Lo Stato ritorna

In realtà non è mai uscito di scena. Si sono rafforzati i nazionalismi, ma la globalizzazione non s’è fermata

Ritorna lo Stato? Da ogni parte vi sono segni di una rinascita dello Stato-nazione: sovranismo, difesa dei confini, limiti agli investimenti stranieri. 

Lo Stato non è mai uscito di scena. Bisogna stare attenti a credere al “vento sovranista”. Lo Stato è un protagonista della globalizzazione, che è servita in larga misura per permettere a esso di svolgere compiti che non avrebbe altrimenti potuto accollarsi (controllo del terrorismo globale, del riscaldamento terrestre, dell’uso dei mari, dei trasporti, del commercio, e così via). Naturalmente, poi, lo Stato ha finito per essere condizionato dalle “macchine” sovra-statali che ha messo in piedi. Poi, lo Stato, al suo interno, è cambiato: si è frammentato, a causa del pluralismo amministrativo (diverso da quello sociale), che è però servito a tenere sotto controllo aree prima non dominate (pensi alle cosiddette autorità indipendenti). Si è appesantito entrando in campi prima estranei (ne sono esempi la regolazione delle società quotate in Borsa o la tutela dei consumatori). Un bel libro recente, quello di Sveva Del Gatto, su Poteri pubblici, iniziativa economica e imprese (RomaTre Press, 2019), conclude un bilancio molto vasto dei condizionamenti pubblici delle attività economiche affermando che, piuttosto che liberalizzazioni (e, quindi, riduzione del peso statale sull’economia), vi è stato un “riposizionamento” dello Stato controllore dell’economia. Insomma, non creda che lo Stato abbia fatto passi indietro negli anni passati e stia ora rialzando la testa. Quel che è successo è stato un ridisegno, che ora continua. 

 

Ma non si può negare che in questi ultimi anni lo Stato stia cercando di ridiventare protagonista. 

Esaminiamolo, questo neo protagonismo. Da un lato, c’è il nazionalismo economico, dall’altro quello politico. I segni del rinascente nazionalismo economico sono nel senso del colbertismo. Difficoltà crescenti fatte dagli Stati Uniti all’Organizzazione mondiale del commercio. Diffusione dei controlli nazionali su investimenti di imprese straniere. Chiusura nell’area delle nuove tecnologie. In Germania, proposta di nuova definizione di impresa dominante, sottoposta a particolari obblighi e al controllo continuo dell’Autorità antitrust, nonché proposta di istituzione di un fondo d’investimento statale per prevenire “takeovers” di grandi imprese nazionali. Esempi italiani: i tentativi di assicurare la sicurezza cibernetica, la proposta di fissare per legge il salario minimo, il diffuso sospetto nei confronti del ricorso alle concessioni e dei concessionari, il “golden power”. Giulio Napolitano ha curato un volume molto documentato su Il controllo sugli investimenti esteri diretti (il Mulino, 2019) che raccoglie testi normativi di paesi come Usa, Cina, Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Spagna (e Unione europea), li analizza e cerca di trarne leggi di tendenza. Rinasce lo Stato moloch, l’“État-puissance”? Non mi pare che siamo in presenza di un “revirement”. Si tratta piuttosto di una continuazione della tradizione interventistica dello Stato. Anche perché vi sono da segnalare tendenze opposte: basti pensare alle reazioni recenti alle proposte di usare il sistema fiscale a fini dirigistici, per scoraggiare alcuni consumi (e, nello stesso tempo, per assicurare nuove entrate), oppure all’esame in corso presso l’Ocse di provvedimenti fiscali sull’economia digitale, concordati a livello globale.

 

Passiamo al nazionalismo politico. Qui non si può negare che il governo Conte 1 abbia stabilito una direzione diversa, chiudendo le frontiere e vietando l’immigrazione. 

