(Foto Ansa)

Lettere

La differenza tra chiedere più diritti e chiedere più punizioni

Chi ha scritto al direttore Claudio Cerasa

Al direttore - Ero a favore del ddl Zan, non perché la considerassi una proposta rivoluzionaria né perché penso che senza questa norma i gay siano meno al sicuro: esistono già delle protezioni previste dalla legge. Il ddl Zan è diventato il terreno di scontro tra due estremismi, quello vociante e twittarolo per cui se non sei a favore dello Zan sei un retrogrado oscurantista che sogna di picchiare gay e restare impunito, e quello dei novelli libertari, con tanto di boati, che hanno stropicciato a tal punto la parola e il concetto di “libertà” da farci credere che esista una libertà senza responsabilità. Ero a favore perché amo i compromessi,  perché detesto gli estremismi e le battaglie tribali e perché considero il ddl Zan un testo dignitoso che fa quello che le leggi fanno sempre, e con inevitabile ritardo: normare l’esistente. Ero a favore perché consideravo il ddl Zan un antipasto, non delizioso ma nemmeno velenoso, alla cosiddetta rivoluzione dei diritti, che è la cosa che mi interessa per davvero e che ha davvero a che fare con la libertà, nel suo senso ultimo e unico – quella libertà che vorremmo tanto in giro per il mondo ma che poi ci disturba moltissimo se sbuca nel tinello di casa. È andato tutto storto, abbiamo assistito a dibattiti invero deprimenti, le tifoserie mi sono venute a noia, così come questo odio accumulato che resta lì pronto a detonare alla prossima lotta, come accade con le scorte negli allenamenti dei galli da combattimento. Mi piacerebbe che adesso che questa contesa è finita tanto male si togliesse di mezzo l’ipocrisia e che i liberali, quelli che non si nutrono di odio e accuse, iniziassero la campagna per la rivoluzione vera, che è quella dell’uguaglianza e della parità dei diritti. Se così fosse, finalmente si vedrebbe la differenza non soltanto tra gli estremismi ma anche tra chi si riempie la bocca con la libertà e chi invece la vuole e la rispetta sul serio.
Paola Peduzzi

Fare una battaglia per avere più diritti è un conto, fare una battaglia per avere più punizioni è un altro conto. Su questi temi, la prima battaglia può avere un futuro, mentre la seconda battaglia, come tutte le battaglie simboliche, non è fatta per avere un futuro, ma è fatta solo per piantare qualche bandierina. Grazie, e viva i dibattiti foglianti. 

 

Al direttore - Il Nobel Parisi (Corriere della Sera) fa due affermazioni sul nucleare, sorprendentemente, sciatte e distoniche con la sua competenza. Primo: “Il nucleare attuale – dice Parisi – è ancora quello dell’incidente di Chernobyl”. Falso. Quello di Chernobyl era un tipo di impianto esistente in pochissimi esemplari: otto, e tutti solo nella ex Urss e nei suoi satelliti, su 542 (allora) impianti nucleari nel mondo. L’incidente ucraino del 1986, il più studiato e analizzato (dall’Onu e dalle sue agenzie di esperti) delle catastrofi artificiali umane è accertato che fu dovuto a due fattori, esclusivi e irripetibili, in altri impianti e fuori dal contesto sovietico: le specifiche  tecniche uniche di quell’impianto, pensato a scopo bellico (esempio, il  “coefficiente positivo”, che generò l’incontrollabilità o l’assenza di contenimento esterno); l’errore umano (che rasentò la follia), inconcepibile e irripetibile, fuori dal contesto di governance  di quel regime. Seconda affermazione: “Il nucleare si può fare – afferma Parisi – solo in zone lontane da persone. Quindi non nell’urbanizzata Italia”. E’ un’affermazione, mi permetto, un po’ alla Catalano, per un Nobel. Ci sono 442 (oggi) impianti nucleari (e 54 in costruzione) in 33 paesi del mondo. Tra i più urbanizzati della Terra. E non in deserti disabitati. Per localizzare una centrale nucleare, strano che Parisi lo ignori, si devono rispettare standard, norme precise, regole e obblighi di distanza, validi e controllati  in tutto il mondo. Da autorità internazionali legittimate allo scopo. Anche l’“urbanizzata” Italia, per 20 anni, ha avuto quattro centrali nucleari operative (dei cui MW oggi avremmo avuto un gran bisogno). I nuovi impianti avanzati di cui oggi si parla (che, il professore controlli, non sono più dei “disegni” ma macchine pronte che stanno entrando sul mercato), addirittura, migliorando la sicurezza,  migliorano i criteri  della distanza. Il professor Parisi  dovrebbe ricordare che nell’urbanizzata Italia i morti (a centinaia) per incidenti in impianti industriali o energetici sono stati, invece, in dighe, centrali elettriche fossili, impianti chimici che, se fossero valse  le regole di sicurezza di una centrale nucleare, non ci sarebbero stati. Anche i Nobel avrebbero il dovere della verità. 
Umberto Minopoli 

