Il generale Rodolfo Graziani nella fotografia di copertina di Life nel giugno 1940

Graziani proibito

Maurizio Stefanini

Il suo borgo gli ha fatto un monumento: il sindaco rischia il carcere per apologia del fascismo. E’ andata meglio con regicidi e terroristi

In Italia, legalmente, si può dedicare una via a un terrorista colpevole dell’omicidio di un capo dello stato? Si può, si può. Si può dedicare un monumento a un foreign fighter jihadista che ha guidato in combattimento migliaia di uomini contro soldati italiani? Si può, si può. Si può intitolare una strada a un bandito colpito da 17 mandati di cattura di cui 7 per omicidio? Si può, si può. In Italia, legalmente, si può erigere un sacrario a un generale che si schierò con la Repubblica sociale italiana? No, questo non si può! Per averlo fatto, un sindaco si è appena visto minacciare due anni di reclusione, e due assessori della sua giunta un anno e sette mesi. E non per il fatto di aver cambiato le carte in tavola a un finanziamento pubblico di 180.000 euro che la regione aveva destinato a un anonimo “Monumento al soldato” e che invece è stato poi intitolato a un personaggio contestato. No: sindaco e assessori rischiano la galera per “apologia del fascismo”. Il generale cui non si possono dedicare sacrari si chiamava Rodolfo Graziani. Fu via via il colonnello più giovane della storia d’Italia, grado ottenuto nella Grande guerra al costo di tre ferite in combattimento; il generale che durante il fascismo “pacificò” la Libia; il comandante delle forze italiane in Somalia durante la Guerra italo-etiopica; il viceré dell’Africa orientale italiana; il comandante della forze italiane in Nordafrica all’inizio della Seconda guerra mondiale, destituito però da Mussolini e minacciato perfino di fucilazione dopo una disastrosa sconfitta con gli inglesi; infine, il comandante delle Forze armate della Repubblica sociale italiana.

 

A chiedere il carcere per sindaco e assessori e sigilli per il monumento inaugurato nell’estate del 2012 è stato Francesco Menditto, procuratore capo del Tribunale di Tivoli. Gli amministratori minacciati sono il sindaco Ercole Viri, l’assessore alla Cultura, Sport, Turismo e Politiche giovanili Giampiero Frosoni e l’assessore ai Lavori pubblici e Urbanistica Lorenzo Peperoni. E il comune è Affile: circa 1.600 abitanti a 634 metri di altezza, in quelli che sono appunto chiamati Monti Affilani. Ultimo comune della provincia di Roma prima di quella di Frosinone, e produttore di un pregiato vino doc noto come Cesanese di Affile. In realtà il maresciallo Graziani era nato, l’11 agosto 1882, non ad Affile ma a Filettino: comune di neanche 600 abitanti a 1.075 metri di altezza e a una ventina di chilometri di distanza. Infatti tra 1938 e 1945 era stato ribattezzato Filettino Graziani, in concomitanza con la donazione del palazzetto in cui una trentina di anni fa è stato approntato un museo civico. Lì però accanto a Graziani nel progetto furono inclusi anche l’umanista rinascimentale Martino Filetico e l’eroina risorgimentale Giuditta Tavani Arquati, e inoltre nella documentazione furono incluse anche una cinquantina di tele etiopiche in cui i soldati italiani “cattivi” erano disegnati con un occhio solo, e l’immenso Polifemo Graziani sul suo cavallo bianco appariva come il più minaccioso di tutti. Così, l’“apologia del fascismo” fu evitata. Graziani aveva inoltre una famosa tenuta ad Arcinazzo: altri 1.500 abitanti tra 800 e 900 metri, confinante con Affile.

 

Lì ci fu nel 1953 un famoso “abbraccio” con Andreotti, che lo stesso Divo Giulio così spiegò in un’intervista con Oriana Fallaci: “C’era stato un convegno del Msi ad Arcinazzo, e Graziani era presidente del Msi. Ciò mi aveva preoccupato perché in Ciociaria non v’era famiglia che non avesse ricevuto da Graziani un piccolo favore e non mi piaceva che Graziani raccogliesse voti. Così indissi una specie di controraduno democristiano e, appena giunsi, trovai il questore pallidissimo: ‘Tra la folla c’è il maresciallo Graziani!’. Risposi che non me ne importava nulla e feci il mio comizio spiegando che la democrazia non si discuteva. Finito il comizio, si alzò un vocione: ‘Posso parlare?’. Era lui. ‘Prego, parli pure. Siamo in democrazia’, gli dico. E lui viene al microfono e dice: ‘Ah, io non m’intendo di politica ma devo ammettere che se si è fatto opera di rimboschimento su queste montagne, su queste vallate, lo si deve a De Gasperi’. Roba da operetta. Infatti si fa avanti un vecchietto, un democristiano, e replica: ‘Marescià, allora perché dite che la Dc è il nemico numero uno?’. E Graziani: ‘Chi dice così è un coglione’. E il vecchino: ‘Marescià! L’ha detto De Marsanich’. E Graziani: ‘E’ un coglione anche De Marsanich’”. All’epoca segretario di quello stesso Msi di cui Graziani era presidente. Che c’entra allora Affile? E’ che lì era nato suo padre Filippo Graziani: medico di paese che concordi testimonianze descrivono come bravo, ma completamente spiantato. E ad Affile i genitori lo riportarono quando aveva sei anni, per fargli frequentare una scuola elementare in cui era lui l’unico bambino con le scarpe, in mezzo ai compagni scalzi. Proprio per via di questa povertà Graziani non aveva potuto frequentare l’accademia, e solo grazie a un concorso per sottotenenti di complemento era riuscito a diventare ufficiale effettivo: al costo di stare per tre mesi senza stipendio, e quasi senza mangiare.

