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"E' un errore ridurre la democrazia a elezioni". Il futuro che si prospetta

Aumenta la domanda di democrazia, ma i suoi strumenti sono sempre più sottovalutati

Professor Cassese, continuiamo il dialogo sulla democrazia. Come si decide e chi decide negli stati moderni?

Prima avvertenza: è un errore ridurre la democrazia a elezioni. La prima componente è il ricambio, la rotazione. I re permanevano al potere a vita e accedevano al potere per ragioni di sangue. Ora le cariche pubbliche a vita sono poche. Questo spiega, secondo Kim Scheppele, una studiosa dell’Università di Princeton, l’origine dei cambiamenti avvenuti in Ungheria e Venezuela, che lei considera paralleli. Lì vi erano stati partiti al potere per troppo tempo. Spiega anche la richiesta di più democrazia. Lo stesso può dirsi per le due svolte italiane, quella del 1993-1994 e quella del 2018. La prima avviene dopo mezzo secolo di permanenza al potere di un partito, la seconda dopo un quarto di secolo dominato dai due partiti che sono stati i perdenti delle ultime votazioni. 

  

E il ruolo delle elezioni?

Queste vengono dopo. Prima viene il frazionamento del potere. In tutti quei reggimenti politici che chiamiamo democrazie il potere è frazionato, diviso, distribuito: vi sono poteri locali, corpi intermedi, sindacati, partiti, associazioni di categoria. I Parlamenti, ora in crisi, raccolgono una buona parte di questo mondo diviso. Per il resto, questi titolari di porzioni di potere pubblico agiscono come in un mercato, con la forza del pluralismo, consentendo accordi e alleanze diversi. Questo secondo elemento della democrazia consente di evitare un altro inconveniente dell’Antico Regime, accanto a quello della permanenza al potere, la concentrazione del potere in un solo centro. Un professore della New York University, Samuel Issacharoff, ha scritto pagine illuminanti su questa divisione dei poteri e spiegato perché le forze populiste manifestano ostilità a essa.

  

Passiamo alle elezioni?

No, perché prima viene un problema ulteriore, quello del metodo di scelta dei delegati (dei deputati). Per lungo tempo si è pensato che un criterio potesse essere quello di affidarsi al caso. Di qui il sorteggio, di cui recentemente ha parlato il “garante” del Movimento cinque stelle. Gli americani, alla fine del Settecento, considerarono questo criterio di scelta. Esso ha il vantaggio di offrire a tutti una “chance”. Ma ha anche il costo di lasciare alla sorte la indicazione di chi svolgerà un compito ed eserciterà dei poteri con effetti importanti sull’intera società. Dunque, è un metodo positivo dal punto di vista di chi è chiamato a svolgerli, sul lato della collettività nella sua funzione attiva; è negativo se lo si considera dal punto di vista di chi deve “subire” le scelte dei sorteggiati, che potrebbero essere tutti dello stesso orientamento, oppure tutti scarsamente capaci e competenti. L’elezione, invece, specialmente quando il suffragio non era universale, era una “selezione di capacità”, come scriveva Vittorio Emanuele Orlando.

  

E così siamo all’elezione da parte del popolo.

Che è una scelta affidata al corpo elettorale (cioè a chi ha diritto di partecipare in modo attivo alla politica). Ma non a tutto il corpo elettorale, bensì alla sua maggioranza, o meglio alla più forte minoranza. Ad esempio, la singolare alleanza di governo che si è costituita in Italia (preciso che i protagonisti rifiutano il termine alleanza sia perché le loro posizioni sono molto distanti, sia perché una delle due forze è alleata a Forza Italia, che è all’opposizione del governo centrale) non ha nel paese la maggioranza dei voti, perché raggiunge soltanto poco più del 48 per cento, se si considerano tutti i votanti, anche quelli che hanno espresso voti non validi.

  

La democrazia consiste anche nella partecipazione del popolo, ad esempio, quella prevista dal DPCM 76 del 10 maggio 2018, lungamente atteso.

Finalmente pubblicato. La partecipazione è affidata a un coordinatore, con requisiti adeguati di professionalità e competenza. Il dibattito si svolge  “nelle fasi iniziali di elaborazione di un progetto di un’opera o di un intervento, in relazione ai contenuti del progetto di fattibilità ovvero del documento di fattibilità delle alternative progettuali”. Sono previsti “incontri di informazione, approfondimento, discussione e gestione dei conflitti, in particolare nei territori direttamente interessati, e nella raccolta di proposte e posizioni da parte di cittadini, associazioni, istituzioni”. Questa è la democrazia amministrativa o partecipativa, che potrebbe apparire un ossimoro, perché l’amministrazione esegue decisioni prese da organi rappresentativi. Il comunismo aveva sperato che l’amministrazione stessa diventasse democratica (i soviet nei loro primi anni di vita furono un metodo di socializzazione del potere). Noi ci accontentiamo che decida in modo democratico (dopo aver informato e discusso). Ma nell’amministrazione si pongono oggi, con “super network” e “big data”, problemi nuovi, che vanno affrontati. In particolare, quello della generazione di conoscenze dirette a orientare le decisioni, applicando algoritmi a dati digitali di massa, come quelli che possiede la pubblica amministrazione. E’ lo stesso problema dei dati raccolti da Google e venduti per fornire conoscenze a terzi, con la differenza che lo stato – amministrazione conosce o ha la possibilità di conoscere una massa più ampia di dati.

 

Professore: tiriamo le fila.

Difficile farlo. Si prospetta un futuro nel quale aumenta la domanda di democrazia, ma si sottovalutano gli strumenti classici della democrazia, quali la frammentazione del potere, la concorrenza dei poteri nello stato, la contrapposizione, il dialogo e la partecipazione. Posso dirle solo che il diritto costituzionale e le Costituzioni possono rallentare questo processo di semplificazione. Che le Corti costituzionali possono resistere a cambiamenti troppo radicali nel senso dell’abbandono dei “checks and balances”, ma che tuttavia questa resistenza può durare solo pochi anni, perché la componente “elezionistica” riprende il sopravvento e – se gestita da leader illiberali – conduce rapidamente al conflitto tra democrazia e libertà.

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