Gaza (LaPresse)

Un Foglio internazionale

Gaza è anche una questione araba. Nessuna riflessione sulla giudeofobia

Non c’è alcun tentativo di comprendere  le tendenze radicali che minacciano di tenere in ostaggio il futuro di israeliani e  palestinesi, scrive il Point (11/3)

Come parlare di Gaza quando si è “arabi”? Ovvero, quando si appartiene, per attribuzione o eredità, alla storia di questa regione, con le sue decolonizzazioni, il suo presente oscurato da vanagloriose negazioni, le sue paure dell’universalità, i suoi radicalismi vendicativi? Se lo chiede Kamel Daoud sul Point. Perché Gaza è una tragedia, una guerra che, pur sembrando giustificata di fronte ad Hamas, rimane ingiusta, da entrambe le parti, in termini di vite umane perse. Oggi le immagini che arrivano al resto del mondo dividono il resto del mondo. “Cosa fare?” rimane una domanda senza una soluzione soddisfacente per la coscienza. Dare la caccia, per necessità, all’organizzazione islamista significa aggravare ulteriormente il conto dei danni collaterali. E’ un eufemismo per indicare i morti, i bambini uccisi, i colpi sbagliati, i crateri delle bombe, gli spostamenti e i nomadismi di sopravvivenza tra l’inverno, le penurie, la mancanza di cure e l’assenza di speranza. Ma non fare nulla è una teoria di pace e sicurezza che non convince gli israeliani – e nessuno è nei loro panni, tanto meno chi dà lezioni.  

 

Per chi vive questa guerra, Hamas terrorizza e ragiona soltanto in termini di rapporto di forza. Da lontano, per ciascuno di noi, insediati nella sicurezza o nella radicalità ideologica, parlare di Gaza è divisivo, spesso fino all’intimità. Sentiamo che non dire nulla significa “assolversi” dalla morte e acconsentire a una guerra terribile e disumana. Ma ergersi contro questa guerra provoca, per un’inevitabile scorciatoia, l’adesione a un male di cui, come “arabi” di oggi, non si vuole più sentire la traccia dentro di sé: la giudeofobia. Perché, per un continuo scivolamento, il processo alla guerra sfocia, attraverso la più odiosa delle strumentalizzazioni, nella condanna di un intero popolo e della sua fede. Così restiamo in silenzio perché non abbiamo altri mezzi per difenderci dall’errore o dalla facilità di giudizio. Eppure se si è “arabi”, è proprio il momento di “parlare” di Gaza, di denunciare il massacro collaterale, e di lanciare l’allarme sul bilancio in termini di vite umane.

 

Perché oggi? Perché progressivamente, in quello che viene chiamato il “mondo arabo”, le voci dell’antisemitismo e dell’odio verso gli ebrei si stanno più o meno ritirando, si stanno stancando. Non attraverso la ragione, ma per usura. Hamas significa “entusiasmo” e i liberatori immaginari della Palestina, in questo mondo cosiddetto “arabo”, procedono sempre per entusiasmo. La Palestina è spesso un “effetto” locale, non una “causa”. Non c’è alcuna riflessione su di sé, sulla giudeofobia che attraversa le società della regione, sull’odio che prevale tra i leader e i capi di stato “arabi” fino ai caffè di quartiere. Non c’è alcun tentativo di comprendere la storia israeliana ed ebraica, la sua lunga tragedia universale, e le tendenze radicali che minacciano di tenere in ostaggio il futuro degli israeliani e dei palestinesi. Né ci si interroga sulla causa palestinese stessa. Nelle nostre geografie, non c’è alcuna riflessione su noi stessi o su ciò che vogliamo dalla vita e dal mondo occidentale, al quale reclamiamo tutto e al quale rifiutiamo di appartenere. 

 

Nel cosiddetto mondo arabo, “Palestina” è da decenni una sorta di irrealtà su sé stessi, sul proprio mondo. Un effetto euforizzante, non lucido. Se proclamiamo di voler liberare quel “territorio”, spesso è perché non siamo riusciti a “liberare” il nostro paese, perché vogliamo soprattutto rivivere una epopea decoloniale chiusa, e nascondere la nostra giudeofobia, anche se inconscia. Gridiamo rabbiosi, denunciamo, istituiamo tribunali locali per giudicare l’occidente e quelli tra noi che si discostano dall’unanimità autoctona, e poi andiamo a pregare Dio affinché faccia il resto del lavoro. Oppure torniamo a casa a guardare la Coppa d’Africa o a prepararci per il pellegrinaggio alla Mecca. La “causa” palestinese ci dispensa da quasi ogni cosa. 

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