fino alla prima metà di febbraio, per la coproduzione di CTB, Centro Teatrale Bresciano e Teatro degli Incamminati.

Il direttore del Corriere Fontana non ha potuto controbattere con Macbeth perché i giornali non fanno drammaturgia, ma informazione e devono, pertanto, distinguere il bene dal male, le motrici dalle reazioni, i genitori dai figli, gli adulti dai bambini, i femminicidi dagli assassini, l’attuale dall’eterno, la natura dall’umano, la volontà dalla follia. Al teatro non competono queste distinzioni non solo perché, “l’Italia non lo considera una forma di conoscenza” (lo ha detto proprio Branciaroli, in un’intervista di qualche anno fa), ma pure perché la drammaturgia non deve né riordinare né risolvere. Pertanto, Fontana ha proposto di tenere bene a mente l’editoriale di Antonio Polito che per spiegarsi e spiegarci l’orrore di Pontelangorino, ha scritto che è in atto uno scontro generazionale dove per la prima volta lo iato tra genitori e figli si è riempito di odio “sostanzialmente perché stiamo lasciando loro meno benessere di quello che abbiamo trovato”. La trasmissione di valori è stata stroncata definitivamente dall’imperativo “sii te stesso”, declinato in senso narcisistico perché non più posposto al “conosci te stesso”.

“La natura di Macbeth non è tanto la brama di potere, quanto piuttosto una certa propensione alla fantasia”, dice Branciaroli

Tra Riccardo Vincelli e i suoi genitori pare che i rapporti incespicassero a causa del rendimento scolastico del ragazzo: questo consente di rintracciare l’attualità nella vicenda, di pensarla frutto di una degenerazione socio-culturale, imponendo così all’informazione di darne conto, di modo che induca a un ripensamento e a un affiatamento collettivi che riparino il fallimento educativo, nella convinzione che un’educazione efficace sarebbe sufficiente a non far scivolare l’umano nell’inumano. Nel 1975 tra genitori e figli si stagliava un divario gigantesco riempito di sogni di collettivismo, pacifismo, amore libero, eppure il 13 novembre di quell’anno, a Vercelli, Doretta Graneris, diciottenne, sterminò tutta la sua famiglia con l’aiuto del fidanzato, Guido Badini, ventunenne. Movente: l’eredità di 200 milioni di lire. Il fatto che si tratti di una cifra più consistente dei mille euro promessi da Riccardo a Manuel è sufficiente a farci stabilire che l’assassinio degli anni Settanta si è dipanato in un orizzonte di senso, per quanto spietatamente terribile, mentre quello di Ferrara no? Ci basta a ritenere che le due efferatezze abbiano avuto matrici diverse e che quelle matrici fossero radicate in una differente tenuta dei valori (ma poi: quali valori)? Nel 1975 l’invito di Marcuse, poi sessantottino, a portare l’immaginazione al potere era penetrato nella protesta sociale e, in qualche modo, sarebbe filtrato nel cambiamento politico che impacchettò il mondo nuovo (diverso) che quegli anni prepararono.

Quarant’anni più tardi, Polito scrive di una generazione intrappolata in un immaginifico narcisismo, mentre a teatro Franco Branciaroli affianca all’idea collaudata di un Macbeth schiavo della sete di potere e marionetta dell’ambizione, quella di un personaggio fottuto dalla sua stessa fantasia. “Ho la mente piena di scorpioni!”, urla il tiranno, quando il sangue che ha versato è così tanto e i fantasmi che popolano le stanze in cui cerca di dormire sono così reali, che risulta evidente come la tragedia che Shakespeare volle rappresentare non è semplicemente la storia del tarlo del potere e della sua evanescenza, essendo il potere una sete inestinguibile, ma soprattutto una storia della ricerca della residenza condivisa di bene e male. Gli scorpioni assalgono non il cuore, dove stanno la cedevolezza e i sentimenti, ma la mente, dove sta il raziocinio che emana la norma e la fa tutrice del bene. La ribellione alla norma può far progredire la giustizia, insegna la parabola del Buon Samaritano. La ribellione di Macbeth, invece, fallisce: non solo non reca bene a lui, a sua moglie, al regno, ma trascina tutti in un vortice di violenza infruttuoso. Che esista una violenza buona e necessaria che non è semplice rivolta a un potere tiranno, soprattutto ora che il contratto sociale è fallito, è la tesi di Luisa Muraro nel suo pamphlet contro l’irenismo indiscriminato, “Dio è violent*” che qualche anno fa fece discutere giornalisti e politici. Macbeth resta fuori da questo dubbio perché sin dal principio infrange una regola che non lo opprime concretamente, ma che intralcia le fantasticherie in cui si crogiola sul suo conto (e che includono l’impermeabilità ai sentimenti come unica prova possibile di virilità: a ogni suo tentennamento, infatti, Lady Macbeth lo infilza con un “sei un uomo? Non ti vergogni?”). La mia vita senza re Duncan, senza mediatori ma solo servitori, senza prove e debiti ma solo nomine e crediti, fantastica Macbeth. Con questa immagine, pur piena di interferenze, avanza verso il delitto.

Allo stesso modo, forse, ad armare un adolescente contro i propri genitori c’è l’immagine smagliante della sua vita senza mamma e papà, senza beghe, senza limiti. E’ una possibilità entro cui guardare per affrontare la catarsi aristotelica che chiede di riconoscersi peggiori e non migliori.

