Donald Tusk (foto di Beata Zawrzel/NurPhoto via Getty Images) 

le lettere

Stanchi dei politici che si dicono stanchi dell'Ucraina (Tusk dixit)

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - La regia del “Don Carlo” scaligero può non piacere, ma non penso che qualcuno rinunci a vedere quest’opera per una regia troppo tradizionale, e non mi sembra che il Foglio, giornale di livello culturale alto, abbia mai dato rilievo in prima pagina alle sconcezze che spesso nei teatri italiani allontanano il pubblico. All’opera di Roma il “Mefistofele” è stato cantato da personaggi in pigiama bianco con ambientazione conforme, a Como è andato in scena un “Don Carlo” in cui l’inquisitore era (anche lui) in pigiama, l’ambientazione erano i soliti anni 20 vagamente mafiosi, gli abiti leggings e t-shirt nere. Rivoltelle a gogo, un paio di donne picchiate e ammazzate in scena così, per venire incontro alla moda. Novità? No, da sessant’anni chi ancora prova ad andare a teatro rischia di dover sopportare questo ciarpame. Scandalo? No. Noia e disgusto, gente che si alza e se ne va, vaccinata dalla tentazione di vedere l’opera se non per mezzo dello schermo, e naturalmente la stampa non ne riferisce niente. Il fine infatti è quello di procurare fama (incerta) e cachet (sicuri) a una categoria di “registi” che probabilmente non sa leggere né lo spartito né il libretto ma, mentre un soprano stonato non può essere giustificato e un direttore d’orchestra che non conosce lo spartito non può essere imposto al pubblico, la sofisticata vaghezza degli obiettivi della regia ha permesso alla politica di imporre nei teatri gente che trasforma il palcoscenico in un circo Barnum a propria immagine e somiglianza: squallore, sberleffo e ignoranza. Il pensiero comune si inchina, i registi che si attengono alla tradizione sono doverosamente riprovati e l’opera lirica, con la sua dignità, spiritualità e splendore esaltati da regie spesso creative, nel rispetto del testo e delle indicazioni dell’autore (e questa è la sfida), emigra in Cina, in Russia, in Oman. Che può essere anche una buona cosa.
Anna Maria Mazziotti


  

Al direttore - Assisi: c’è chi marcia per la pace e chi sulla pace ci marcia. Post scriptum: non c’è nessuno (Schlein-Conte-Fratoianni-Landini-Acli-Anpi-Arci…) che abbia chiesto – e chieda – a Hamas la liberazione degli ostaggi come condizione di un cessate il fuoco umanitario a Gaza. Non c’è nessuno, tra i leader del sedicente e scolorito fronte progressista, che abbia chiesto – e chieda – a Putin il ritiro dalle regioni occupate con la forza come condizione di un cessate il fuoco (umanitario e politico) in Ucraina. Siete così ipocriti/ che quando l’ipocrisia vi avrà ucciso/ sarete all’inferno/ e vi crederete in paradiso (Pasolini pluralizzato).
Michele Magno

  

“Non ne posso più di ascoltare politici che parlano di fatica sulla situazione in Ucraina”. Firmato Donald Tusk. Da tatuarselo subito sul polpaccio.


  
Al direttore - Se non proprio tutti, certo la maggior parte dei femminicidi non è conseguenza di uno scoppio improvviso di ira irrefrenabile: in ognuno di essi c’è una qualche forma di premeditazione, anche se non nel senso strettamente giuridico del termine. L’omicida ha avuto modo di essere cosciente delle conseguenze del suo atto; sa che verrà catturato, anzi sovente è lui stesso a consegnarsi; sa la conseguenza inevitabile a cui va incontro, non meno di 21 anni di reclusione. E io non riesco a immaginare che cosa possa suscitare nell’omicida un sentimento più forte dell’istinto di sopravvivenza, un sentimento che solo la scomparsa della donna possa sedare. Mi sembra quindi che il suicidio, a volte attuato, più sovente immaginato, sia una pulsione che non segue, ma che precede l’atto: i 106 femminicidi (2022) dovrebbero quindi essere contati anche nel novero dei suicidi, almeno di quelli tentati: 3.686 nel 2020, uno ogni 16 ore nel 2022, 822 (oltre a 763 tentati) da inizio anno. Se è così, le cause del femminicidio vanno ricercate non solo nella distorsione del rapporto con le donne, ma anche nell’incapacità di reggere i dolori della vita. E quindi le iniziative per eliminarlo non devono solo essere di educazione relazionale, ma anche di forza per resistere alle difficoltà della propria vita e di capacità di trovare mezzi per superarle. All’origine non c’è tanto la lesione dei presunti diritti del patriarcato, quanto l’incapacità di adempierne ai doveri.
Franco Debenedetti

   

E aggiungerei, caro Franco, che vi è un elemento in più da considerare. Ogni uomo che pratica violenza nei confronti di una donna mostra un grave vulnus della società (e le parole del papà di Giulia Cecchettin andrebbero tatuate come quelle di Tusk). Ma ogni volta che si considera la società occidentale come l’esempio plastico dell’incapacità che si ha nel difendere una donna bisognerebbe ricordare anche che il modello occidentale, più che essere denigrato, andrebbe migliorato, certo, discusso, ovvio, ma anche difeso ed esportato magari in quei paesi, come quelli regolati dalla sharia, dove, come abbiamo avuto modo di dire, la violenza sulle donne non è un problema perché semplicemente è stata istituzionalizzata.


 

Al direttore - La  presenza di Musk alla festa di Fratelli d’Italia è sicuramente interessante. Sarà interessante vedere un extraterrestre atterrare nel villaggio dove si mangia solo italiano. Musk probabilmente è quanto di più vicino ci può essere a un anarcocapitalista. E’ insofferente alle regole e ultra liberista. Inneggia al futuro e detesta le tradizioni. Tratta i dipendenti in modo poco gentile diciamo così. Pretende anche di utilizzare la sua enorme ricchezza per influenzare l’opinione pubblica mondiale. Più o meno l’opposto delle idee di quella destra sociale che ancora vorrebbe guidare le danze. Ne verrà fuori qualche cosa di positivo? Se dà una mano a smuovere quel coacervo di idee confuse che anima il pensiero economico della destra meloniana e a convincere Lollobrigida che il cibo del futuro non è la carbonara, perché no? 
Chicco Testa

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