un foglio internazionale
Il mondo delle policrisi
Pandemie, guerre, disastri economici e naturali: le emergenze interagiscono in modo che il loro insieme è più grande della somma delle loro parti
Pandemia, siccità, allagamenti, mega tempeste e incendi, minacce di una terza guerra mondiale: ci siamo rapidamente abituati a questi shock”. Così inizia il commento dell’economista Adam Tooze sul Financial Times: “Al punto che, occasionalmente, vale la pena fare un passo indietro e considerare la stranezza della nostra situazione. Come ha detto di recente l’ex segretario al Tesoro americano Lawrence Summers: ‘Queste sono nel loro insieme le sfide più complesse, disparate e trasversali che mi ricordo in quarant’anni che mi interesso a questi argomenti’. Certo, i meccanismi economici di cui siamo tutti a conoscenza hanno ancora un grande potere. La volatilità dei bond ha abbattuto un governo britannico incompetente. Potresti dire che è stata una dimostrazione elementare di quanto sia importante la disciplina economica. Ma perché il mercato dei titoli di stato era così volatile in partenza? La causa di fondo è stato un enorme pacchetto di aiuti sull’energia, oltre alla determinazione della Banca d’Inghilterra a vendere i bond che aveva acquistato nella lotta contro la pandemia Covid-19. Alle prese con questi shock, economici e no, non sorprende più di tanto che un termine poco familiare stia entrando nel vocabolario politico – policrisi (la parola usata da Tooze è ‘polycrisis’, ndt).
Un problema diventa una crisi quando mina la nostra abilità di risolverlo e dunque minaccia la nostra identità. Nelle policrisi gli shock sono molteplici, ma interagiscono in modo che il loro insieme è più grande della somma delle loro parti. A volte abbiamo l’impressione di perdere il senso della realtà. Il poderoso fiume Mississippi si sta davvero prosciugando, rischiando di tagliare fuori i terreni del Midwest dall’economia globale? Le rivolte del 6 gennaio davvero minacciano la democrazia americana? Siamo davvero sull’orlo del disaccoppiamento tra le economie occidentali e quella cinese? Cose che un tempo sarebbero sembrate assurde ora sono diventati dei dati di fatto.
Questo è uno shock. Ma è davvero qualcosa di completamente nuovo? Ripensate agli anni 2008-2009. Vladimir Putin invase la Georgia. John McCain scelse Sarah Palin come sua vice presidente. Le banche erano sull’orlo del baratro. Il Doha World Trade Organization round (un’iniziativa dell’Organizzazione mondiale del commercio per ridurre gli ostacoli al libero scambio, ndt) si arenò, e lo stesso successe durante i negoziati sul clima a Copenhagen l’anno successivo. E, dulcis in fundo, si stava diffondendo l’influenza aviaria.
L’ex presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, che ha reso attuale la parola policrisi, l’ha presa in prestito nel 2016 dal teorico della complessità francese Edgar Morin, che l’ha utilizzata per la prima volta all’inizio degli anni Novanta. Come disse Morin stesso, una nuova percezione di rischio globale è entrata nella sfera pubblica con l’allerta ecologista dei primi anni Settanta. Quindi abbiamo vissuto in una policrisi tutti questi anni? Non dobbiamo farci prendere dalla condiscendenza.
Negli anni Settanta, che tu fossi un eurocomunista, un ecologista o un conservatore in preda all’angoscia, potevi comodamente attribuire tutte le tue preoccupazioni a un’unica causa – il capitalismo, troppa o troppo poca crescita economica o un eccesso di diritti acquisiti. Questo significava anche che uno poteva immaginare una soluzione semplice, che fosse la rivoluzione sociale o il neoliberismo. Ciò che rende le crisi degli ultimi quindici anni così difficili da capire è che non è più possibile puntare il dito contro un’unica causa e, di conseguenza, un’unica soluzione. Se negli anni Ottanta era ancora possibile sostenere che ‘il mercato’ potesse manovrare efficientemente l’economia, garantire la crescita, disinnescare dei temi politici controversi e farti vincere la guerra fredda, chi potrebbe sostenere lo stesso oggi? La democrazia sembra essere fragile. Lo sviluppo sostenibile necessita di una politica industriale quanto meno divisiva. E la nuova guerra fredda tra Pechino e Washington sembra essere appena iniziata.
Nel frattempo, la diversità dei problemi viene alimentata da un’angoscia crescente verso il fatto che lo sviluppo economico e sociale ci stanno portando ai confini di una catastrofe ecologica. Il ritmo del cambiamento è sconvolgente. Nei primi anni Settanta, la popolazione globale era meno della metà rispetto a oggi, e la Cina e l’India erano molto povere. Oggi il mondo è organizzato tra stati potenti che hanno quasi abolito la povertà assoluta; genera un prodotto interno di novanta mila miliardi; dispone di un arsenale di 12.705 armi nucleari; e ogni anno esaurisce le scorte di anidride carbonica al ritmo di 35 miliardi di tonnellate metriche di CO2. Immaginare che i nostri problemi futuri saranno quelli di cinquant’anni fa significa non capire la velocità e le proporzioni della trasformazione storica.
Quindi, cosa dobbiamo aspettarci? In un mondo dominato da un’unica fonte di tensione, potresti immaginare una crisi culminante al termine della quale può emergere una soluzione. Ma questo genere di scenario wagneriano non sembra più plausibile. La storia moderna racconta di progresso frutto d’improvvisazione, innovazione, riforma e gestione della crisi. Abbiamo sfiorato varie grandi depressioni, inventato vaccini per arginare le malattie ed evitare una guerra nucleare. Forse l’innovazione ci consentirà di governare le crisi ambientali alle porte. Forse. Ma è una corsa inesorabile, perché le soluzioni tecnologiche dettate dalla crisi raramente riescono a indirizzare le tendenze nel lungo termine. Più siamo in grado di gestire l’emergenza, più cresce la tensione. Se avete trovato gli ultimi anni stressanti e se la vostra vita è stata sconvolta, è ora di allacciarsi le cinture. La nostra corsa su un filo senza fine è destinata a diventare più precaria e snervante”.
(Traduzione di Gregorio Sorgi)