Lettere

Tre cose da fare per una solidarietà di fatto tra Europa e Ucraina

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

й КаAl direttore  - Qualcuno crede ancora che la guerra finirà il 9 maggio?
Luca Marroni


Ieri l’autoproclamata Repubblica popolare di Donetsk (Dpr) ha deciso di cancellare la parata del 9 maggio, nell’anniversario della vittoria contro i nazisti durante la Seconda guerra mondiale, “per la minaccia di attacchi”, rinviandola a “quando i separatisti avranno preso il controllo dell’intero territorio”. Fino a oggi, abbiamo ricordato che il  9 maggio è una data importante, nel calendario russo, perché coincide con il giorno della vittoria sui nazisti nella Seconda guerra mondiale. Quel giorno però, incidentalmente, corrisponde anche alla festa dell’Europa. E coincide non solo con la vittoria sul nazifascismo ma anche con il giorno in cui venne pronunciato a Parigi il discorso di Robert Schuman, allora ministro degli Esteri del governo francese. Quella dichiarazione cominciava così: “L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”. Oggi la solidarietà di fatto dipende da ciò che l’Europa farà per aiutare l’Ucraina. E le cose da fare sono tre: armi, embarghi e Ucraina nella Ue. Il nostro 9 maggio sarebbe bello festeggiarlo così. 
 



Al direttore - Di fronte alla sfida posta dal Pnrr abbiamo la necessità di sperimentare nuovi modelli di collaborazione pubblico-privato, superando la paura e lo scetticismo che negli ultimi anni ne hanno inibito lo sviluppo. I contratti di partnership pubblico-privato (Ppp) sono stati in auge per alcuni anni. Poi, le criticità manifestatesi in alcune operazioni, ma anche vicende drammatiche e complesse, come il crollo del ponte di Genova o la chiusura dell’Ilva di Taranto, hanno via via contribuito a deteriorare la percezione del rapporto pubblico-privato e a favorire una diffusa avversione al rischio da parte di chi deve assumersi la responsabilità su iniziative di così vasta portata. Oggi non possiamo più permettercelo. Il sistema degli appalti pesa già sul pil per circa il 15 per cento; solo la sanità mobilita il 3 per cento. Le risorse del Pnrr potranno generare un impatto ancora maggiore, stimolando produttività e competitività delle imprese, contribuendo a ricostruire una filiera del made in Italy nel settore degli investimenti pubblici, fortemente compromessa da un decennio di spending review. Che cosa manca? Il coraggio di sperimentare nuove modalità di collaborazione pubblico-privato e appalti impostati in modo più strategico. L’obiettivo non può essere solo quello di mobilitare capitali o di tagliare il traguardo nella corsa alla spesa dei fondi, ma anche quello di ripensare l’intervento pubblico, attivando le competenze e le soluzioni proposte dal mercato per co-progettare gli interventi e coprodurre valore per la società, favorendo un processo di crescita del sistema – la cosiddetta legacy del Pnrr. Il progetto del cloud nazionale e quello annunciato della piattaforma nazionale di telemedicina potrebbero essere apripista per rendere il modello della partnership uno strumento ordinario e non più straordinario. Mai come ora servono manager pubblici dotati di visione e capacità di gestire progetti complessi, che sappiano assumere la responsabilità dell’urgenza e del rischio, innovare nelle procedure di gara, usando tutti gli spazi offerti dalle norme, e interagire con il privato per individuare e sperimentare percorsi di collaborazione nuovi, sostenibili e misurabili nei risultati. Diversamente dal passato, dobbiamo liberarci di una persistente e diffusa cultura del sospetto, e riconoscere che l’assunzione del rischio è un valore nella Pubblica amministrazione. Solo in questo modo possono essere affrontate le grandi sfide, dando cioè priorità alla strategia e al management, non al formalismo e alla ricerca della procedura di gara perfetta, che assicuri il non-errore.  Non servono nuove norme. Al contrario, la maggior parte delle regole va già bene e, anzi, ulteriori cambiamenti, per esempio al Codice dei contratti, potrebbero solo rallentare la corsa. Serve piuttosto una riforma culturale. In un tempo come quello in cui viviamo non ci sono vie di mezzo, o si evolve in qualcosa di più grande oppure ci si ritira in qualcosa di più piccolo. In sintesi, go big or go home!
Veronica Vecchi, professore di Relazioni pubblico-privato, Sda Bocconi School of Management
Angelo Tanese, direttore generale della Asl Roma 1

 

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