 

La caparbietà nell’imparare l’arabo e il tigrino gli spianò una carriera da ufficiale coloniale in Eritrea; il morso di un serpente e la malaria rischiarono di compromettergliela. Anche dopo il balzo in avanti nella Prima guerra mondiale continuava a sentirsi talmente a disagio, per non aver frequentato l’accademia, che si congedò, provando a inventarsi commerciante di tappeti nel Caucaso. Ma con esiti fallimentari. Solo grazie a una raccomandazione di Giolitti, compaesano di sua moglie Ines, riuscirà a farsi riammettere in servizio. E, Giolitti a parte, da giovane Graziani aveva simpatizzato per il Partito socialista, al punto da partecipare a proteste davanti all’ambasciata zarista e da rischiare l’espulsione dal corso ufficiali per essere stato sorpreso da un superiore a leggere l’Avanti! Ma sarebbero state le guerre coloniali di Mussolini a dargli l’occasione di emergere, e per questo Graziani divenne il “generale fascista” per antonomasia. Ovviamente, quelli erano conflitti in cui per vincere non bastava sapere l’arabo e il tigrino o avere un naturale istinto per la guerra di bande, ma bisognava anche essere pronti a ogni spietatezza: gas; deportazioni di massa; impiccagioni; decapitazioni; rappresaglie sui civili. Crudeltà coloniale e complessi di inferiorità da infanzia povera avrebbero appunto creato il micidiale cocktail cui è legata gran parte della cattiva reputazione di Graziani. Ma comandante dell’esercito di Salò lo divenne, più che per fedeltà a un Mussolini che l’aveva trattato da capro espiatorio, per fare dispetto a un Badoglio che secondo lui gli aveva sempre ostacolato la carriera.

 

“Per l’Onu resta un criminale di guerra per la feroce repressione della rivolta libica all’occupazione italiana. A questo si aggiungono le numerose stragi anche di civili nella guerra di Etiopia, o il decreto che ordinava l’esecuzione dei renitenti alla leva durante la repubblica di Salò”, ricordava il comunicato con cui l’Anpi aveva protestato contro il Sacrario. Nel 1945 Graziani riuscì a consegnarsi agli Alleati, e così scampò al bagno di sangue di fascisti del post 25 aprile. Processato dal 23 febbraio del 1950, tra sconti di pena e computo dei periodi di prigionia e carcere già trascorsi, riuscì a tornare in libertà già il 29 agosto, e allora se ne andò appunto ad Affile, ospite delle sorelle Lavinia e Lidia. Accettò di fare il presidente del Msi, ma come dimostra la vicenda di Andreotti agiva più per fare da punto di riferimento a reduci e nostalgici che non per un vero e proprio disegno politico. Morto a Roma l’11 gennaio del 1955, ad Affile è sepolto, al cimitero vecchio. E ad Affile lasciò anche l’eredità di un comune che fu praticamente l’unico ad avere un sindaco del Msi per tutta la Prima Repubblica. Ma qui il lettore permetta che la storia e la cronaca lascino il posto alla testimonianza personale. L’autore di queste note è nato 16 anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, e non pretende di vantare benemerenze antifasciste. Però si è laureato con una tesi di laurea in Storia resistenziale che fu premiata da un’associazione di ex partigiani, e ogni 25 aprile porta i figli in visita in qualche luogo emblematico di quelle vicende. L’anno scorso, ad esempio, al Museo della Liberazione di Via Tasso. Quest’anno, alle Fosse Ardeatine. Affile, però, è il paese di mia madre, e la tomba del maresciallo Graziani è appena a qualche decina di metri da quella dei miei nonni.