Non vogliamo che i giornali ci raccontino il male perché abbiamo terrore di riconoscerci in esso. “Macbeth siamo noi”

Ai giornali neghiamo l’utilità di scandagliare l’orrore: abbiamo ragione. Non è un’operazione utile, non serve a redimere il male. Tuttavia, la furia che recapitiamo all’informazione, quando ci serve il racconto del male, è la manifestazione del nostro terrore di riconoscerci parte di esso non perché abbiamo costruito il consesso che lo ha allevato, ma perché quel male ci riguarda perché ci abita. “Il Macbeth fa paura perché siamo noi”, ha dichiarato Branciaroli. “Maestà, Lady Macbeth è morta”: a questo annuncio, Macbeth risponde “avrebbe dovuto farlo prima”. A Roma, il pubblico ha riso. Perché Branciaroli ha pronunciato quella frase immettendola dentro la tragicommedia del matrimonio, della sua alienazione, dell’automazione della volontà di un coniuge a opera dell’altro. In quel momento e nei numerosi altri in cui Branciaroli lascia che in Macbeth ci si identifichi sorridendo a una sua battuta, ci viene dimostrato che la vicinanza a un assassino non è solo sindrome di Stoccolma, né estroversione del proprio lato oscuro, ma naturale empatia tra esseri umani fatti di un bene e un male che scivolano l’uno uno nell’altro, correndo come biglie. “La realtà non è sempre come la desideriamo”, ha scritto il direttore Fontana. Dentro questa realtà, esiste anche un male che non è degenerazione, deviazione oscena, buio nella mente, crollo. Ma la domanda sul male è, prima che una domanda sulla realtà, un interrogativo sull’umano. “Se Dio non esiste, allora tutto è permesso”, scrisse Dostoevskij nei “Fratelli Karamazov”, intendendo che Dio era il solo deterrente all’azione malvagia, arbitraria, insolente e prevaricatrice e dissipando così anche l’illusione socratica di una umanità buona (o cattiva solo per ignoranza del bene).

Un’umanità dove il bene fosse naturale e il male innaturale, non avrebbe avuto bisogno del timore di Dio. Ma Dio non è solo un deterrente: è il senso. La tensione finale. La ragione per cui combattere il male, espellerlo da noi oppure, di converso, la ragione per farlo nostro, la nostra fame demoniaca. Quando Meursault ne “Lo straniero” di Camus uccide l’arabo, lo fa dentro una luce abbagliante. La stessa che inonda il selfie di Daniela Poggiali, sorridente accanto a un’anziana paziente morta. L’infermiera, tristemente inserita nel filone di serial killer soprannominato “angeli della morte”, è stata condannata lo scorso marzo all’ergastolo per aver somministrato una iniezione letale a una paziente ultrasettantenne.

La domanda sul male è un interrogativo sull’umano. “Se Dio non esiste, allora tutto è permesso”, scrisse Dostoevskij

Sartre, quando recensì “Lo straniero”, scrisse che si trattava di un libro che arrivava dall’altra parte del mare e raccontava di un uomo che aveva ucciso un arabo a causa del sole. Gli autori francesi parlavano di resistenza, Simone De Beauvoir aveva pubblicato “I Mandarini”, il mondo aveva la febbre ed era il racconto di quella febbre che si credeva necessario. Ma arrivò Camus e parlò perfettamente del suo tempo senza parlare del suo tempo, sconvolgendone per sempre la coscienza. Un assassinio alla luce del sole, per causa del sole: abulico e, per questo, persino più agghiacciante del massacro di Luca Varani, che i suoi assassini, Manuel Foffo e Marco Prato, lo scorso anno, confessarono di aver commesso per “vedere che effetto faceva”. Anche Varani e Foffo hanno agito per rispondere a una richiesta della propria immaginazione. Anche nel loro caso, ricorremmo ai traumi, ai rimossi dell’infanzia pur di non interrogare l’umano, che è pratica impolverata e novecentesca, del tutto in disuso, ma che abbiamo in qualche modo trascinato, trasfigurandola, nella domanda sulla natura, cui abbiamo risposto dandole caratteri buoni e razionali, scientifici, cioè del tutto a nostra immagine e somiglianza. Per questa ragione, in fondo, non accettiamo che una valanga possa travolgere una baita. Se accettassimo che la natura fa il suo corso indipendentemente dalla nostra incolumità, dovremmo riconoscere una matrigna in quella grande madre cui proponiamo un ritorno per abbattere le differenze tra noi. “Si dice terraferma, ma si sa bene che è un’illusione”, scrive Carrère ne “L’avversario”, il romanzo che lo ha consacrato re dell’auto-fiction e che racconta la vicenda di Jean-Claude Romand, cittadino borghese al di sopra di ogni sospetto che, nel 1993, sterminò tutta la sua famiglia poiché le bugie che aveva raccontato (di essere un medico, avere una avviata e brillante carriera) a parenti e amici, avevano cominciato a scricchiolare. L’illusione, come l’immaginazione, è un diritto e un istinto. Guai a credere di esserne sprovvisti: è questo il delitto che Macbeth ha commesso contro sé stesso. Guai anche a non ascoltare Tiziano Ferro e Carmen Consoli, quando cantano che c’è una differenza tra prossimità e vicinanza e che il conforto ha a che fare con noi. Il fallimento educativo non è un assassino, ma ci conforta pensarlo. E’ proprio un conforto che ha a che fare con noi.

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