 

Al direttore - È sicuramente un bene che della differenza tra corruzione reale e corruzione percepita si discuta di fronte all’opinione pubblica, attraverso le pagine dei quotidiani e non solo sulle riviste scientifiche. È un bene, giacché è necessario sapere se i provvedimenti assunti contro la corruzione sono una risposta alla realtà o alla sua percezione. Le misure di contrasto alla corruzione, specie quando limitano diritti di libertà costituzionalmente garantiti, devono essere proporzionate, devono poter dimostrare una congruenza tra realtà dei fatti e obiettivi prefissati, rispondendo alla domanda: la politica, cui spetta la responsabilità finale delle scelte, parametra i suoi interventi rispetto alla corruzione percepita o a quella reale? Lasciamo da parte le recriminazioni e cerchiamo qualche base comune per un ragionamento condiviso sul contrasto alla corruzione, che non abbia l’effetto paradossale di mettere a repentaglio il sistema economico nazionale. In primo luogo, pare difficile dubitare che un sistema politico sano debba assumere misure di contrasto in relazione alla corruzione  reale e non a quella percepita. In secondo luogo,  un sistema politico sano si dà come obiettivo quello di far emergere i dati reali, attraverso quegli strumenti di conoscenza e di indagine che tutti i paesi mettono alla base delle proprie scelte politiche. Da un punto vista istituzionale, ci sono interventi che ben possono essere fatti senza mettere in discussione l’assetto costituzionale. La recente riforma della giustizia reca già alcune misure volte ad attribuire maggior tutela al principio di non colpevolezza. Così, il testo Cartabia (art. 1, co.9, L.134/21) stabilisce che nella “presentazione della richiesta di archiviazione… il pubblico ministero chieda l’archiviazione quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentono una ragionevole previsione di condanna”. Questa disposizione capovolge il precedente criterio guida per la valutazione tra richiesta di rinvio a giudizio e richiesta di archiviazione, finora ancorato alla  presenza di “elementi idonei a sostenere l’accusa in giudizio”. Al gip sarà richiesta una valutazione sull’esito positivo dell’instaurando giudizio e non la semplice presa d’atto della insussistenza di elementi che spingano a un’immediata archiviazione. Lo schema di decreto  prevede anche il divieto, per le autorità pubbliche, di presentare all’opinione pubblica l’indagato o l’imputato in un procedimento penale come “colpevole” prima che sia intervenuto un provvedimento definitivo di condanna, pena l’irrogazione di sanzioni penali o disciplinari e l’eventuale obbligo di risarcimento del danno all’interessato, con conseguente rettifica delle dichiarazioni rese. Oggi dobbiamo ripartire, con uno slancio diverso, per la ripresa dell’Italia e i punti fin qui rapidamente elencati ben potrebbero costituire la base di un consenso che spinga finalmente in una nuova direzione che sia, nel contempo, più giusta, più garantista, più efficiente. 
Beniamino Caravita

Di più su questi argomenti: