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un foglio internazionale

L'intellettuale francese e la fine del mondo. Una prospettiva dal sud

Il radicale di sinistra e il declinista di destra sono due facce della stessa tradizione apocalittica, secondo lo scrittore algerino Kamel Daoud. L'articolo del Point

In passato la Francia era il nome di un paese; facciamo in modo che nel 1961 non sia il nome di una nevrosi”, scriveva Jean-Paul Sartre nella sua polemica prefazione al libro “I dannati della terra” di Frantz Fanon. Il testo, un elogio metodico ed entusiasta del radicalismo, non manca di sentenze funebri: “Ci stiamo decomponendo”, dice a proposito della Francia. “Eravamo i soggetti della storia e ora siamo i suoi oggetti”, aggiunge. “La guerra civile è prevista per l’autunno o la prossima primavera”, conferma. “Oggi siamo incatenati, umiliati, malati di paura: siamo al nostro minimo storico” affermò sessantatré anni fa. Perché allora è stato necessario riesumare la più grande icona del “Nulla” e riparlarne ora? C’è qualcosa di curioso in questi estratti selezionati, prologo di un testo che alcuni brandiscono oggi per giustificare gli attentati di Hamas del 7 ottobre 2023 o il radicalismo armato dell’islamismo, scrive lo scrittore algerino Kamel Daoud.
 Quando si arriva in Francia, è inevitabile, infatti, imbattersi in due grandi figure intellettuali. La prima è quella del radicale di sinistra. Moltiplica gli elogi della barbarie salvifica, i motivi di colpa millenaria, le discutibili alleanze con le violenze che dovrebbe epurare la storia coloniale, garantire la salvezza attraverso il salto in tombe collettive, e così via. Nella prefazione di Sartre ritroviamo, con un curioso effetto di contemporaneità, questa cattiveria verso sé stessi dell’intellettuale francese; questo annuncio di disastro, questo declinismo. Qui, avere ragione significa apparire crepuscolari, annunciare la fine del mondo e allearsi con la violenza che proviene da altrove. In passato, si associava alla rivolta contro i propri simili l’aggiunta trasgressiva del decolonizzatore, del comunista maoista o del sovietico duro e autentico. Oggi l’uomo “hamasiano” funge da doping per la “rivoluzione”. Il mélenchonismo è una versione stilizzata di questa scuola. In Francia, l’orientalizzazione rimane una china abituale del discorso politico di rottura brutale. Turiferari professionisti della barricata al mestiere di boia, al dilettante della decapitazione. Jean-Luc Mélenchon, ad esempio, ha il background e la psicologia necessari per questa passione per il nulla: è nato in una colonia, in Marocco, ne porta la colpa e la vede ovunque tranne che in sé stesso. Con il suo sguardo duro, la sua gelosia e il suo risentimento come prova dell’esistenza dell’anima, questo genere prolifera in Francia e produce due effetti perversi: denuncia il declino e lo crea.

 

E il secondo tipo? E’ un intellettuale brillante, la figura dell’“Essere”, che l’autore ha incontrato a pranzo in un raffinato ristorante parigino, affacciato su uno dei suoi magnifici giardini segreti in città. Gesù, il pentimento, la dissoluzione o la viltà e il rifiuto della contrizione, il sapere e spesso l’intelligenza su di sé. Anche in questo caso, il tono è quasi perfetto: voce bassa, sguardo vago che sfoglia la gloria passata della Francia, amarezza trattenuta, lucidità erudita e impressionante, e una curiosa propensione all’inefficienza, al senso di colpa e al sospiro. Questo “tipo” culturale usa la disperazione come prova della verità: la Francia è messa male e dovrà peggiorare ancora perché io abbia ragione. L’obiettivo è confermare l’analisi, ponendo fine al mondo come ragionamento assurdo. Questo, si dice, è l’intellettuale di destra. Sa cosa non si doveva fare. Ma non sa cosa bisogna fare ora o, peggio ancora, lo sa e dichiara che è impossibile da realizzare. Un’identità didattica, ma una curiosa mancanza del senso del martirio, della passione che serve, gli manca la cecità che serve per credere e agire, è troppo lucido, quindi è troppo poco vivo.

Ma è una novità – come si ripete spesso in questi giorni – sostenere che la Francia sia messa male? No. Troverete questo profilo nella prefazione di Sartre, ma di sbieco. Più di sessant’anni fa, anche Sartre tratteggiava il crepuscolo del tricolore, il declino, la “fine” imminente, la sconfitta etica. Anche lui si arrendeva all’annuncio dell’“uomo invecchiato” e all’illusione dell’uomo nuovo, sempre orientale o esotico o proveniente da altrove. (Traduzione di Mauro Zanon)

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