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Lettere

Pagheremmo tutti un prezzo se lasciassimo Israele senza una vittoria contro Hamas

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Caro Cerasa, l’allarme lanciato da Zelensky (“senza gli aiuti Usa saremo sconfitti”) ha messo di buonumore il partito della bandiera bianca, i teorici della “guerra per procura”, i geostrateghi del negoziato con Putin a ogni condizione (cioè alle sue). C’è però qualcosa di più, che alligna – e non da ora – soprattutto nell’intellighenzia di sinistra “postsessantottina”. E’ il sentimento di soddisfazione, talvolta malcelato e talvolta esplicito, per la fine del primato americano e per l’ormai inevitabile “tramonto dell’occidente”. Come è noto, così si intitola il celebre saggio storico di Oswald Spengler che affascinò la borghesia tedesca nel secondo decennio del Novecento, sconvolta dalla dissoluzione dell’impero asburgico. Allora fu letto come una diagnosi della ineluttabile decadenza di un’Europa spaventata e disorientata, non meno di quanto lo sia oggi, a poco più di cento anni dalla pubblicazione dell’opera. Come tutte le forme vitali, le civiltà – sostiene Spengler – appartengono al “mondo organico” e dunque rispondono a un principio biologico.Quando la civiltà invecchia e la sua anima si rattrappisce si passa allo stadio della “civilizzazione” (“Zivilisation”); al principio della qualità si sostituisce quello della quantità; all’artigianato, la tecnica; la massificazione dei gusti e dei costumi travolge le differenze; alla città organizzata a misura d’uomo si sostituisce la megalopoli come estrema forma di indifferentismo, un termitaio senza più una dimensione umana; l’edonismo e il denaro sono i soli valori riconosciuti. In Italia, Benedetto Croce consigliò i lettori di Spengler di “fare gli scongiuri” prima di prendere in mano il suo testo. Al contrario, oggi sembra tornato di moda. In fondo, la simpatia per l’autocrate del Cremlino di molti nostri intellettuali “spengleriani” ha anche una ragione culturale: l’astio per i valori del liberalismo.

Michele Magno


 

Al direttore - A noi foglianti piacciono i numeri e le statistiche. Nel mondo ci sono 2 miliardi di musulmani e solo 15 milioni di ebrei. Il Telegraph ha rilevato che in Inghilterra solo un musulmano britannico su quattro ritiene che Hamas abbia commesso omicidi e stupri in Israele. E questi sarebbero i più influenzati dalla cultura occidentale delle libertà. Non voglio pensare a una indagine sulla popolazione universitaria in Italia. Con questi numeri, si potrebbe decretare facilmente sia per natalità sia per potenza mediatica e dei suoi consumatori (la Bbc e le sue genuflessioni ad Al Jazeera ne sono un esempio) quale sarà la fine di Israele nel prossimo futuro. Vorrebbero tutti che facesse la fine degli armeni, dimenticati dopo il genocidio (in questo caso vero) e sporadicamente ricordato da pochi appassionati di storia, noi tra questi. C’è un solo numero che forse potrebbe ribaltare il tutto, aggrappandosi al suo solito ottimismo, ed è quello dei circa 200 ebrei premi Nobel. Sarà la cultura forse e la sua diffusione in alcuni paesi oscurantisti a difenderci.

Enrico Cerchione

Ha scritto ieri sul Wall Street Journal Gerard Baker che se si impedisse a Israele di sconfiggere Hamas non dovremmo farci illusioni su cosa ciò significherebbe per il futuro della democrazia. Se, sotto la pressione della politica democratica interna e dell’opinione pubblica globale, l’Amministrazione Biden imponesse un cessate il fuoco che lasciasse  il nostro più stretto alleato nella regione a corto di vittoria su un nemico che cerca di distruggerlo, prima o poi pagheremmo tutti un prezzo. Perché, se non fosse chiaro, il futuro della democrazia occidentale dipende dalla vittoria di Israele. Non siamo ottimisti a tal punto da considerare popolare questa riflessione ma siamo realisti a tal punto da continuare a credere che difendere Israele, che come capita alle democrazie dovrà rispondere anche degli errori commessi in guerra, significhi difendere il diritto delle democrazie a credere in sé stesse. Non ci vuole un Nobel per capirlo.


 

Al direttore - E’ da tempo che continuo a riflettere come rispondere alle tante (ma accomunate da una stessa sindrome antioccidentale) minoranze rumorose che condizionano il nostro quotidiano e influiscono, ahimè, sull’opinione pubblica. Non posso fare a meno di ricordare come negli anni 70 un segnale forte venne dalla marcia dei 40.000 che esprimeva sì il disagio, ma anche la volontà di sostenere la democrazia da parte della cosiddetta “maggioranza silenziosa”. Penso che sia il tempo di una nuova “marcia” per difendere il senso, i valori e i contenuti della nostra democrazia occidentale. Perché il Foglio, che nel panorama dell’informazione italiana è forse l’unico punto di riferimento coerente con tale visione, non prova a organizzarla? Non so né immagino con quali prospettive di successo, ma forse varrebbe l’impresa almeno come ulteriore forte testimonianza dell’impegno profuso quotidianamente dal suo giornale.

Tino Giannini 

Chissà. Grazie.
 

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