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La storia

Radici antisemite. L'infamia del “complotto giudaico”

Michele Magno

La cospirazione antigiudaica rappresentò una svolta nella storia dell’odio per gli ebrei. E purtroppo quella propaganda risuona ancora oggi

Sono ebreo. […] Non ne traggo motivo né di orgoglio né di vergogna […]. Non rivendico mai la mia origine salvo che in un caso: quando mi trovo di fronte a un antisemita (Marc Bloch, “La strana disfatta”, 1946).

  

Il conflitto in medio oriente è ormai diventato una specie di porto delle nebbie, in cui i figli delle vittime della Shoah sono accusati di genocidio del popolo palestinese. La semplice comparazione è assurda, ma la sua percezione è ormai diffusa nell’opinione pubblica internazionale. D’altronde, l’antisemitismo è come un fiume carsico: riemerge in superficie ogni volta che Israele combatte per la propria sopravvivenza. Oggi il suo diritto a esistere viene nuovamente negato dai tagliagole di Hamas e dai suoi burattinai. Perché lo stato israeliano, come recita sia la propaganda islamista sia quella a ovest di Allah, sarebbe l’emissario del “Grande Satana” americano (copyright dell’ayatollah Khomeini). Una distorsione brutale della realtà che non è facile contrastare. Del resto, come  aveva intuito Theodor W. Adorno, le radici dell’antisemitismo si spingono sino alla profondità più oscura e misteriosa della nostra civiltà. 


Al di là delle invettive contro i farisei presenti in alcuni passi dei Vangeli e delle lettere paoline, le origini dell’antisemitismo religioso risalgono almeno al IV secolo. Dopo la conversione dell’imperatore Costantino (313), il nemico della cristianità viene identificato nel popolo dell’Alleanza, e la persecuzione degli ebrei viene tollerata in virtù del “delitto commesso contro Cristo” (Eusebio di Cesarea, Historia Ecclesiastica, 325). La Chiesa dei gentili si configura pertanto come una comunità incompatibile con la “gente cupida, trafficante, mercante e traditrice dei poveri che abita le Sinagoghe, spelonche di ladri” (Giovanni Crisostomo, Adversos Judaeos Orationes). Crisostomo, e con lui anche Ambrogio (340-397), ribadiva la condanna già contenuta nell’Antico Testamento, secondo cui l’usura era legittima soltanto se esercitata verso gli stranieri: “Non farai al tuo fratello prestiti a interesse, né di denaro, né di viveri […]” (Deuteronomio, XXIII, 20-21). Lo stesso Tommaso d’Aquino sosterrà solennemente che l’usura era sempre e comunque un peccato, poiché in qualsiasi persona, ebreo o gentile, ognuno è obbligato a riconoscere il proprio fratello (Summa Theologica, 1265-1274). Su tale premessa teologica, nel 1199 papa Innocenzo III, pur vietando gli abusi contro la proprietà o i battesimi forzati degli ebrei, ribadisce che la “perfidia giudaica” confermava la verità della fede cristiana, mettendo in discussione le attività di prestito e di banco esercitate dai profanatori dell’ostia consacrata. Nel frattempo, però, queste attività si erano sviluppate soprattutto nelle città tedesche e italiane, dove le risorse monetarie e creditizie gestite dai banchi ebraici erano divenute necessarie al finanziamento delle transazioni commerciali. Le attività di prestito furono pertanto tollerate sino alla fine del Quattrocento, allorché i francescani convinsero il pontefice Leone X a legalizzare i Monti di pietà. La stessa accusa di omicidio rituale, formulata tra il 1147 e il 1150 da Thomas di Monmouth, monaco della cattedrale di Norwich, fu utilizzata per giustificare la chiusura dei banchi di prestito ebraici. 


Quale relazione intercorre tra la tradizione antigiudaica cristiana, legata alla polemica sull’usura, e l’antisemitismo moderno? Fin dai primi anni dell’Ottocento, dopo la Rivoluzione francese, la difesa di quella tradizione occupa un posto centrale nel linguaggio del pensiero cattolico intransigente. Solo per citare i nomi più noti, autori come Joseph De Maistre, Louis de Bonald, René de Chateaubriand, Donoso Cortés, Ludwig von Haller, padre Taparelli d’Azeglio, celebrano la religione apostolica romana come l’unica in grado di garantire la stabilità dell’ordine sociale e di contrastare la pretesa luterana di interpretare autonomamente la Bibbia. Ma l’eresia dei moderni – i protestanti – presuppone l’ostinazione degli antichi – gli ebrei – nel rifiuto di riconoscere il Messia; dunque anche l’apologia del libero mercato veniva attribuita dalla stampa ecclesiastica all’ancestrale “sete giudaica di guadagno”. Una condanna senza appello degli errori dell’Illuminismo e della nascente società liberale che sarà codificata nel “Syllabus” (1864) e dal Concilio Vaticano I (1870).


