un foglio internazionale

Un sabato sera a Tel Aviv, dove la vita dal 7 ottobre non è più la stessa

Una democrazia dinanzi al terrore islamista.  E gli indignati selettivi che piangono le vittime solo quando il dito è puntato contro Israele. L'articolo su Le Point del 23 novembre

I caffè avevano riaperto, si bevevano moscow mules, bicchieri di chardonnay e di succo colorati, due soldati in uniforme erano seduti nel dehors accanto a dei ragazzi tatuati con i capelli lunghi. Facendo un po’ di silenzio, si poteva sentir parlare ebraico, talvolta russo, inglese o arabo. Bandiere israeliane qua e là. Una città cosmopolita e patriottica – scrive da Tel Aviv Étienne Gernelle, direttore del settimanale Le Point. Una città che non esisterebbe più se si desse ragione a quei giovani “progressisti” che, da Londra a New York, scandiscono lo slogan “Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera”, che significa lo sradicamento degli ebrei da Israele. Sarebbe la fine di Tel Aviv. Oggi si sente ancora qualche risata, si intravedono dei flirt, uomini, donne, secondo la preferenza di ognuno, degli appuntamenti. Conversazioni serie, spesso, e dei volti gravi. A Tel Aviv, non si parla d’altro. Scende la notte, ormai, ma il sole non è ancora tramontato sul 7 ottobre. Quel giorno non finisce più. Come potrebbe essere altrimenti?

 

Poco prima, nel pomeriggio, la grande marcia delle famiglie degli ostaggi si era conclusa a Gerusalemme, davanti all’ufficio di Benyamin Netanyahu, con alcuni fischi. Abbiamo lanciato dei palloncini gialli, mentre risuonava l’emblematica canzone “Yerushalayim shel zahav” (“Gerusalemme d’oro”, canzone popolare israeliana, scritta e composta da Naomi Shemer, ndr), in una versione interpretata da Ofra Haza, una celebre cantante oggi scomparsa, la cui famiglia era originaria dello Yemen. A proposito, non ci sono più ebrei nello Yemen. Ofra Haza, alcuni se lo ricordano, cantò a Oslo nel 1994, in occasione della cerimonia per il premio Nobel per la Pace consegnato a Ytzhak Rabin, Yasser Arafat e Shimon Peres. Quanto è lontano quel momento… 

 

Sabato, a Gerusalemme, le persone esponevano cartelli con le foto degli ostaggi, alcuni di 3 o 4 anni. Uno dei rappresentanti delle famiglie, Yuval Haran, capelli lunghi, occhiali rossi, la cui madre è stata sequestrata nel kibbuz di Be’eri, lo dice al microfono, con una vece leggermente tremolante, e in inglese, per essere capito da tutti, compresi i giornalisti stranieri: “Tutti nel mondo, tutti i paesi e tutte le organizzazioni dovrebbero gridare ‘Riportateli a casa ora’”. Sa bene che non è cosi. L’Onu attacca Israele ogni giorno, numerosi media occidentali, dopo aver sguazzato nella grande menzogna del presunto bombardamento dell’ospedale Al-Ahli a Gaza da parte dell’esercito israeliano, mettono ora in discussione il fatto che un altro ospedale, Al-Shifa, sia servito da base operativa per Hamas. Perché un tale accanimento? Il “doppiopesismo” denunciato da alcuni non è forse quello che si crede. Ribadiamolo: quanti di questi indignati di oggi hanno avuto un sussulto dinanzi alla sorte di migliaia di musulmani massacrati da Daesh in Siria e in Iraq? Quanti manifestanti per gli oppositori di Gaza giustiziati da Hamas e il cui coraggio meriterebbe la nostra ammirazione? Tartufi che piangono le vittime delle bombe solo quanto il dito è puntato contro Israele… 

 

Certo, ci sono delle cose da dire sullo stato ebraico, e soprattutto sul suo governo. Il vantaggio è che si possono dire, appunto, anche nei caffè di Tel Aviv. Tutto ciò si chiama democrazia, stato di diritto. La libertà di espressione e quella, molto semplicemente, di respirare. Perché si può essere arabi in Israele e avere il diritto di voto. Ma non si può essere ebrei e vivere a Gaza. Si può essere al massimo ostaggi… Possiamo a malapena immaginare, tra l’altro, la paura dei prigionieri di Hamas. Ma chi sono quelli che, in Francia così come negli Stati Uniti, strappano i manifesti che raffigurano i loro volti? Si credono forse dal lato giusto della Storia? Indomiti di paccottiglia, progressisti fasulli, incapaci di vedere che le strade di Tel Aviv sono una parte di noi, che i suoi caffè non sono meno degni di esistere di quelli adiacenti al Bataclan.

 

Va aggiunto naturalmente a tutto ciò il persistente “socialismo degli imbecilli”, o come coniugare l’odio degli ebrei e la buona coscienza. Il nostro pensiero va a Zola, che nella sua “Lettre à la jeunesse”, scrisse queste parole: “Dei giovani antisemiti, esistono veramente? Ci sono dunque dei cervelli nuovi, delle anime nuove, che questo stupido veleno ha già squilibrato? Che tristezza, che inquietudine, per il Ventesimo secolo che sta per iniziare!”. Siamo già avanzati nel Ventunesimo secolo, e tutto ciò continua.

 

(Traduzione di Mauro Zanon)
 

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