Dopo la Germania, l'Italia. W la Grosse koalition. W gli incubi di Di Maio

Al direttore - Pagata da Parlamento europeo lavorava per Di Maio Poi dice che uno fa la svolta europeista.

Giuseppe De Filippi

 

Al direttore - Sono circa trecentocinquantamila i cognomi italiani. Tra i dieci più diffusi, il primo (neanche a dirlo) è Rossi, seguito a ruota da Russo, Ferrari, Esposito, Bianchi, Romano, Colombo, Ricci, Marino, Greco. Se poi nella prossima legislatura sarà approvato un testo di legge passato alla Camera nel settembre 2014, i nostri figli potranno averne anche due. Scorrendo l’elenco telefonico, in futuro potremmo così imbatterci nel signor Carta Carbone, Campo Santo, Basso Altissimo, Spina Di Rosa. Le combinazioni più stravaganti sono potenzialmente smisurate, grazie al superamento dell’attribuzione automatica del cognome paterno, che secondo la Consulta è il “retaggio di una concezione patriarcale della famiglia”. In ogni caso, i cognomi continueranno ad affascinare il vanitoso e il curioso (con l’araldica), e l’enigmista (con i ludogrammi). Per esempio, lo sapete che Berlusconi è eterogrammatico? Niente paura, il termine non è da querela. Vuol dire semplicemente che il suo cognome, benché composto da dieci lettere, non ne ha neanche una che si ripeta. Il Cavaliere, invece, potrebbe forse adontarsi se gli spiegassimo che il suo patronimico significa “due volte losco” (“bis-luscus”). Ma sbaglierebbe. Infatti, lo è non sotto il profilo morale, ma clinico: luscus deriva da “luce captus”, ossia orbo da entrambi (bis) gli occhi; e dunque lontano parente di tutti i Del Guercio, i Guerzoni, i Guercino. Ora, qualunque sia il giudizio sulla sua figura di leader carismatico, bisogna ammettere che nel suo caso il vecchio detto latino “nomen omen” (il nome è un presagio del destino personale) non calza a pennello. Perché, mentre sembrava avviato verso un mesto riposo, per la seconda volta nella sua vita politica ha dimostrato di avere la vista più lunga tra i suoi competitori. La rinascita di Forza Italia è certamente anche frutto delle debolezze altrui, ma su un punto egli resta imbattibile: nessuno come di lui seduce le immaginazioni, proietta miti, si appella direttamente ai mutamenti antropologici (e al tempo stesso li crea). Inoltre, è la bandiera di cui nessuno dei suoi alleati può fare a meno (Matteo Salvini si rassegni), pena il rischio di essere ricacciati nelle oscurità della storia. Infine, è l’unico che può riconquistare alle ragioni del centrodestra quel terzo dei suoi vecchi elettori che lo hanno abbandonato per il M5s. Non credo alla possibilità, dopo il voto del 4 marzo, di un governo delle larghe intese. Ma credo alla possibilità di un brusco risveglio per Luigi Di Maio dai sogni di gloria coltivati grazie a un sondaggismo assai premuroso nei suoi confronti.

Michele Magno

 

In un modo o in un altro, nella prossima legislatura ho l’impressione che ci sarà un governo non troppo diverso da quello nato ieri in Germania. Viva il compromesso. Viva le larghe intese. Viva la Grosse koalition, unico antidoto al governo degli sbandati.

 

Al direttore - “Esserci o non esserci, questo è il problema’’. La formazione delle liste, chi c’è e chi non c’è e se c’è, dov’è.. Rischia di essere ricordata così questa campagna elettorale, che per il futuro del paese appare fondamentale, non già per l’esito (così appaiono tutte) ma per la credibilità stessa del nostro sistema di rappresentanza democratica, quando idee, programmi e visioni vengono relegati a orpelli. E quando resta al massimo qualche appello alla pancia, per non dire alle viscere, del paese, con la cronaca che ci restituisce episodi come il caso di Macerata, che alla tragedia aggiunge il vergognoso côté di strumentalizzazioni maldestre. Sulle liste lo psicodramma ha raggiunto dimensioni mai viste prima e non ha risparmiato nessuna forza politica. Nel Pd, Matteo Renzi, con grande sincerità, ha ammesso di aver vissuto “una esperienza umanamente devastante’’. Il dramma che si è visto un po’ dappertutto in Sicilia ha assunto toni farseschi. Qui una parte del gruppo dirigente del Pd ha dichiarato pubblicamente il suo disimpegno con un tempismo da incorniciare: non dopo la cocente sconfitta delle regionali – per la quale le responsabilità degli stessi erano peraltro evidenti – ma soltanto quando una parte degli uscenti e degli aspiranti entranti hanno capito di non essere in lista, come giocatori che, sostituiti durante la partita, una volta in panchina tifino per la squadra avversaria. Il metodo per la definizione delle liste è stato il migliore? Il partito è stato all’altezza delle diverse sfide che la Sicilia ha affrontato in questi anni? Certamente no ma non è adesso il momento e non è questo il contesto per discutere di problemi che andranno affrontati dopo il 4 marzo, e che riguarderanno il progetto politico del Pd nella regione e la composizione della sua squadra. In Sicilia si sta scherzando col fuoco, basti solo ricordare il 61 a zero subito nel 2001. E se qualcuno spera di rinverdire il motto dei neutralisti della prima guerra mondiale – né aderire né sabotare – sbaglia di grosso, perché oggi non aderire significa sabotare e sabotare significa consegnare il paese al populismo e al nazionalismo. Dopo il 4 marzo in gioco ci sarà il futuro del percorso che questa legislatura, con tutti i suoi limiti e con tutti i suoi errori, ha tracciato sia in tema di diritti e libertà che sotto il profilo della crescita economica. Fino al 4 marzo, per come vi arriveremo, in gioco c’è la credibilità stessa del nostro dirci democratici.

Valeria Ajovalasit

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