Enrico Letta (Ansa)

Lettere

Il tic della sinistra che dice semipresidenzialismo uguale fascismo

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Rublexit.
Giuseppe De Filippi


 

Al direttore - Par di capire che non solo in Svizzera, ma anche in Russia esiste il suicidio assistito (per i dissidenti).
Michele Magno



Al direttore - Dal buco nero di una campagna elettorale dominata da sondaggi che già celebrano alcune ineluttabilità negli esiti, alimentando così la voglia popolare di concedere l’amorevole soccorso alla leader di Fratelli d’Italia secondo l’aforisma flaianeo, spunta, di tanto in tanto, la questione delle riforme costituzionali. Il tema dominante sembra essere quello del presidenzialismo – caro alla destra dai contorni ancora indefiniti, in verità (modello americano o semipresidenzialismo alla Macron? Ah, saperlo!). Ma, al di là del merito e delle bandierine che si agitano in campagna elettorale in chiave di promozione e di simmetrica detrazione, resta il tema del “come” si giunge al compimento delle riforme. In un primo momento ci era parso di ascoltare dall’on. Meloni qualcosa che somigliava a un’idea di Assemblea costituente, proposta, peraltro, coerente con un bisogno di includersi in un processo costituente da cui restò estranea la cultura politica da cui Giorgia discende, quella del “polo escluso”.

 

Negli ultimi giorni scopriamo, invece, il disseppellimento dell’evergreen: la commissione bicamerale per le riforme. E dunque capiamo che si torna a pettinare le bambole, a mettere le mucche nel corridoio e tutte quelle belle cose che l’aedo dell’aforisma politico Bersani evocava per raccontare il vuoto. Per farla breve: la storia costituzionale della Repubblica italiana ha sul groppone un bel bouquet di commissioni bicamerali istituite per portare a compimento le riforme costituzionali, produttrici di documenti eccellenti dal punto di vista scientifico ma che non sono mai riuscite a cavare un ragno dal buco dal punto di vista dell’intervento riformatore. La prima fu la Bozzi (1983-1985), seguita dalla De Mita-Iotti (1993-1994) e poi dalla D’Alema (1997), ma potremmo anche citare il tentativo di varare una commissione per la revisione dell’ordinamento della Repubblica proposto, condiviso e ammazzato nella XVI legislatura (Senato, relatore Rutelli), e, dopo il lavoro della Commissione dei dieci saggi per le riforme nominati dal presidente Napolitano, anche la commissione Quagliariello e il Comitato parlamentare per le riforme costituzionali del 2013, che non conobbe mai una vita. Insomma, un viavai di commissioni e di commissari che sembrano colpite dalla maledizione di Tutankhamon: basta evocare il nome per sapere da subito come andrà a finire. Male.

 

Ma è un problema esoterico o c’è di più? Forse bisognerebbe riflettere, con la memoria delle cose concrete e non solo delle astrazioni teoriche, che una riforma organica della seconda parte della Costituzione suppone un consenso che superi la maggioranza che in Parlamento sostiene il governo, soprattutto quando questa viene prodotta da leggi elettorali maggioritarie. Il Legislativo, infatti, che viene eletto dal corpo elettorale per esprimere leggi e dare fiducia al governo, dalla fine della Prima Repubblica viene espresso con regole elettorali contaminate dal principio maggioritario, in ossequio all’esigenza della “governabilità”. Insomma: l’alleanza che gode di una maggioranza larga è in grado di farsi la grande riforma costituzionale da sola (tra il 2000 e il 2015 ben nove leggi di riforma costituzionale su dieci, adottate con la procedura dell’art. 138, venivano votate solo dalla maggioranza di governo, cosa avvenuta, peraltro, anche con la grande riforma berlusconiana nella XIV legislatura e quella renziana nella XVII, entrambe bocciate dai referendum). Dunque la Bicamerale lavora e produce ma in Parlamento ci sono già maggioranze autosufficienti o quasi per varare la riforma dell’ordinamento. La domanda allora è: c’è bisogno di riforme dell’ordinamento? Sicuramente sì, anche perché non si può procedere, come si è fatto fino a oggi (si pensi al taglio dei parlamentari) con il metodo “spizzichi e molliche”, senza una visione coerente. E allora come si fa? Una via plausibile può essere quella adottata recentemente dal Cile: il popolo sovrano elegge una Convenzione per la Costituzione, con sistema proporzionale e voto di preferenza, per procedere alle riforme necessarie e poi sottoporsi al giudizio del voto popolare a fine lavoro. Naturalmente l’ambito di intervento dei “commissari” nel caso nostro sarebbe solo ristretto alla revisione della seconda parte della Costituzione, lasciando stare i princìpi. E’ una strada troppo ardita? Sicuramente è più appropriata e lascia nelle mani degli italiani la scelta di chi dovrà rappresentarli e la decisione finale.
Pino Pisicchio 

 

Ragionamento suggestivo. Con due appendici. Primo: le bicamerali sulle riforme di solito vengono fatte per non fare le riforme. Secondo: rispetto al tema imprendibile del semipresidenzialismo mi chiedo con quali argomenti la sinistra italiana, che il semipresidenzialismo lo sogna da anni, possa considerare una riforma di quel tipo un attentato alla democrazia. Un piccolo ripasso, per gli smemorati. Nel 1997, la Bicamerale D’Alema propose di riformare la seconda parte della Costituzione istituendo un sistema di semipresidenzialismo fondato sull’elezione popolare del capo dello stato, con attribuzione a costui del potere di scioglimento anticipato della Camera; del potere di nominare e revocare i ministri su proposta del primo ministro; del potere di nominare il primo ministro che a sua volta aveva la fiducia presunta della Camera a meno che la Camera stessa non gliela revocasse a maggioranza assoluta. Semipresidenzialismo uguale fascismo? Molta calma, please.

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