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Un Foglio internazionale

“Dove sono le campagne per il rilascio degli israeliani rapiti da Hamas?”. Quegli ostaggi di serie B

Douglas Murray sferza il silenzio dei politici e delle celebrità occidentali sui civili israeliani nelle mani dei terroristi

"La mia mente continua a tornare indietro di quasi dieci anni, alla Nigeria del 2014” scrive Douglas Murray sullo Spectator. “Come alcuni lettori ricorderanno, la notte del 14 aprile, 276 studentesse, prevalentemente cristiane, sono state rapite dai terroristi del gruppo Boko Haram. E’ successo in una scuola di una città chiamata Chibok, nello stato di Borno. In un certo senso è ovvio il motivo per cui ci fu tale indignazione internazionale per l’incidente. Dopotutto si trattava di 276 studentesse rapite da un gruppo terroristico islamico. Anche un mondo che aveva assistito all’assedio della scuola di Beslan nel 2004 e che cominciava a vedere l’operato dell’Isis aveva ancora la capacità di rimanere scioccato. Eppure anche la reazione internazionale è stata sorprendente. Dopotutto non è che i conflitti nel nord della Nigeria siano oggetto di un fascino intenso per i non nigeriani. Ricordo bene che, al ritorno dal mio primo viaggio nello Stato del Borno, il direttore di un giornale mi disse che non pensavano che un articolo sul massacro della chiesa nigeriana sarebbe stato adatto alle pagine di quella settimana perché quella settimana avevano già pubblicato un articolo sull’Africa (da Johannesburg, mi sembra di ricordare). Tuttavia, per qualche ragione, la storia delle studentesse di Chibok prese piede, e in breve tempo quasi tutte le celebrità del mondo salirono a bordo. Tutto ruotava intorno all’hashtag ‘Bring Back Our Girls’.

Michelle Obama è stata una delle prime megastar a promuovere questo slogan. Si è fatta fotografare alla Casa Bianca con in mano un pezzo di carta con lo slogan mentre mostrava una faccia triste. Ed era sincero, chiaramente. Era difficile sapere come reagire altrimenti al fatto che tutte queste studentesse fossero tenute in ostaggio. Come spesso accade con le campagne sui social media, è diventato presto una sorta di distintivo d’onore, come quello strano momento in cui ci si aspettava che tutti i leader politici maschili in Gran Bretagna indossassero una maglietta con la scritta ‘Ecco come appare una femminista’. Non reggere il cartello faceva una brutta figura. Non che non tenere un cartello significasse che eri esattamente un sostenitore di Boko Haram, ma i punti si guadagnavano sicuramente stando dalla parte delle studentesse. La bellissima Salma Hayek ha mostrato un cartello ‘#BringBackOurGirls’ sul tappeto rosso di Cannes quando è arrivata al festival del cinema con uno splendido vestito rosa. Hermione Grainger di Harry Potter, alias Emma Watson, si è fatta fotografare con in mano il messaggio mentre appariva particolarmente seria. Come se potesse essere tutto ciò che si frapponeva tra la prigionia e il rilascio delle studentesse. Julia Roberts ha fatto lo stesso. Il punto è che la campagna ha davvero preso fuoco. E’ stato un grande successo, in termini pubblicitari. Non tanto in termini pratici. La storia gradualmente svanì. 

A un certo punto Boko Haram ha gentilmente prodotto un nastro ‘prova di vita’ che era anche quello che la maggior parte di noi chiamerebbe un nastro ‘prova di stupro’. Le ragazze non furono mai rilasciate in massa. Un piccolo gruppo di ragazze è stato restituito o salvato. Alcune avevano la sindrome di Stoccolma e restavano con i loro ‘mariti’. Una è stata salvata solo un paio di mesi fa. Nel frattempo il governo e l’esercito nigeriani cercavano di nascondere la propria incompetenza. Ricordo bene che una società di pubbliche relazioni con sede a Londra mi si avvicinò per chiedermi se volevo scrivere sui successi del governo nigeriano nel caso Chibok. Ho detto loro dove andare, ma i nigeriani la vedevano così. Se non potevi salvare le studentesse, almeno potevi provare a pagare le persone per fingere di averlo fatto. 

Perché riesumo questa storia infelice? Solo perché ci avevo pensato questa settimana mentre sedevo a Tel Aviv con le famiglie degli israeliani rapiti e portati a Gaza il mese scorso. Le storie sono spaventose almeno quanto il caso Boko Haram. Si ritiene che il 7 ottobre siano stati rapiti 240 israeliani. Il numero a volte cambia man mano che continuano a essere trovati pezzi di corpi nel sud di Israele, ma la cifra è relativamente solida e non lontana dal numero di Chibok. Una differenza è che la fascia d’età dei rapiti israeliani è più ampia. La più giovane israeliana rapita è Kfir Bibas, di nove mesi, anche se una delle donne rapite era incinta di otto mesi e si prevede che abbia partorito durante l’ultimo mese di prigionia a Gaza. Se suo figlio è nato ed è ancora vivo, Kfir sarà il secondo più giovane. Tra i rapiti si può trovare l’intera gamma della società israeliana. Ho incontrato i genitori del ventunenne Omer Shem Tov, che è stato rapito con tre dei suoi amici mentre cercavano di scappare dal festival Nova Music. Suo padre mi ha descritto come aveva parlato con suo figlio mentre scappava dai proiettili, gli aveva detto di attivare il rilevamento della posizione sul suo telefono, e poi guardò con incredulità vedendo la posizione di suo figlio muoversi in tempo reale e mostrare che era stato portato a Gaza. Da allora sono emersi filmati di Omer e dei suoi amici legati e portati lì. 

Uno degli ostaggi più anziani è Yaffa Adar, una nonna di 85 anni che non riesce ad arrivare in bagno da sola. E’ stata rapita dal suo letto da Hamas e portata su un golf cart da un gruppo di terroristi di Hamas. Il filmato del rapimento era la pura euforia di questi giovani per il loro grande successo militare nel rapire un’anziana nonna malata. Sua nipote mi ha parlato questa settimana dell’orrore di pensare a sua nonna sotto Gaza senza le medicine di base di cui ha bisogno per sopravvivere. Le famiglie degli ostaggi israeliani si sono riunite attorno a un edificio a Tel Aviv che è stato loro donato affinché avessero un luogo dove incontrarsi, piangere e aspettare. In Israele, il movimento ‘Bring them home now’ è ovunque. Le foto delle vittime dei rapimenti incombono anche sulle deliberazioni della Knesset israeliana. 

Ed ecco la mia domanda. Dov’è la campagna internazionale? Dove sono le attrici? Dove sono gli influencer di spicco che non sono ebrei? Ci sono stati manifesti affissi fuori Israele, ma da Londra a New York questi sono più famosi per essere stati strappati che per essere esposti. Quindi ripeto, dov’è la campagna? E perché non ha preso piede?”.

(Traduzione di Giulio Meotti)

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