Sin dalla prima legge di emancipazione, varata in Francia nel settembre del 1791, le libertà conquistate dagli ebrei, insieme al mancato abbandono dei loro costumi “perversi”, vennero lette come un attentato all’unità dei cristiani. La loro inemendabile “diversità” si era però posta come problema assai serio per le autorità spagnole già nel 1492. Infatti, occorreva impedire che i giudei convertiti e i loro discendenti potessero accedere a uffici importanti o entrare addirittura nell’Inquisizione. Nel corso dei decenni successivi furono pertanto promulgati gli statuti di “limpieza de sangre” (purezza del sangue), che censivano gli ebrei sulla base dei loro progenitori o di caratteri biologici immodificabili. Teologi e giuristi come Escobar del Corro e Marquardo de Susannis li avevano definiti una “generatio” connotata da “pravorum morum”, nella quale la “macula” del deicidio si sarebbe trasmessa da padre in figlio attraverso le “qualitates sanguinis” (Adriano Prosperi, Tra natura e cultura. Dall’intolleranza religiosa alla discriminazione per sangue, ESI, 1992).


Nel 1933, quando Hitler salì al potere in Germania, il filologo austriaco Leo Spitzer ricondusse l’etimologia della parola “razza” proprio al lemma “generatio” utilizzato negli statuti spagnoli. Tesi poi confutata da Gianfranco Contini, il quale dimostrò in un articolo pubblicato nel 1959 che l’origine era tutt’altra. Secondo l’illustre accademico della Crusca, il termine “razza” era infatti una corruzione medievale dell’antico termine francese “haraz”, che indicava un allevamento di cavalli, una mandria, un branco. Forse il più simbolico dei vocaboli in nome del quale si era prodotta l’abiezione della ragione, sostituita la sua derivazione dal latino da una di natura zoologica, veniva così declassato da nobile segno di eccellenza (per i nazisti) a specifico attestato di bestialità. In ogni caso, il senso di qualsiasi distinzione tra intolleranza per fede e quella per razza si era perduto già prima che il conte Joseph Arthur de Gobineau, nel 1854, lo teorizzasse con tracotanza: “Tutti i popoli conservano immutevolmente carattere e idee: gli ebrei, i guebri [persiani], i copti e in qualche modo anche gli armeni; razze che lo stesso sistema connota con il marchio dell’avidità e della bassezza” (Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane, Rizzoli, 1998).


L’ostilità verso gli ebrei nell’Europa del tardo Ottocento non fu quindi tanto l’espressione di un odio razziale, quanto di un’atavica diffidenza nei confronti di cittadini ora eguali agli altri, ma che continuavano ad agire contro gli altri nel sottosuolo della nazione, e “che già avevano minacciato la cristianità nel passato, nelle epoche in cui essi avevano esercitato le funzioni di esattori fiscali per conto del sovrano e di prestatori di capitali alle monarchie” (Michele Battini, Il socialismo degli imbecilli, Bollati Boringhieri, 2010). Per altro verso, la presunzione di essere un popolo eletto rappresentava la prova definitiva di un’estraneità insuperabile. E quest’ultima alimentava, a sua volta, il sospetto di una cospirazione che puntava a impadronirsi del potere economico mondiale. Una cospirazione, svelata dai “Protocolli dei savi anziani di Sion” (1905), responsabile delle crisi cicliche, dei crolli delle Borse e dei fallimenti bancari. La documentazione del presunto incontro segreto che si sarebbe tenuto durante il primo congresso sionista di Basilea nel 1897 era falsa, ma era anche l’indizio evidente di un altro complotto, questo invece vero. Il complotto del più aggressivo antisemitismo che, sull’ossessione per un immaginario imperialismo finanziario ebraico, aveva proiettato i propri disegni egemonici e di dominio del Vecchio continente. 


