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Il cacciatore

Umberto Silva

Lasciate scendere le loro lacrime, non ce ne sarà mai abbastanza, siamo sulla terra per amarla

Ogni volta occorrerebbe che mi si presentasse la volta giusta, quella che svolta pagina ed ecco davanti a me uno-una che sembrano lui-lei, pronti a tutto, a dirmi non tanto la verità o la sua verità, ma qualcosa d’altro. Cosa sia questo Altro lui-lei non lo sanno e tantomeno io: sentiamo cosa dice la parola in una calda serata di luglio, io dietro a lui su una poltrona lui davanti a me o di fianco, o qualcosa del genere; è tutto aèreo di questi tempi in cui sembra impossibile pensare, ci sono personaggi vincenti che paiono la perdizione, personaggi che ci porteranno come un tempo altri ancora, al macello. C’è qualcosa di nuovo, se vogliamo chiamare tale la ghigliottima, una creatura che ci sa fare ma nemmeno troppo bene considerando quel folle sanguinario di Napoleone. C’è, infine, e soprattutto, che io non capisco un accidente in quel che tanti dicono e non dicono, così perfetti nella loro saccenza. Insomma, ben che va, vedo un omino nero, una ragazza con un bambino nero e diversi bianchi attorno a loro. Il resto per me è silenzio, e devo temerne non la forza e il terrore quanto il nulla.

 

“Professore va tutto bene, immagino, e sa cosa immagino? Lo sa? Certo che lo sa, immagino che tutti sappiamo e che in un modo o in un altro sappiamo, vèro? Lei tace, ma sono sicuro che, come tutti, in un modo o nell’altro, vengano respinti o accolti, o quel che c’è, non per altro ma perché lei mi fa ridere. Cosa mi fa ridere? Un po’ di tutto. Mi fa ridere che s’imprechi contro e mi fa ridere che s’imprechi pro, o viceversa. Che ne dice prof , mi ha capito vero, sì, ma l’ho capita anch’io, sa, l’ho capita benissimo, e continuo a capirla. E’ che per un po’ mi annoia, per un altro verso mi diverte, ma sempre poco, vorrei qualcosa di più forte, di tremendo, io amo tutti e un po’ nessuno, coi nessuno sono orrendo ma anche coi tutti, quindi vede la mia storia e non so dove cacciarmi. Buttiamoci nel mare anche noi tutti, anneghiamo con i morti di fame, non è male, sa”.

 

Il mio giovin paziente muove le braccia in un modo del tutto impaziente; se inizialmente si era impadronito del mio studio e svolazzava qua e là come un cacciatore su animali che viene da terre misteriose, il mio paziente ora lo sento assai impaziente e si gira sempre più frequentemente nella mia direzione, allungando la testa. Probabilmente pensa che io lo stia attendendo al varco, come un animale colpito a sangue, una grande bella morte necessaria, la morte dei celebri cervi d’in su la gloria di un Cimino e un De Niro. In effetti può essere anche così, seppur sto meditando della storia tragica di milioni di martiri cacciati e scannati dai loro padroni e mostri, e briganti, e assassini: la loro grandezza è sublime nella tragedia che li porta al cielo. Quale suprema immagine vedere comparire le navi dei corsari del sogno, che pensando di portare la morte recano a noi civiltà. Se è orrore vederli uccisi da tanti sciacalli, non c’è errore e nemmeno orrore per quella Patria che qui e là li attende.

 

Penso ma non dico, lascio che lui, il giovanotto, pensi e dica; solo così, in qualche modo, può partecipare ai martiri. Ai martiri che vengono dalla morte più cruenta dei loro cari, martiri che lottano per esistere in qualche luogo, martiri che viaggiano ancora non sanno dove ma chiedono di essere. Lasciate scendere le loro lacrime, non ce ne sarà mai abbastanza, ricordiamoci che siamo sulla terra per amarla: niente è più bello delle lacrime, sono fiumi meravigliosi. Anch’io li canto e piango quando li vedo morire avvicinandosi agli Dei, e la notte piango insieme agli altri, Cristo sempre sublime, Maria Meravigliosa e Maddalena Angelica, insieme alle Uru che tante e bellissime sono e saranno, senza imbecilli tra i piedi. Papa raccoglile, come fai ogni giorno che ti hanno raccolto. Ricordiamo: fu il macello di allora e lo è di ora, macello delle donne innanzitutto, e dei bimbi.

 

Il giovane trentenne non si mastica più le unghie, né balbetta; mi guarda sottecchi, mi scruta di traverso, si chiede se ho detto sciocchezze o meno, sono passati cinque minuti e non parla. Parla con il silenzio. Anch’io, credo, mi auguro. Alza le spalle, mi guarda perplesso. Come sempre attendo la parola che è dell’Altro, della sua forza e intelligenza, quella che scaturisce dalla disperazione, da un nulla di cui si fa qualcosa. Cosa? Chinarsi baciando piedi che senza conoscere immensamente si conoscono, darebbero a tutti una bella spinta.

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