Lettere
Non si può giocare con le parole: si chiama islamismo, non liberismo
Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa
Al direttore - La libertà viene prima, come ben sanno gli ucraini e le donne iraniane: “Alla fine, ho scelto la libertà. Infatti, anche se la giustizia non si realizza, la libertà mantiene il potere di protestare contro l’ingiustizia” (Albert Camus, “L’uomo in rivolta”, 1951).
Michele Magno
“Il regime della Repubblica islamica non ha portato altro che sofferenza e oppressione per l’Iran e gli iraniani. Il popolo dell’Iran merita libertà e prosperità e la loro insurrezione è legittima e necessaria per ottenere i loro diritti”. Le parole tra virgolette, a proposito di libertà, sono quelle di Badri Hossein Khamenei, la sorella della Guida suprema della Repubblica islamica Ali Khamenei. Sono parole che consigliamo ai piccoli genietti del Mulino, convinti che i manifestanti iraniani, ostaggi evidentemente anche loro come il Pd della terza via blairiana, protestino contro il regime per via del neoliberismo degli ayatollah (lo hanno scritto davvero). E sono parole che ci offrono una ragione in più per essere vicini a chi andrà in piazza a Roma, oggi, per manifestare contro la tirannia iraniana, che uccide i ribelli non perché ostaggio del mercatismo neoliberista ma perché ostaggio di un’ideologia più complicata da condannare: la violenza furiosa ispirata dall’interpretazione letterale del fondamentalismo islamista. Scendere in piazza oggi aiuterà anche a ricordare che per difendere la libertà, e non combattere contro il Mulino a vento, occorre, prima di tutto non giocare con le parole e chiamare le cose con il loro nome. Si chiama islamismo, non liberismo.
Al direttore - Caro Cerasa, poiché il Consiglio europeo propone di stabilire un tetto all’utilizzo del contante in diecimila euro, con la conseguenza di rendere vietate le transazioni in contanti pari o superiori a tale importo, questa materia potrebbe essere finalmente esaminata con un nuovo approccio, superando le posizioni sia di chi vede in tale decisione la conferma delle proprie tesi favorevoli a un tetto italiano di cinquemila euro, sia di chi ritiene, invece, eccessivo quest’ultimo limite, facendo derivare tale convincimento – anche se non si capisce come – dalla proposta comunitaria, la quale ora deve passare al “trilogo”. La via della fissazione del tetto europeo (anche, ovviamente, a un limite inferiore, facendo i conti con la Germania e altri paesi che non hanno un tetto del genere) è quella maestra, in un contesto di integrazione dei mercati, dei capitali e di libertà di movimento delle persone. La finalità, come confermato dall’Unione e come sostenuto da molti – quorum ego – è l’antiriciclaggio. La finalità, invece, anti-evasione richiede un’impostazione più completa e organica perché non si possa ricavare solo dal riciclaggio, come ipotesi di reato presupposto. Comunque, un atteggiamento, nell’esaminare questa materia, non “sine ira ac studio”, come dovrebbe essere, ma con pregiudiziali contrapposte non giova, come del pari non giova risalire, da questa specifica questione, per porre questioni istituzionali contrapposte. Con i migliori saluti.
Angelo De Mattia
Al direttore - Ho sempre provato istintiva simpatia per Aboubakar Soumahoro. E per le storie di tante donne e uomini per lo più dimenticati che intendeva rappresentare. Molta meno simpatia, invece, l’ho provata per i suoi promoter, per tutti i farisei di certa sinistra, per i campioni della doppia morale, per quelli che empatizzano dal salotto e hanno sempre il dito puntato contro qualcuno. Soumahoro è stato coraggioso a presentarsi a “Piazzapulita”. Coraggioso ma incosciente a presentarsi senza uno straccio di argomento, senza una risposta decente. Col “diritto alla moda e all’eleganza”. E da quella intervista è uscito malconcio. La maschera dell’eroe senza macchia è caduta. E dietro il simbolo è comparso un uomo, con tutte le contraddizioni e le difficoltà che ogni vita porta con sé.
Già quell’incredibile video con le lacrime – un tutorial dell’ipocrisia – in cui dopo averle asciugate si scagliava contro un generico “voi”, colpevole della situazione in cui si trova, suonava a coccio. Anche perché gli era sufficiente affacciarsi nella stanza accanto per individuare i responsabili della sua delegittimazione. Soumahoro non ha nessuna indagine a suo carico: è dovere di ogni garantista riconoscerlo e difenderne l’onorabilità. Ma c’è un piano politico. E su quel piano la narrazione che ha fatto di lui un simbolo è saltata in aria, spazzata via, cancellata. Dall’ipocrisia di propagandare idee che non si rispettano prima di tutto in casa propria. E dalla legittima sensazione di essere presi in giro di tante vittime del racket dell’immigrazione e dello sfruttamento. Questa storia non dovrebbe portarci a lapidare Soumahoro, come è stato fatto con tanti prima di lui. Semmai a guardarlo nella sua umanità, fatta di errori e contraddizioni. Ma dovrebbe insegnarci una cosa: a cancellare una volta per tutta questa cultura del bianco e del nero, degli avversari come nemici, quel manicheismo ideologico e tossico che inquina il dibattito pubblico, che divide il mondo in eroi e criminali. In “uomini e no” come quella vergognosa copertina dell’Espresso in cui l’uomo era Soumahoro e il mostro Salvini. I cui sacerdoti oggi, cinicamente, scaricano il loro paladino con la stessa velocità con cui lo hanno idealizzato.
È questo integralismo che dobbiamo condannare, ciò che dovremmo davvero lasciarci alle spalle. Per sempre. Senza dimenticare i tanti invisibili che restano, dopo essere stati strumentalizzati e presi in giro. E che ora rischiano di scomparire di nuovo.
Luciano Nobili
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