Il cantiere di Saint-Martin-La-Porte della Tav Torino-Lione (foto LaPresse)

Come sbloccare gli investimenti pubblici

Meno cultura del sospetto e più merito. Meno Anac e più ingegneri. Solo così si potrà porre fine al ristagno che blocca i lavori pubblici

Professor Sabino Cassese, si susseguono le critiche alla incapacità dello stato di assicurare una adeguata dotazione infrastrutturale al paese.

 

Partiamo da dati certi, come quelli illustrati il 22 settembre 2018 a Varenna dal governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco: “La spesa per investimenti fissi lordi delle amministrazioni pubbliche… è diminuita del 4 per cento all’anno in media dal 2008… In percentuale del pil, la spesa è calata in Italia dal 3 per cento del 2008 al 2 per cento del 2017”. La conseguenza è che, sempre secondo il governatore, “in rapporto alla popolazione… la rete stradale e ferroviaria italiana risulta meno estesa di quella di Francia, Germania e Spagna. Analogamente, se si confronta il tempo di percorrenza minimo tra due territori, ponderato per la popolazione, si conferma una posizione di svantaggio dell’Italia nei confronti della media europea”. Infine, “negli ultimi anni i tempi medi di realizzazione delle opere sono cresciuti. L’aumento ha riguardato esclusivamente la fase di affidamento e di esecuzione dei lavori, mentre è rimasta sostanzialmente invariata la durata della fase di progettazione”.

  

Sono dati molto eloquenti, perché dimostrano che siamo indietro, con gravi danni per la collettività. Da che dipende questo ristagno?

Da un insieme di cause, tutte curabili, che insieme bloccano i lavori pubblici. Riguardano strutture, normativa, procedure.

   

Cominciamo dalle strutture.

Sono impoverite e impaurite. Impoverite dall’assenza di tecnici lamentata fin dall’inizio del ’900 e conclusasi con la soppressione del Genio civile, trasferito alle regioni. Un’amministrazione dei lavori pubblici senza ingegneri, geometri, ragionieri, che opere pubbliche può programmare e progettare? Da qui i tanti residui passivi che abbiamo lamentato per anni, cioè le somme stanziate e non spese, i progetti scadenti, uffici pubblici che debbono per forza rimettersi all’esterno, e quindi legati alla qualità di ciò che sta fuori dell’amministrazione.

    

Ha detto anche impaurita. Perché?

A causa della moltiplicazione delle fattispecie penali. Traffico di influenze, ad esempio, vuol dire maggiori rischi per l’amministratore pubblico e quindi la cosiddetta fuga dalla firma, cioè inerzia.

    

Passiamo ai difetti della normativa.

Il codice dei contratti pubblici (l’ultimo è del 2016, redatto dall’Autorità anticorruzione) sembra implicare un testo unitario. Non è così. Vi sono molti provvedimenti successivi, deroghe numerose, cosiddette linee guida, che costituiscono un magma mai fermo. Che sicurezza danno all’utente? Stefano Micossi, parlando il 6 giugno 2018 alla Banca d’Italia, ha osservato che il codice “ha rallentato la ripresa del mercato dei lavori pubblici”. Un esempio: il codice è dominato dalla preoccupazione illiberale della prevenzione. Prevede esclusioni da gare e risoluzione di contratti sulla base di presunzione di colpevolezza. Contiene sanzioni sproporzionate.

  

Le procedure?

I contratti servono per eseguire le opere pubbliche e il codice deve servire a stipulare i contratti. Si può, invece, ragionevolmente pensare che il codice sia stato architettato allo scopo di porre freni alla stipulazione di contratti. Insomma, il mezzo è diventato il fine. I nostri nonni pensavano che l’Italia avesse bisogno di infrastrutture, specialmente quelle di trasporto, per unire gli italiani. Le norme di contabilità volute da De Stefani si preoccuparono che questo avvenisse al minor costo. Le norme della fine del secolo scorso aggiunsero la finalità di assicurare la concorrenza. Infine, si sono aggiunte le preoccupazioni della corruzione. Da ultimo, queste hanno preso la mano alle altre finalità. Il presidente dell’Autorità anticorruzione ha dichiarato il 31 agosto 2018: “C’è ancora chi non sa che l’Anac per legge si occupa di vigilanza sulla regolarità degli appalti a prescindere dal verificarsi di fatti corruttivi”. Questa frase è significativa della torsione che nel nostro ordinamento è stata imposta alla politica dei lavori pubblici. L’Anac, in un codice di 220 articoli, è menzionata – se non ricordo male – 120 volte. E’ naturale che all’Anac non interessino tempi e risultati, perché deve preoccuparsi della corruzione.

  

Quali sono i risultati di questa situazione?

Tutto questo produce impedimenti, gli impedimenti inattività: il modo migliore per assicurare che non vi siano sprechi e corruzione. Così le risorse destinate alle opere finiscono per essere assegnate a politiche distributive (gli 80 euro o il reddito di cittadinanza), con grande gioia della politica di corte vedute, che accontenta la pancia degli elettori, anche se questi debbono vivere in città invivibili, sono bloccati dall’assenza di linee ferroviarie e stradali, debbono mandare i figli in scuole fatiscenti. Le spese per investimenti possono sempre aspettare. Si potrebbe parafrasare il motto di Richelieu secondo il quale il disordine del regno era funzionale all’ordine voluto dal re.

  

Come se ne esce?

Meno Anac e più ingegneri. Sostituire la cultura del sospetto con la cultura del merito e dell’esperienza. Assicurare all’amministrazione la fiducia dei cittadini, ai quali far vedere i risultati. Sono rimedi semplici. Potrebbero dare presto risultati.