Il vaccino contro il virus c'è, contro l'idiozia no. Purtroppo

Le lettere al direttore del 31 agosto 2021

Al direttore - Gli estensori del decreto anti delocalizzazione sono affetti dalla sindrome di Tecoppa, il miles gloriosus che, per poter infilzare meglio il suo avversario, pretendeva da lui che rimanesse fermo. Non sarebbe possibile porre vincoli alla mobilità delle imprese a capitale straniero senza aspettarsi misure di ritorsioni uguali e contrarie. Noi avremmo da rimetterci: in Italia vi sono 15.500 aziende di questo tipo (con 1,5 milioni di occupati); le unità produttive, all’estero, controllate da imprese italiane sono 23.700, occupano circa 1,8 milioni di addetti con un fatturato di 475 miliardi di euro. Ovviamente vi sono squilibri territoriali e produttivi; ma non sembra il caso di atteggiarsi a vittime della smania di profitto  delle perfide multinazionali,  qualora, magari con poco fair play, compiono  le stesse operazioni di politica industriale della Fca quando riportò in Italia, dalla Polonia, la linea della Panda.
Giuliano Cazzola

 


 

Al direttore - Silvana De Mari, psicologa impegnata nella lotta contro il sesso anale, è passata a fare la guerra ai vaccini. In un lungo articolo su la Verità ha scritto: “Stiamo assistendo alla distruzione di ogni principio di libertà, inclusa la libertà più assoluta e sacra, la prima libertà, quella del corpo. Governi stanno imponendo l’obbligo di cosiddetti vaccini contro il virus sbagliato (i vaccini contro i virus Rna non servono perché il bersaglio è troppo soggetto a mutazioni) nel momento sbagliato (non si vaccina mai durante un’epidemia perché si scatenano mutazioni) con medicinali fabbricati usando cellule di feto abortito testati su queste cellule, e con effetti collaterali che nessuno verifica cui si aggiunge il rischio di una più grave infezione da virus delta per il fenomeno Ade”. Non so se sia pubblicità ingannevole, ma dal nome della testata uno è portato a credere che ce ne sia almeno un pochino, di verità.
Luca Marroni

 

L’importante contributo della dottoressa Silvana De Mari mi fa venire in mente un pezzo molto bello letto nel weekend sul Washington Post. Sintesi dell’editoriale del Wp. Il sogno di avere un vaccino capace di soffocare la pandemia era irrealistico e probabilmente sarà necessaria un’altra dose di richiamo. Il problema però oggi non è dei vaccini che perdono la loro efficacia nel tempo, cosa che è già successa con altre malattie come la pertosse o il morbillo e cosa che è perfettamente risolvibile con altri richiami, ma è delle persone che si rifiutano di farsi vaccinare e delle persone che si rifiutano di utilizzare alcune prassi, come continuare a mettere la mascherina, che aiuterebbero a combattere meglio la pandemia. Contro i virus, i vaccini esistono, contro l’ostinazione e l’idiozia purtroppo no.

 


  
Al direttore - La stella di Maurizio Landini sta impallidendo? Se lo chiede Dario Di Vico, attento analista dei fatti sindacali, in un articolo sull’Economia del  Corriere della Sera (30 agosto). Le discutibili quanto impopolari posizioni del leader della Cgil, complici i vertici di Cisl e Uil, sul blocco a oltranza dei licenziamenti e sul certificato verde nelle mense aziendali, le contestazioni esterne (clamorosa quella di Sergio Cofferati) e interne (la campagna pro vax lanciata dal segretario degli edili Alessandro Genovesi) sono lì a dimostrarlo. Ma non è questo il punto. Morto un papa, se ne fa un altro. Si chiede allora l’opinionista di Via Solferino, richiamando correttamente due letture di una linea piuttosto sconsiderata: crisi di leadership o crisi di un certo modello di sindacato? Non vorrei sembrare un cerchiobottista, ma rispondo: entrambe. Crisi di leadership, perché le chiavi del portone di Corso d’Italia sono ancora nelle mani di gruppi dirigenti che si sono formati nella stagione fordista, abituati a vedere nei cambiamenti demografici e tecnologici molte trappole e poche opportunità. Crisi di un modello di sindacato, ovvero di un centralismo organizzativo in contrasto con la realtà del lavoro e dell’impresa. Del lavoro frantumato e precario, i cui titolari hanno scarsa voce in capitolo nel sistema contrattuale. Dell’impresa dispersa e diffusa, che mediamente ha quattro dipendenti. Parlo di quel centralismo organizzativo che affonda le sue radici in un malinteso principio, secondo il quale la confederalità è un ordinamento gerarchico. Mentre non ha fondamento alcuno – né teorico né storico – l’identificazione dell’interesse particolare con il basso e dell’interesse generale con l’alto. Un’idea in cui è insito il rischio che le ragioni delle burocrazie sindacali prevalgano sulle ragioni dei rappresentati e dell’innovazione sociale. Mi fermo qui. Un tempo la Cgil, pur con qualche scivolata pansindacalista, cercava di essere un “soggetto politico”, forte di una capacità di proposta non comune. Oggi, di fronte alla pandemia e al Recovery plan, pare accontentarsi della mera tutela dei suoi iscritti (peraltro in calo). Sì, Luciano Lama e Bruno Trentin appartengono ormai a un’altra èra geologica.
Michele Magno