Sono state approvate ben due leggi sulla sicurezza, con particolare attenzione alla esclusione dell’immigrazione. Non c’era forse bisogno di una seconda legge e ci si può chiedere se vi fosse bisogno di legiferare. Bastava agire in via amministrativa. Si è trattato di leggi strumentali, di propaganda, per rispondere a singoli episodi, per fare la voce grossa. Ma sono state, nello stesso tempo, sproporzionate e inefficaci. Non hanno neppure raggiunto l’obiettivo (gli sbarchi sono continuati sulle spiagge e non nei porti). Com’era naturale, le due leggi sono ora applicate da giudici che debbono contemporaneamente tener conto sia della Costituzione, sia degli obblighi internazionali che discendono dai trattati che abbiamo firmato. Quindi, se non ci soffermiamo sulla legge, ma guardiamo all’azione amministrativa concreta, il giudizio sugli effetti concreti del nazionalismo politico, che si esprime con la proclamazione della chiusura delle frontiere, ne esce molto ridimensionato.

 

Ridimensionati, quindi, sia il corrente nazionalismo economico, sia il corrente nazionalismo politico (cosiddetto sovranismo), vuol dire che la globalizzazione non ha subito una frenata?

Direi che è stata rallentata, non frenata. In primo luogo, perché la globalizzazione, come ho detto prima, è il frutto di una spinta che proviene dagli stessi Stati. In secondo luogo, perché la globalizzazione è una macchina che, una volta messa in moto, cammina con le sue gambe. In terzo luogo, perché gli stessi Stati continuano ad avere bisogno di strumenti di governo che vadano al di là degli Stati. 

 

Ad esempio? 

Le “Big Tech”, o Faang (Facebook, Amazon, Apple, Netflix, Google). Queste hanno un potere mondiale, globale (siamo sul pianeta 7 miliardi e mezzo, di cui 4 e mezzo connessi a internet). Se vogliamo risolvere questioni importanti (dove le “Big Tech” pagano le imposte, come utilizzano i profili dei loro clienti, se hanno il potere di intervenire nelle vicende politiche degli Stati, in particolare nelle elezioni), gli Stati non possono operare alla spicciolata, debbono coalizzarsi, costituire un regolatore mondiale (o usare l’Icann, il supremo regolatore di internet). Quindi, c’è una ulteriore spinta nella direzione della globalizzazione.

 

Insomma, secondo lei la globalizzazione non si ferma.

Si fermerebbe se ritornassimo tutti su una scala autarchica. Niente viaggi all’estero. Non acquisti di cellulari prodotti all’estero. Interruzione delle trasmissioni televisive con raggio ultranazionale, e così via. Le pare una prospettiva possibile? Ritorniamo alle società chiuse nei confini nazionali?

 

E quindi?

Rileggiamo Giuseppe Antonio Borgese, Una costituzione per il mondo (premessa di Thomas Mann con postfazione di Silvia Bertolotti, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2013). Nel 1945, Robert Hutchins, cancelliere dell’Università di Chicago, riunì un comitato di undici persone per preparare una costituzione mondiale. Il vero promotore di questo progetto fu il professore italiano di letteratura Giuseppe Antonio Borgese. Il preambolo del progetto di costituzione constatava che “l’età delle nazioni è terminata”. Il documento prevedeva una federazione mondiale con poteri in materia fiscale, militare, di disciplina dei trasporti, della comunicazione, della immigrazione e dell’emigrazione. Una Convenzione eletta direttamente doveva essere costituita, con un delegato per ogni milione di abitanti (si calcolò che a quell’epoca avrebbe avuto 2.250 membri). La convenzione doveva eleggere un Consiglio con poteri legislativi, composto da non più di 99 membri. Il potere esecutivo doveva essere affidato al presidente, che nominava un cancelliere e un gabinetto. Il potere giudiziario era attribuito a un Grande tribunale e a una Corte suprema. Erano previsti due corpi addizionali, il Tribuno del popolo, in rappresentanza delle minoranze, e la Camera dei guardiani. Thomas Mann scrisse un’introduzione molto ispirata e il testo fu immediatamente tradotto in Italia per iniziativa di Piero Calamandrei. Ebbe un’accoglienza complessivamente positiva nel mondo, tra l’altro di Jacques Maritain.

 

Che vuol dire?

Voglio dire che non bisogna stancarsi di ricordare che i problemi del mondo possono essere risolti solo lavorando insieme nel mondo, non chiudendosi nei gusci nazionali. Che subito dopo la Seconda guerra mondiale furono preparate una quarantina di costituzioni mondiali, prova del fatto che quei “sognatori” pensavano di organizzare il pianeta in una federazione perché erano consapevoli dei pericoli che si corrono con le divisioni. Che non bisogna stancarsi di coltivare queste utopie. Possono diventare realtà.

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