 

Al Comune ha lavorato a lungo un mio zio, che si trovava spesso a rispondere al telefono quando in epoca pre Internet enti di vario tipo chiamavano per informazioni statistiche. Come raccontava, la piega che prendeva la conversazione quando lui rispondeva che il sindaco era del Msi era quasi standard. “Ha detto del Psi? Non si sente bene?”. “No, no! Non Psi. Emme Esse I. Mo-vi-men-to So-cia-le I-ta-lia-no”. In realtà, più che nella tragedia qua stiamo nel vaudeville. Lo confesso: in famiglia la mamma per quelle nostalgie dei suoi paesani l’abbiamo sempre presa bonariamente in giro, e più che la “Predappio laziale” di cui qualcuno blatera in realtà l’impressione che Affile ci ha sempre dato è stata piuttosto quella di una Nusco o di una Ceppaloni ciociara. Un’Arcadia di montagna in cui, non avendo altro a parte Graziani e il vino, hanno dedicato al maresciallo lo stesso culto campanilista per cui, appunto, nella citata Nusco è diventato sindaco Ciriaco De Mita, e nella citata Ceppaloni Clemente Mastella. Certo, il curriculum di Graziani ha aspetti più foschi, rispetto a quei rispettabili “Cinghialoni” della Prima Repubblica che oggi in molti rimpiangono. “Sono molto soddisfatto poiché è stata chiesta dalla Procura una condanna per apologia del fascismo, aspetto per il quale in Italia bisogna battersi ogni volta”, è stato il commento di Emilio Ricci dell’Anpi, che insieme ai comuni di Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema, comuni simbolo della Resistenza, si era costituito parte civile. Non c’è dubbio: la Costituzione italiana nasce dall’antifascismo. Però si è anche forgiata nella lotta al terrorismo. E proprio l’Anpi il 2 novembre del 2013 ha deposto fiori e una corona d’alloro presso il monumento che a Carrara è stato eretto a Gaetano Bresci: l’anarchico che il 29 luglio 1900 uccise re Umberto I, all’epoca capo legittimo dello stato italiano, e che ha avuto anche una via dedicata dalla natia Prato.

 

“Bresci sacrificò la sua vita per quegli stessi ideali anarchici e di liberazione che animavano gran parte della Carrara antifascista e partigiana”, spiegò l’Anpi. Ma l’anarchismo, a Carrara, è folklore identitario. Esattamente come Graziani ad Affile, o come Domenico Tiburzi a Capalbio: anche se nella futura “Piccola Atene” tanto cara all’intellighenzia di sinistra il più feroce dei briganti maremmani non ci era nato ma ci fu semplicemente ucciso dai carabinieri, il 24 ottobre 1896. C’è molta differenza tra la leggendaria lunga latitanza di Tiburzi, cui a Capalbio è dedicata una strada, e quelle di Riina e Provenzano? Comunque ai ristoranti La Braceria di Tiburzi e La Grotta di Tiburzi si mangia bene, l’Amaro di Tiburzi alla buccia di arancia è eccellente, e anche L’Erba del Brigante, miscela di erbe aromatiche, lascia in bocca un gusto squisito. A patto, si intende, di non essere discendente di qualcuno che Tiburzi ammazzò. Ma a parte fascismo, terrorismo e delinquenza organizzata, oggi l’Italia è con tutto l’occidente soprattutto in prima linea contro i jihadisti. E in particolare contro i cosiddetti foreign fighter: specie quando si tratta di occidentali nati nel cristianesimo e che si sono convertiti all’Islam per portarci strage e distruzione. Il termine allora non si usava, ma sicuramente rientra nella categoria Giovan Dionigi Galeni, alias Uluç Alì Pascià, alias Uccialì.

 

Nato a Le Castella nell’attuale provincia di Crotone nel 1519, stava per farsi monaco quando a 17 anni fu rapito da pirati ottomani. Messo al remo, dopo qualche anno decise di convertirsi, e ne ebbe la carriera talmente spianata da diventare comandante della flotta di Alessandria, pascià di Tripoli, governatore di Algeri, e infine comandante dell’ala sinistra della flotta ottomana a Lepanto. Anzi, fu lui a prendere il comando supremo dopo la morte di Alì Pascià, riportando a Istanbul le navi superstiti. Un ammiraglio capace, ma anche uno spietato pianificatore e esecutore di raid in cui gli abitanti delle coste italiane venivano uccisi, depredati e portati via in schiavitù. Ma per La Castella Uluç Ali rappresenta lo stesso che Graziani ad Affile, Bresci a Prato e Carrara e Tiburzi a Capalbio, e gli hanno eretto un busto in una piazza a lui dedicata: piazza Uccialì. Non solo: c’è pure un laboratorio calabrese sul Mediterraneo islamico che è stato attivato nel 2015 presso l’Università della Calabria e che ha assunto il nome di “Occhialì” in suo onore. Nostalgie innocue?

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