Lettere

L'antica propaganda anti israeliana dietro alla menzogna dell'apartheid

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Sabato prossimo, Giorno della Memoria, un sedicente movimento degli studenti palestinesi manifesterà a Roma “Contro ogni sionismo e fascismo; contro la pulizia etnica dei palestinesi; per la fine immediata del genocidio e dell’occupazione; per la fine dell’assedio imposto a Gaza; per la fine della complicità e del sostegno al sionismo del nostro governo”. La provocazione è disgustosa, ma è il degno epilogo di una rabbiosa campagna antisemita portata avanti in questi mesi da centri sociali, gruppuscoli del sovversivismo rossobruno e, acer in fundo, da intellettuali e accademici in cerca di visibilità. Diceva André Marlaux che in ogni minoranza intelligente c'è una maggioranza di imbecilli. Qui siamo in presenza di una maggioranza di imbecilli senza una minoranza intelligente. Intanto a sinistra, per usare un eufemismo, se ne stanno tutti “zitti e buoni” (come recita la canzone dei Maneskin)
Michele Magno

La menzogna dell’apartheid, come ricorda giustamente il Wall Street Journal, riecheggia una vecchia propaganda anti israeliana di stampo sovietico. Allora, come oggi, lo scopo di questa propaganda è quello di “contrassegnare Israele come un paese fuori dagli schemi, al di fuori della comunità delle nazioni, e quindi legittimo ad essere attaccare, anche con il terrorismo”. In una risoluzione delle Nazioni Unite del 1982, ricorda ancora il Wsj, il blocco sovietico e quello arabo si unirono per affermare, rispetto a Israele, “la legittimità della lotta… con tutti i mezzi disponibili, compresa la lotta armata”. Ci si può girare attorno finché si vuole ma le radici dell’odio contro Israele sono anche queste.

 


 

Al direttore - Giorgio era il secondogenito di quattro fratelli. Mancino naturale, aveva un tiro secco e fulminante che non lasciava quasi mai scampo al portiere avversario. Era la nostra punta di diamante e nelle sfide con i vicini rivali dei lotti della Garbatella era sempre determinante. Tifava Cagliari, o meglio, giggirriva. E non poteva essere altrimenti all’inizio degli anni settanta. Giggirriva e il suo Cagliari avevano aperto i seventies con il miracolo calcistico dello scudetto in terra sarda. Cosa unica e irripetibile. Riva  aveva un tiro potentissimo, una agilità da acrobata ed uno stacco di testa da cestista. Giorgio cercava di emularlo; e dal bianco e nero dei filmati delle partite in tv cercava di imitare le sue gesta, ridandogli il colore della realtà, per quanto possibile. E proprio quel bianco e nero, la rarità delle immagini e la preponderanza dell’immaginazione dei ragazzini erano i motivi che facevano di giggirriva un semidio. Col suo fisico possente, con il suo profilo spigoloso, con la smorfia tenebrosa e con la sue poche ma accurate parole arrivava a noi come un eroe greco, un messaggero degli dei con le ali alle caviglie e la velocità del vento. Giorgio è da un po’ di anni che non lo incontro. Avrà la sua degna vita, immagino. E avrà ancora la sua vecchia maglia rossoblù, quella con il colletto a V. E forse oggi Giorgio la starà cercando per indossarla un’ultima volta, in omaggio a giggirriva che se ne è tornato dagli dei. Perché è al loro fianco che deve stare chi è stato capace di scegliersi un popolo da rappresentare e una terra da amare, pronunciando, col coraggio degli intrepidi e la serenità degli onesti, un semplice no. No agli “squadroni del nord”, no alla gloria spesso vana dei titoli dei giornali, no al potere dei politici d’accatto. La morte di giggirriva ci lascia in eredità una responsabilità semplice eppure più che mai necessaria: saper dire no. Gratzias pro semper  Giggirriva
Andrea Panzironi, tassista