Platone, raffigurato con il volto di Leonardo Da Vinci, nel dipinto La scuola di Atene di Raffaello

La democrazia non muore, però arretra

Gli stati autoritari crescono di più, noi subiamo l’opinione pubblica, spiega Cassese

Professor Sabino Cassese, la democrazia sta morendo, come scrivono in molti, nel mondo?

Così intitolano il loro libro due professori di Harvard e alla crisi della democrazia ha dedicato un numero recente Foreign Affairs. In questo numero vengono segnalati due fenomeni diversi. Il primo è il declino economico dei paesi democratici: nel 1990 i paesi non democratici rappresentavano il 12 per cento del pil mondiale; ora costituiscono il 33 per cento; supereranno tra cinque anni il 50 per cento. L’altro fenomeno è l’incapacità delle democrazie di assicurare il benessere dei cittadini, a causa della loro complessità. Aggiungo un esempio dell’efficienza delle democrazie, fatto da uno studioso della New York University, Samuel Issacharoff, in un recente saggio intitolato Democracy’s deficits (New York University School of Law Working Papers, 9 - 2017): per la costruzione del quinto terminal dell’aeroporto di Heathrow a Londra e per quella del terzo terminal dell’aeroporto di Pechino, affidate allo stesso architetto (Norman Foster), nel Regno Unito ci sono voluti 20 anni, in Cina 4 anni. Di qui i titoli: regressione delle democrazie, risorgenza delle autocrazie, fine del secolo democratico. 

 

Secondo lei si tratta di una diagnosi giusta? Quali ne sono le cause?

Secondo gli autori della rivista, si tratta del peggiore arretramento della democrazia dagli anni 30 del secolo scorso (ma forse non s’è tenuto conto dell’America meridionale, e non sono state considerate l’Asia e l’Africa). Più convincente l’osservazione che i pericoli vengono prevalentemente dall’interno, non dall’esterno, come avveniva in passato. Ancor più convincente l’osservazione fatta dai due professori di Harvard, Steven Levitsky e Daniel Ziblatt (How Democracies Die, New York, Crown, 2018) secondo cui le democrazie possono morire non per mano di generali, ma di “leader” eletti democraticamente (ciò che ci riporta all’esperienza italiana).

 

Condivide questo pessimismo sulle sorti della democrazia?

Distinguiamo. Due sono le domande: se la democrazia come tale, l’insieme degli istituti che la compongono, è in crisi, oppure se alcuni o molti dei paesi democratici del mondo sono in crisi. Provo a fornirle qualche elemento per la risposta. Una volta, democrazia e sviluppo economico andavano di pari passo. Lo studioso americano Dahl ha messo in luce il rapporto tra democrazia e benessere (e capitalismo). Ora assistiamo al fenomeno dello sviluppo economico anche in paesi non democratici o a democrazia non liberale. I regimi autocratici competono con successo con quelli democratici. Questo vuol dire che la globalizzazione è più capace di espandere lo sviluppo economico che la democrazia, nonostante i (modesti) tentativi dell’United Nations Democracy Fund e di iniziative similari europee. Questo spiega quello che viene osservato circa il declino economico (relativo) dei paesi democratici, che diminuiscono rispetto a quelli autocratici. Anche qui vorrei portare una nota di speranza, perché possiamo prevedere che maggiore benessere possa condurre a un rafforzamento dell’esigenza democratica. C’è, poi, un secondo aspetto della questione…

 

Cioè?

Se i regimi democratici incontrano difficoltà, la causa non è tanto costituita dalla democrazia quanto dal progresso tecnologico e dalla rivoluzione dell’informazione. E’ stato calcolato che, negli Stati Uniti, nel 1980, metà dei posti di lavoro era assicurato da “factory” e “clerical work”. Ora questi assicurano solo il 15 per cento dei posti. Il cambiamento della natura dell’occupazione produce una pressione sugli ordinamenti democratici, particolarmente sensibili, per la loro stessa natura, all’elettorato (pensi soltanto a Trump, o all’elettorato del nord in Italia).

 

Ma questo fattore opera dall’esterno. Quali sono i fattori interni?

Sono molti, ed è difficile distinguere tra quelli che operano come fattori di crisi e quelli che, invece, rappresentano risposte degli stati alla crisi della democrazia. Glieli elenco alla rinfusa, seguendo la falsariga di due altri studi, uno del politologo francese Yves Meny, sulla Quinta Repubblica francese (si tratta di un saggio non ancora pubblicato), e uno dello storico italiano Giovanni Orsina (La democrazia del narcisismo, Padova, Marsilio, 2018): giudizializzazione di una parte della politica, indipendenza di una parte dello stato dalla politica, trasferimento di poteri a organismi sovranazionali (in parte isolati dalla politica nazionale), allargamento degli spazi riservati al mercato, che finisce per controllare la democrazia, invece di esserne controllato. Rana Dasgupta, in un recente lungo articolo sul Guardian (5 aprile 2018), ha notato questa perdita del rigido monopolio della vita politica da parte dello stato, che si accompagna, nella dimensione mondiale, alle circostanze che dominano per gli uomini gli “accidental advantages” (il benessere, per il 97 per cento delle persone, è “ereditato”: pensi soltanto quanto derivi dalla circostanza che un uomo o una donna nasca nel Regno Unito o in Uganda). Questi fenomeni producono tensioni prima inesistenti, quali la rivolta antiestablishment.

Se è difficile distinguere tra fattori della crisi e reazioni degli stati alla crisi – come è evidente da quello che ha detto – come possiamo individuare le cause e cercare di affrontarle?

Ancora una volta distinguendo. Gli studi della democrazia portano tutti a una conclusione: che è sbagliato identificarla tout court con la “voce del popolo”, espressa con elezioni o in modo diretto. Quella che chiamiamo democrazia è composta da una grande varietà di elementi, valori, istituzioni, procedure. Vanno considerati uno per uno. Ad esempio, la voce dei consumatori (sono parte del popolo), o dei risparmiatori, o degli imprenditori (sono anche essi parte del popolo, ricordiamolo agli appartenenti del M5s), non riesce a raggiungere il potere pubblico: mediata dalla politica, la domanda di regolazione si trasforma, si annacqua, si depotenzia. Quindi, è necessario ricorrere ad autorità indipendenti, composte da competenti, in parte isolati dalla politica. Quello che si presenta come un punto di crisi della democrazia rappresentativa è, invece, un suo arricchimento, perché si apre un diverso “canale” società civile – potere pubblico, prima inesistente. E’ chiaro che ciò provochi tensioni con il “canale” della democrazia rappresentativa e che richieda continui arbitrati.

 

Siamo giunti alla fine e vorrei porle una ultima domanda: lei è ottimista o pessimista?

Mi rifiuto di rispondere a questa domanda. Le dico soltanto che ho una “ragionevole speranza” (copyright Paolo Rossi), perché gli ordinamenti democratici, sul lungo periodo, sono sopravvissuti alle crisi, e perché le crisi, spesso drammatiche, hanno portato a miglioramenti della democrazia.

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