La propaganda antiebraica e la fabbricazione di prove contraffatte sono forme diverse della stessa impostura. I testi della letteratura ottocentesca che offrivano una falsa rappresentazione degli ebrei fornirono anche i materiali veri per la fabbricazione di un documento falso che intendeva  dimostrare un evento mai avvenuto, il complotto ebraico. Ma il mito che quel documento falso riuscì a creare non fu privo di conseguenze. Pur essendo un prodotto dell’arte della falsificazione, esso funzionò come un fatto vero che ebbe effetti storici altrettanto veri. Scriveva Alexandre Koyré, nel marzo del 1943, che gli artefici della propaganda totalitaria, fin dalla prima edizione di Mein Kampf (1925), avevano annunciato il proprio programma d’azione sempre in modo esplicito, sapendo che l’opinione pubblica non avrebbe dato molto credito alle dichiarazioni persecutorie. La menzogna del complotto ebraico celava quindi una vera cospirazione, “una cospirazione alla luce del sole”, ordita dai movimenti antisemiti e totalitari: un complotto autentico che era obbligato a guadagnarsi la fiducia delle masse e che, per tale motivo, non poteva nascondersi, mentre imputava il bisogno di nascondersi al complotto ebraico. Sotto tale profilo, conclude Koyré, “la cospirazione alla luce del sole, se non è una società segreta, è comunque una società con un segreto” (Sulla menzogna politica, Lindau, 2010). Il lemma “antisemitismo” cominciò a diffondersi nel linguaggio politico europeo dopo la pubblicazione, nel 1879, di un pamphlet in cui il giornalista tedesco Wilhelm Marr denunciava il “parassitismo sociale” degli ebrei. Il più impressionante movimento antiebraico si sviluppò tuttavia proprio nel paese che poteva vantare la scuola laica e il suffragio universale maschile. Un movimento che culminerà nell’affaire Dreyfus, il capitano d’artiglieria ebreo accusato nel 1895 di intelligenza con la Germania. Nei mesi in cui Alfred Dreyfus fu arrestato e processato, La France juive di Édouard Drumont (1886) aveva superato le cento ristampe. In un’epoca in cui lo scientismo positivista si mescolava allo spiritismo e al satanismo, Drumont lo utilizza per spiegare come il tradimento sia connaturato all’ebreo. Per il fondatore della “Libre Parole” l’ebreo non appartiene al nemico, non appartiene a nessuno: è “errante” e si dissimula nelle pieghe della società. Poiché il tradimento presuppone la rottura di un rapporto di fiducia, i traditori peggiori non  erano gli ebrei, che erano piuttosto spie che infettavano con la loro presenza il corpo sociale, ma i loro amici e sostenitori, i “judaïsant”. 


La prima piattaforma elettorale apertamente antisemita fu presentata nel 1879 in Austria dal pangermanista Georg von Schönerer. Nel 1881 un secondo manifesto venne appoggiato dalla “Società antisemita per la difesa del lavoratore manuale di Vienna”, in nome della “guerra all’ebreo, al vampiro assetato di sangue […] che batte alle finestre delle case abitate dai contadini e artigiani tedeschi”. Prima del borgomastro di Vienna Karl Lueger, fu quindi Schönerer a scegliere come riferimento sociale gli artigiani radicali, i bottegai ostili ai grandi magazzini e ai loro proprietari ebrei, i piccoli consumatori contrari all’immigrazione degli ebrei russi scampati ai pogrom. E ben prima di Hitler fu Karl Lueger il fondatore di un partito di massa che si prefiggeva di piantare i semi  “dell’incantesimo politico antisemita” anche nelle campagne. Non a torto fu definito un mago della manipolazione delle folle, e a lui guardarono gli antisemiti francesi, quando il caso Dreyfus rivelò che la crisi del sistema liberale non investiva solamente l’impero asburgico. 


Hannah Arendt ha collocato l’antisemitismo tra le componenti determinanti dei totalitarismi novecenteschi. Per l’allieva di Karl Jaspers, solo riconoscendo che gli ebrei d’Europa erano stati selezionati per un progetto di feroce epurazione dell’umanità, lo sterminio poteva essere definito come un crimine contro “tutta” l’umanità. Gli ebrei erano stati le prime vittime delle fabbriche della morte, ma il loro destino tragicamente eccezionale doveva gettare la luce sul destino di “tutti” i popoli. Arendt, inoltre, era convinta che la ultrasecolare tradizione antigiudaica chiamava in causa tutte le élite europee, culturali, religiose, politiche e sociali (Le origini del totalitarismo, 1951). Ne aveva ben donde. In fondo, come aveva capito March Bloch, la catastrofe dell’Olocausto non sarebbe stata possibile senza la sconfitta della logica. E, come aveva capito Victor Klemperer, essa non sarebbe stata possibile senza lo scempio della lingua: “il nazismo [intende] privare il singolo della sua natura di individuo e anestetizzare la sua personalità, sino a renderlo un elemento del gregge senza pensiero né volontà, […] a farne un atomo di un masso rotolante” (LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, Giuntina, 2008). 

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