Antonio Ingroia, ex procuratore aggiunto di Palermo (foto LaPresse)

Caso Regeni, la chiamata alle “armi” di Ingroia demolita dalle toghe

Redazione

Dopo Spataro, anche Bruno Tinti sul Fatto Quotidiano critica la proposta dell’ex pm di inviare gli investigatori italiani in Egitto senza il consenso del Cairo: “Aggrava la pena della famiglia Regeni”.

Secondo round e altro ko per Antonio Ingroia, che sulle pagine del Fatto Quotidiano alcuni giorni fa aveva commentato di petto la vicenda del ricercatore Giulio Regeni – ucciso in Egitto in circostanze ancora misteriose –, accusando il governo italiano di timidezza e proponendo niente di meno che l’invio unilaterale di investigatori del nostro paese in territorio egiziano, a prescindere dal consenso delle autorità locali. Un intervento, aveva scritto, assolutamente “legittimo” e che, anzi, adotterebbero i veri “paesi forti come gli Stati Uniti”, nel caso in cui propri cittadini fossero coinvolti in gravi vicende giudiziarie e i governi locali non collaborassero alle indagini.

 

Una proposta, questa del soldato Ingroia, che però era stata demolita in punta di diritto, e in maniera dettagliata, dal procuratore capo di Torino Armando Spataro, sempre sul giornale diretto da Travaglio, in quanto non solo incompatibile con la legge italiana e il diritto internazionale, ma anche illogica dal punto di vista politico: “Si provi a immaginare che la procura di Parigi o di Bruxelles ci chiedessero di svolgere direttamente atti di questo tipo in Italia per scarsa fiducia nell’operato dei magistrati italiani: quale sarebbe la nostra reazione?” aveva scritto Spataro.

 

Ora, dopo il pm di Torino, è un altro (ex) magistrato – oggi avvocato – a sottolineare come l’idea avanzata da Ingroia sia del tutto svincolata dalla realtà, in primis quella giuridica. Sul Fatto Quotidiano (giornale di cui è anche azionista), Bruno Tinti – ex procuratore di Torino e Ivrea –, dopo aver ricordato l’amicizia che lo lega all’ex pm di Palermo, scrive che quest’ultimo su Regeni “sbaglia di grosso”, perché “a tutto c’è un limite”, e questo confine è stato da lui abbondantemente superato.

 

L’articolo 8 del codice penale, citato da Ingroia nel suo intervento per sostenere la propria tesi “interventista”, nota Tinti, non dice affatto che la legge italiana sia direttamente applicabile anche all’estero, bensì “una cosa del tutto diversa”, e cioè che il colpevole di un delitto politico commesso in territorio estero nei confronti dello stato o di un cittadino italiano è, sì, “punito secondo la legge italiana”, ma “dopo un processo svolto da uffici giudiziari italiani, in Italia, nell’ambito della sovranità territoriale italiana”. “D’altra parte tu, come me – prosegue Tinti rivolgendosi a Ingroia – hai fatto chissà quante rogatorie estere nella tua vita. Cosa abbiamo fatto in questi casi? Abbiamo chiesto perquisizioni, sequestri, interrogatori; abbiamo chiesto di essere autorizzati ad assistere alle indagini (…) ma mai, ovviamente, abbiamo svolto personalmente indagini, recandoci autonomamente nei luoghi da perquisire, acquisendo la documentazione che ci interessava, convocando direttamente le persone da interrogare”.

 

“Con quali poteri lo avremmo fatto? – chiede ancora l’ex magistrato a Ingroia ¬ Tu avresti mai consentito al collega straniero di arrivare a Palermo, intimare a Tizio di presentarsi presso il suo albergo per rispondere ad alcune domande? Ma dai!”. Parimenti assurda, per Tinti, è anche la proposta dell’ex pm palermitano per la quale i magistrati italiani dovrebbero rivolgersi all’Onu per segnalare l’inerzia dell’Egitto nello svolgimento delle indagini: “La magistratura, attenzione, non lo Stato. Che poi, anche in questo caso, cosa potrebbero mai fare le Nazioni Unite?”.

 

Se la risposta di Spataro a Ingroia aveva come obiettivo quello di evidenziare come la procura di Roma stia in realtà facendo “tutto il possibile” per scoprire la verità sulla morte di Regeni, l’intervento di Bruno Tinti si conclude con un accorato appello diretto all’ex pm: “Antonio, non aggravare la pena della famiglia Regeni facendo immaginare che c’è qualcosa che la giustizia italiana non abbia fatto; peggio, non abbia voluto fare. Non è giusto per nessuno: per gli ex colleghi che stanno affrontando un processo difficile; e per chi dal tuo dire ricaverebbe motivi di sfiducia e di risentimento”.